Pensare prima agli altri. Una riflessione di Heval Shahin Serehed

Sono circa 5 mesi da quando ho lasciato casa, in questo tempo qui in Rojava ho attraversato un percorso di formazione che va dalla storia del medio-oriente, alla storia del Kurdistan, alla filosofia e metafisica alla jineolojy (scienza della donna), dall’internazionalismo al training medico e militare, alla studio di nuove lingue il tutto condito da un costante allenamento e autodisciplina. Quando ero sull’aereo per me era un concetto quasi astratto quello della rivoluzione, della lotta al fascismo, al terrorismo, al sistema capitalista che sfrutta il territorio distruggendolo fino a lasciare solo morte per le persone che lo vivono.

Per me è veramente difficile riuscire a spiegare il cambiamento che è avvenuto dentro di me, è impossibile perché quando vivevo in Italia seppur con idee contrastanti dal pensiero comune facevo parte del sistema che tanto sognavo di cambiare e fino a qualche tempo fa questa esperienza per me era appunto un’esperienza. Ma il Rojava mi ha cambiato la vita, stare con la società, vedere il valore della collettività, passare 24/24 ore il tempo con compagni provenienti dagli Stati Uniti, Europa, Asia, Australia, America del Sud, medio-oriente, condividere le nostre vite mi ha dato la possibilità di vedere il mondo con un filtro diverso, con una visione che ancora contrasta il mio vecchio me, perché abituato ad una vita liberista, individualista centrata sul raggiungimento di non so quale tipo di svolta che mi ha sempre solo dato tristezza e senso di vuoto ma ha plasmato il modo in cui vedo le cose.

Questo vuoto adesso è sparito, solo il mio cuore sa la malinconia che provo pensando alla mia famiglia e agli amici che ho lasciato, una malinconia che non proviene solo dal fatto di non essere con loro ma soprattutto dall’impossibilità da parte mia di spiegare cosa si prova a vivere una vita rivoluzionaria, una lacuna che devo imparare a colmare per riuscire a condividere quello che si prova quando si lascia un sistema puntato solo al guadagno che mette da parte gli affetti, che ruba tempo e dunque vita e rende schiavi. Mi dico ‘impossibile farlo’, ma solo perché ancora non ho maturato la coscienza necessaria a trasmettere lo spirito che mi invade in questi giorni.

Qui ho incontrato ottimi amici da tutto il mondo, mi sto adattando ad una cultura distante anni luce da quella a cui ero abituato, ogni giorno pratichiamo il tekmil un sistema di critica e autocritica che serve per mettere in luce problemi e migliorare se stessi, i tuoi amici e di conseguenza l’ambiente che ti circonda, da dove vengo io la critica è un attacco personale per cui sentirsi offesi qui è considerata un dono, perché se non sono cosciente di un mio comportamento errato tu mi doni la conoscenza e io posso cambiare.

Un altro punto che mi fa pensare è la coscienza sul cibo e sulle cose che hai, nella cultura materialista tutto è inutile e necessario, abbiamo così tante cose e ne vogliamo altrettante che alla fine non sappiamo che farne qui anche un solo pomodoro prende valore, ti fa capire quanto lavoro ci sia dietro la sua produzione e quanto ci sia il bisogno di rispettarlo, i vestiti che indossiamo ad esempio, le armi che abbiamo, cuscini, coperte, zucchero, medicine, TV qualsiasi cosa in un paese dove vige un embargo, una guerra economica e non solo combattuta al fronte ti fa capire il valore di tutti i martiri che sono caduti per combattere l’oppressore che vuole solo genocidi, piattezza culturale, comandare ad ogni costo, guadagnare ad ogni costo. All’inizio anche io mi chiedevo perché quest’arma non é perfetta, perché devo cucire la divisa, perché non posso semplicemente averne una nuova? E li ho capito che anche una maglia strappata oggi é tra le mie mani perché migliaia di donne e uomini liberi hanno deciso di dare loro stessi fino alla fine per far si che oggi noi possiamo continuare la lotta con i migliori mezzi a disposizione.

All’inizio di questa rivoluzione c’erano solo 4 persone perseguitate da uno stato fascista, solo un kalashnikov e solo un caricatore, oggi siamo migliaia e migliaia, oggi milioni di civili possono coltivare le loro terre, commerciare, avere il pane sulle loro tavole e questo è stato pagato con il sangue perché i nostri martiri non si sono piegati, non hanno abbandonato la loro lingua, la loro cultura, la loro gente solo per adeguarsi a questa globalizzazione, alle multinazionali, alle religioni di stato imposte, agli stati nazionali che creano un falso senso di fratellanza annientando tutto ciò che non segue la legge.

Ma sto divagando troppo, un’impresa omerica diverrebbe ridurre 41 anni di lotta in poche righe. Anche riassumere 5 mesi di vita è difficile senza riuscire a dare una chiave a chi legge le mie parole, parole che risulterebbero blande e intrise di ideologia spiccia. Questa chiave per me sono le persone, d’altro canto YPG significa Unità di Difesa del Popolo, un popolo che ha alzato la testa da sempre e qualche settimana fa ha sfondato una base militare senza armi che era lì da 20 anni, che per risposta riceve bombardamenti da costosissimi aerei e droni prodotti e venduti da paesi esportatori di ‘democrazia’, lo stesso popolo che mai si è fermato davanti al sangue che ha versato e con scioperi della fame, manifestazioni, autoorganizione oggi conta comuni, cooperative, eserciti autogestiti e vive come vuole nonostante la pressione di miliardari assetati di potere.

