“Sembriamo l’armata Brancaleone: siamo bellissimi!” – La liberazione di Baghoz

Partiamo in fretta e furia, del resto in accademia c’è stato insegnato che in un minuto e mezzo dobbiamo esser pronti a tutto. Mi ero fidato di “livemap”, credendo fosse Marashidah l’ultima città rimasta, invece scopro che è a Baghoz che si chiuderà questa storia. Ci ritroviamo nel solito quartier generale, a fianco dell’hotel dismesso nel centro di Hajin. Mangiamo e beviamo con i comandanti, mentre c’illustrano i progressi fatti su un tablet. Neanche il tempo di finire che entra Marwuan: “Allora noi andiamo” dice al comandante di zona. Colgo l’occasione al volo, “Posso andare con loro?” domando. Si scambiano un’occhiata, poi Marwuan fa cenno di sì con la testa. “Uao! E’ stato facile a ‘sto giro” penso tra me e me. A volte c’è una sorta di atteggiamento protettivo nei confronti degli internazionali, e spesso raggiungere le prime linee è un vero e proprio calvario.

L’avanzata è fissata per la notte del giorno dopo. Giriamo in macchina visitando le varie nocte disposte appena fuori da Baghoz. Facciamo più viaggi, caricando e scaricando tonnellate di munizioni, distribuendole equamente ai vari gruppi. Il giorno dell’attacco ci ritroviamo con diverse altre squadre, in un ampio cortile al riparo tra due case. Guardo i nostri: molti sono giovanissimi, appena freschi d’accademia, alcuni ragazzi arabi sono truccati col mascara e portano strani ciuffi simili alla moda “emo” di qualche anno fa; un altro indossa una maschera antigas, e un’accetta gli spunta da dietro la schiena. C’è una certa estetica che c’accomuna tutti, ma ognuno indossa pezzi di uniformi diverse e kefieh dei più svariati colori. Sembriamo “l’armata Brancaleone”: siamo bellissimi! Essendo unità di “eremì” non c’è tutto l’ordine e il rigore tipici dei tabur quadri, ma questi ragazzi comunque stanno andando a combattere contro gente spietata, organizzata, e spesso addestrata in Occidente, eppure nessuno di loro mostra il minimo segno di paura. Il morale è forte: si balla, si canta, e si bevono ettolitri di çai. All’imbrunire ci raggruppiamo tutti, Humvee e Dshke compresi, davanti ad un grande solco scavato da un buldozer. Oltre quella linea è tutta zona Daesh. La grossa ruspa blindata ci precede, il nostro autista la segue, ben attento a restare sulle tracce dei cingoli visto che tutta la zona è minata. Per ogni gruppo di case scendiamo e tiriamo “bombe fitil” per ripulirle dalle trappole esplosive. Ne tireremo un centinaio, forse di più, e quasi tutte fanno saltare qualche cosa (il rumore è più forte quando oltre al fitil esplode qualche ordigno). Avanziamo così diverse ore, prendendo più di mezza città.

Sono le quattro di notte quando Daesh passa al contrattacco. Hanno preso di mira le due case più isolate, circondandole quasi del tutto. Io mi trovo a circa duecento metri da loro, sentiamo le grida “Allah akbar!” e vediamo le scie dei razzi che vengono copiosamente sparati. Alcuni proiettili arrivano nella nostra direzione. Ad una certa vediamo gli Humvee ripartire da quelle case a tutta velocità, e pure a noi viene ordinato di ritirarci. I più si ammassano sugli Humvee come meglio possono, ricordandomi le foto di alcuni autobus in India stracarichi di gente, ma un gruppetto di noi rimane senza passaggio, e ci tocca farcela a piedi. Corriamo al buio più completo, con tutta l’attrezzatura pesante, con il sibilo dei proiettili che passa sulle nostre teste, cercando di rimanere sulle tracce del buldozer perché tutto intorno è minato. Insomma, non è proprio il massimo. Guardo il ragazzino accanto a me che zompetta con lo zaino delle munizioni, pesante svariati chili, e sono contento per lui che possiede una decina d’anni in meno di me. Ci riuniamo tutti qualche casa più in là. Abbiamo pochissime coperte, così dormiamo ammassati gli uni sugli altri per via del freddo. Daesh intanto si è ritirato, e c’è da andare a recuperare i corpi dei compagni caduti.

