Dalla bollicina alla monocultura della mente
da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 11
di Simonetta Lorigliola
fotografie di Lorenzo Monasta
(ma vi ricordate di Eris Spagnol?)
Si potrebbe dire che di bollicine ne abbiamo piene le tasche, se in tasca si potessero infilare. Almeno di certe bollicine. Non è una battaglia contro la complessità crescente dell’offerta, ma il contrario: è una barricata contro l’appiattimento di gusto, produzioni, desideri e sogni. Pensiero, economia ed estetica. Perché in un calice di vino ci sta dentro esattamente tutto questo.
Mi spiego. Da noi (non in senso salviniano, ma solo storico e geografico), fino a 15 anni fa, le uniche diffuse effervescenze enoiche made in Italy erano quelle di Franciacorta o trentine: vini realizzati con metodo classico, il medesimo processo che fa nascere lo Champagne di cui questi “spumanti” erano – o hanno tentato di essere, secondo i critici più severi – la versione italiana.
Cominciò a bolleggiare, in quel di Borgonato (la provincia è Brescia), monsieur Guido Berlucchi, sotto spinta e guida di Franco Ziliani, enologo e mente dinamica nel mondo del vino. Era la fine degli anni Cinquanta. Ziliani, classe 1931, è forse il vero fondatore delle bolle italiane. Con intuizione geniale gli era venuto in mente di far effervescenza in una terra di vini fermi. Da dove ci era arrivato? Me lo sono sempre chiesto e ho trovato la risposta – semplice e fulminante – in un’intervista di Luciano Ferraro sul Corriere (25 settembre 2017).
Come si è appassionato alle bollicine?
“Prima del diploma mio padre a Natale aprì una bottiglia di Champagne, Heinzik-Piper. Ho ancora il gusto sul palato. Mi innamorai. Da allora torno spesso nella regione dello Champagne, ci sono stato anche un mese fa con i miei amici. Mi sono fermato a parlare quattro ore con un vigneron incontrato per caso: abbiamo bevuto di tutto”.
Calembour. Vado a Veronelli. Mi ricordo bene quando raccontava il suo primo incontro con il vino, quasi da bambino. Suo padre, mentre accostava il bicchiere alle labbra, gli diceva: “Bevi piano, e ascoltalo. C’è dentro il lavoro del vignaiolo, e va rispettato”. Ho stampato in testa il potere evocativo di quelle parole.
Non so quanto siano veri questi racconti. Ma che importa? Sono intercessori culturali, squarciano il sipario di un teatro vivente in cui lanciarsi e partecipare.
E poi? Berlucchi è cresciuto di molto. In quella stessa intervista Ziliani dice: “(Le bottiglie) non bastavano mai (…) finivamo tutto subito. Per questo comprammo uve dall’Oltrepò Pavese e dal Trentino. Nel 1970 Berlucchi vendeva 120 mila bottiglie, nel 1980 un milione. Ora vendiamo 4,2 milioni di bottiglie”.
Da Reims in giù le grandi maison funzionano così: crescita di mercato e diversificazione dei prodotti. Le linee riversate nella grande distribuzione sono una cosa, altra le linee alte, ad alti prezzi, non sempre reperibili. Nessuno dice che manchi accuratezza. Ma fare un milione di bottiglie o farne un migliaio è esattamente la stessa cosa che far le praline a Cuneo in pasticceria o far i baci perugina. Mica si muore a mangiar baci perugina. Mica sono immangiabili. Solo che lasciano il tempo che trovano (boicott Nestlè a parte). “Non cambiare stile di vita, cambia supermercato”, recitava uno slogan di un noto discount, proponendo la filosofia del surrogato al suo pubblico di espulsi, causa reddito, dal consumo delle linee alte.
Non è un giudizio: è una constatazione, con una vena di tristezza. L’ultima volta che mi è capitato di acquistare una bottiglia di un blasonato Franciacorta “base” in un supermercato, pagandola circa 14 euro (non propriamente una miseria), allo stappo mi veniva da piangere. In corpo, avevo ancora stivate le carezze vellutate di brividi legate ai vini “alti” della medesima cantina, assaporati con Veronelli. Un altro mondo.