Un popolo che sta dimostrando al mondo seppur in sordina, poiché i media sono interessati agli scoop più che alla verità, che la vita è libertà e non sterile omogeneizzazione e che basta poco per vivere in eguaglianza, ecologia e democrazia. Sostentamento, riproduzione e autodifesa sono i tre fondamenti del regno animale di cui facciamo parte, schiavitù, monopolio, oppressione sono prodotti di chi non è in grado di vivere invece e questo lo sento quando entro in un bazar, quando sono ospite a casa di una famiglia, quando giro per strada e la gente ti offre tutto ciò che ha, che pensa prima a te e ti rispetta come essere umano a prescindere da lingua, colore, religione, etnia.

Questo è quello che provo quando bevendo un tè con un signore anziano mi racconta di come i suoi figli siano caduti nella guerra ma che continua a lottare e dare il suo contributo a questa rivoluzione con tutti i mezzi a sua disposizione e con il sorriso sulla bocca nonostante una barriera linguistica mi dice ‘Italia? Pasta! Totti!’ e mi tratta come se fossi uno dei suoi figli pur non avendomi mai visto in vita sua. Questo provo quando bambini per strada ti sorridono e salutano perché sanno che non siamo oppressori ma veniamo dalle città e dai villaggi, che siamo loro fratelli, padri, madri, cugini, amici e non rispondiamo a nessuno stato, a nessuna multinazionale, a nessun politico con manie di grandezza ma portiamo con noi ogni proiettile che verrà sparato solo per la libertà, per l’autodifesa, per la difesa delle terre e della possibilità di essere diversi e poterne discutere senza discriminazioni. Questo è quello che provo quando condivido lo stesso piatto, lo stesso bicchiere, la stessa forchetta con un fratello venuto da un paese lontano che come me ha lasciato tutto quello che di confortevole aveva perché ha capito anche lui che il cambiamento parte prima da te stesso e poi dal mondo che ti circonda, perché non c’è la bacchetta magica o un partito che ti risolve i problemi, che non basta lamentarsi ma serve agire. Questo è quello che provo quando vedo un ragazzo senza arti che continua ad impugnare un’arma che continua a lottare perché la sua vita non vale più di quella di qualsiasi altra persona e se qualcuno è schiavo nessuno è libero. Questo è quello che provo, felicità, soddisfazione, voglia di continuare a mettermi in discussione e dare tutto me stesso.

Potrei condividere mille e mille esempi, pensieri, momenti e lezioni che ho imparato ma sento che comunque rimarrebbero solo vuoti di senso perché anche io al caldo della mia falsa società potevo provare solo empatia a metà e mi scuso perché non ho i mezzi per spiegare qualcosa di così bello neanche a mia madre che mi ha messo al mondo e questo significa che devo continuare a combattere con me stesso prima, dare di più di quanto sto facendo perché non è abbastanza.

Mi scuso, ma adesso volevo condividere questo momento con voi, dopo quasi 5 mesi di momenti anche difficilissimi sono alla conclusione di un percorso ma all’inizio di uno più grande assieme ai miei compagni e oggi festeggiamo fino a notte, tutti assieme ballando e cantando intorno al fuoco, non ho foto che testimoniano tutto perché non servono, quando vivi intensamente certe immagini rimangono tue per sempre. Questa notte festeggiamo da domani si ritorna a lavorare duro, per noi, per la gente, per la terra, per tutti quelli che sentono così profondamente un ingiustizia e non possono sentirsi felici anche se questa avviene a chilometri di distanza dal tuo piccolo, piccolissimo micromondo.

Oggi abbiamo giurato a Serok Apo che da 20 anni paga con la sua detenzione fisica le sua filosofia di amore e libertà, ai martiri che sono caduti per aprire i nostri occhi, alle YPG e YPJ che sono al fronte contro assassini, violentatori, criminali e a tutti i compagni pronti o non ancora che difenderemo la libertà di poter liberarci senza tirarci indietro, mai. Amo i miei amici, amo la mia famiglia come amo un immigrato che abbandona la sua terra, un combattente che resiste, un lavoratore che si spacca la schiena, un ragazzo che da tutto se stesso perseguendo nel suo sogno, come amo la libertà e l’idea che un giorno ci sia uguaglianza per tutti, nessuno escluso. Odio solo per i fascisti, oppressori, assassini, padroni e finché avremo fiato in corpo continueremo ad amare, odiare, ballare, lottare, studiare, migliorare noi stessi.
Lunga vita alla rivoluzione, lunga vita alla guerriglia, lunga vita alle compagne e ai compagni. Per una vita che vale la pena essere vissuta, proverò a essere migliore e trasmettere questo spirito a chiunque voglia ascoltarlo, lotta ora e sempre. Bijî Serok Apo, Bijî Serok Apo, Bijî Serok Apo!!!

Heval Shahin Serehed

Combattente italiano YPG

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