Il primo lo carichiamo senza problemi, il secondo è in posizione più avanzata, e mentre lo stiamo issando sul retro cominciano a spararci addosso. Un razzo a momenti ci prende. L’autista riparte a manetta; io sono nel bagagliaio e ho la gamba incastrata tra i due corpi. Sfilandola perdo una scarpa, ed è mentre frugo in quel groviglio che mi accorgo d’una nuvoletta di fumo che fuoriesce dalla bocca di uno dei due. “Hey, questo qua respira ancora!” dico al compagno accanto a me. È vivo, ma è più di là che di qua. Dubito che ce la farà. Ci lasciano alla casa di prima, e vanno diretti all’ospedale da campo. Riconquistiamo diversi edifici. Il nostro gruppo si ferma in quei due dai quali eravamo stati scacciati nella notte. Siamo sul tetto, quando ad una certa cominciano a pioverci addosso proiettili. Guardo dai buchi nel muro che abbiamo fatto per proteggerci, ma non riesco a capire da dove ci stanno sparando. Chiedo al compagno accanto a me, ma dice una parola in curdo che non conosco; chiedo ancora, e lui fa un gesto con le mani come a dire “inclinato”. Allora capisco: c’è un grosso silos pendente, e guardando meglio ci sono fori come feritoie uguali ai nostri. Concentriamo il fuoco lì. Tiriamo anche due bisfing (Rpg) che lo centrano in pieno. I colpi provenienti dal silos cessano. Nella casa accanto hanno trovato l’ingresso di un tunnel, il che spiega come la sera prima avevano fatto ad arrivare così all’improvviso.

In pochi giorni prendiamo praticamente tutta la città. Resta solo una piccolissima striscia di case, intrappolata tra noi e l’Eufrate. A separarci da questo quartiere vi è solo una distesa erbosa, priva di edifici, della lunghezza di circa un chilometro. I nostri kalashnikov sono inutili da quella distanza, ma abbiamo diversi BKC (grosse mitragliatrici) e un Xanas (fucile Dragunov). Gli airstrike non possono colpire quella zona, perché è certa la presenza di diversi civili (addirittura il battaglione dall’altro lato rispetto al nostro libererà alcuni Yazidi prigionieri dal 2014). Daesh non ha più la forza per contrattaccare; provano qualche sortita, la notte, ma sempre solo di un paio di persone in moto, probabilmente per minare la strada. Li respingiamo ogni volta. I loro cecchini ci sparano spesso, fortunatamente con scarsi risultati.

Un pomeriggio siamo sul tetto e Marwuan sta sparando qualche colpo col Dragunov, quando vediamo uno dei loro furgoni. Improvvisamente mi ricordo che in una delle loro armerie abbiamo trovato un “SKS”: è un vecchio fucile sovietico, spara le stesse munizioni del kalashnikov, ma fino a 1.000-1.200 metri ci arriva. Corro a prenderlo, e lo carico con una manciata di munizioni che ho in tasca, mentre mi fiondo su per le scale. Spariamo entrambi una dozzina di colpi, mirando all’abitacolo. Non so se guastiamo il mezzo, o feriamo l’autista, o semplicemente lo spaventiamo, ma c’andiamo vicini perché lo vediamo scendere e scappare a gambe levate, lasciando lì il camion. Marwuan se la ride alla radio, e due compagni sono in piedi accanto a me; io sono sempre lì con lo sguardo puntato, quando all’improvviso il muro va in frantumi. Il ragazzino accanto a me grida “Mi hanno colpito! mi hanno colpito!”. Guardo il foro nel muro. “BAM!” un altro foro, questa volta alla mia sinistra. Non devono aver gradito lo scherzetto del furgone, perché ci stanno sparando addosso con uno Zagros. Lo Zagros è un fucile di grosso calibro, viene autoprodotto riciclando le canne delle mitragliatrici Dshke, e spara le stesse munizioni (proiettili lunghi una decina di centimetri per intendersi), e ha la brutta abitudine (o buona a seconda di se sei te a tirare il grilletto anziché fare da bersaglio) di passare i muri come nulla fosse. Afferro il Dragunov e corriamo verso le scale. Il ragazzino continua a strillare e perde molto sangue. Le scale sono mezze crollate, e per poterle scendere bisogna strisciare in una fessura triangolare. Io e un compagno arabo restiamo per ultimi; lui è un omone enorme dalla folta barba nera, porta un pugnale ricurvo d’argento in mezzo ai caricatori, indossa pezzi d’uniforme nemica e se non sapessi per certo che sta con noi potrebbe apparire un po’ inquietante; ma ha gli occhi di un uomo buono ed è sempre stato gentile con me e gli altri compagni. Ha appena infilato le gambe nella fessura, quando si fruga in tasca preoccupato e indica un punto alle mie spalle. “BAM!” intanto lo Zagros spara ancora. Guardo che cosa ha perso, e noto una batteria esterna per cellulare al centro del tetto. Mentre mi rigiro per guardarlo il mio cervello in un millesimo di secondo elabora la risposta più sensata possibile: “Ma manco per il cavolo!”. Buono, segno che funziona ancora, ma inspiegabilmente trasmette al mio corpo tutt’altro, una sorta di “…e vabbé”. Così corro a testa bassa a prendergli la batteria, maledicendo tutti i santi che mi vengono in mente in quel momento. Quando gliela porgo mi ringrazia calorosamente. L’uomo buono vestito da Daesh ha ritrovato il sorriso. Corriamo al piano terra, dove il ragazzino continua ad urlare. Non è grave, probabilmente ha una scheggia nel braccio, ma ossa e arterie sono intatte. Lo medichiamo e lo facciamo portare via da un Humvee.

Intanto i giorni passano nella nocta. Vorremmo avanzare, con le poche case rimaste potremmo finire il lavoro in uno-due giorni, ma l’ordine ci viene sempre negato. Per passare il tempo ripuliamo tutti gli edifici della zona. Troviamo di tutto, specialmente droni e cinture esplosive. Il compagno Şami si mette in testa di farle saltare, così ne raccoglie il più possibile e le pressa tutte assieme. Le fa esplodere accanto al grande silos, nella speranza di buttarlo giù, ma il cemento armato prevale, e anche senza un pilastro resiste. Sami è contento lo stesso, fin quando sulla via del ritorno non nota qualcosa che gli cambierà l’umore irrimediabilmente. È il corpo senza vita di una bambina, o quel che ne resta. Le gambe ed un braccio sono saltate, resta solo il torso, una manina carbonizzata, e il cranio, aperto come il guscio di un uovo. Indossa una giacchetta rosa con delle stelle viola; sembra una bambola rotta. Avevo già visto cadaveri di donne e bambini ad Afrin, morti sotto i bombardamenti della Turchia, ed i compagni che conoscevo che sono caduti ormai non li conto più neanche; certo, non resto insensibile davanti alla morte, ma non mi fa più lo stesso effetto di un tempo. Şami invece si rabbuia, quasi piange, non spiccica parola per tutto il ritorno se non “Era solo una bambina”, cosa che ripete di tanto in tanto con la voce carica di dolore. In effetti non aveva colpe, la sua sola sfortuna era stata nascere nella famiglia sbagliata. Le due macchine colpite erano entrambe piene d’esplosivo, segno che suo padre, o chi viaggiava con lei, era sicuramente dello Stato Islamico. Del resto la lotta di Daesh è sempre stato un affare di famiglia: le donne si uniscono alla polizia segreta, si fanno esplodere, e anche loro si macchiano dei peggio crimini; i figli, seppur giovanissimi, guidano autobombe e piazzano mine dove possono; i bimbi più piccoli molto spesso vengono portati nelle missioni suicide. Nessuno è escluso, e il confine tra vittima e carnefice è flebile e non sempre chiaro. Intanto altre squadre sono arrivate a darci il cambio.

Nel paese appena fuori Hajin i bambini rincorrono le nostre macchine. Gli lancio dal finestrino tutte le merendine e le bottigliette d’acqua che abbiamo; in cambio riceviamo grandi sorrisi e gridolini di gioia. Ma la sorpresa più grande deve ancora arrivare: ha piovuto molto in questi giorni, e quando raggiungiamo il deserto fatico a riconoscerlo. Un sottilissimo strato d’erba lo ricopre per intero, disegnando una distesa verde che si perde all’orizzonte. I miei occhi si riempiono di quell’oceano dal colore brillante. Lo guardo assorto, incredulo, come fossi al cospetto d’un miracolo.

Heval Tekoser

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