La via di mezzo non esiste? È il destino dell’industria enoica nel liberismo autoimmune?
No. Per cambiare punto di vista e di assaggio ci sono anche (per fortuna) i grandi vini – le grandi bollicine- di piccole cantine.
Chapeaux a questi vignaioli, tanti e in crescita, e a coloro che si piccano di cercarli, trovarli e goderne.N
on si deve nemmeno tacere dello strabordare di spumanti in ogni dove.
Joško Gravner mi diceva “Oggi le bollicine sono trendy. Ormai le fanno anche a Pantelleria. E il Passito faticano a venderlo. Altro che vini di territorio. È la moda. Ma chi la crea? Il giornalismo e la critica hanno una grande responsabilità”.
Parole sacrosante. Siamo in un momento in cui se sei un produttore e non hai in listino una bolla, ti senti fuori dal tempo. Andrà bene? Mah. È controverso. D’altra parte in Italia non esiste tradizione di bollicine. Parte tutto dal Franciacorta negli anni Sessanta. E se lo champagne italiano non doveva nascere in un posto con quel nome là, dove poteva nascere? Nomen est homen. Perfetto. Le tradizioni ti portano sempre a un punto in cui sono state inventate. O importate. O accolte e rielaborate.
Resta il fatto che un metodo classico è un metodo classico. E, fosse anche fatto coi piedi, i lieviti, il tempo, le giravolte, il degorgement… fanno il loro. E si sente. Poi con l’evoluzione dei nature, del dosaggio zero e così via, altre strade interessanti si sono aperte, rinunciando all’aggiunta di zuccheri alloctoni e portando a nudo il nervo gustativo del binomio uva-vino.
Un metodo classico, resta un metodo classico.
Dopo, c’è il Prosecco. Che è stato lanciato con grande vigoria fondando, in poco più di un decennio, un boom dell’export nostrano e un sostanziale pensiero unico della bollicina.
Quando dico così non penso ai club ristretti di sommellier diplomati o ai fruitori delle Guide vini. Parlo degli “italiani” (è orribile, lo so – pardon) in generale. Fate pure un sondaggio self made: all’ora dell’aperitivo, cosa si ordina, in un locale base? Il popolo dell’apetizer con calice si posiziona in due schiere, non opposte: i fan dello strabordante Spritz (in cui vince decisamente l’arancione shock dello stucchevole Aperol sul rosso glamour dell’amaricante Campari) e i devoti della bollicina trevigiana. Ho detto “non opposte” perché in quello Spritz la base è sempre il Prosecco, probabilmente quello da battaglia, alla spina.
Ma il Prosecco non è un parvenue.
Ha la sua storia, e lo sanno bene gli abitanti del Carso, quelli di Prosek/Prosecco e dintorni. Pare che il vitigno (la glera) provenga da lì. Solite notti dei tempi. In effetti ancora oggi la glera vi è coltivata (vinificata ferma, in uvaggio con vitvoska e/o malvasia). Comunque il Prosecco, da Valdobbiadene e dintorni, viaggiava localmente, dagli anni Cinquanta in su. Si smerciava per lo più sfuso, in damigiana contadina. Anche mio padre andava a Refrontolo, provincia di Treviso, a prenderlo. Lo travasava lui stesso e in cantina, d’estate, volavano i tappi, incuranti delle gabbiette. Spesso nel bicchiere esalava odore di feccia, quando non era decisamente ridotto. Ricordo quella puzza di uovo marcio. Piaceva così. Miracoli di certi vini del contadino, oggi detti vini naturali. Altre bolle non c’erano, in quegli orizzonti.
Quel Prosecco là, era quello “col fondo”, estraneo alle grandi produzioni in autoclave partite negli anni Settanta. Ma, davvero, non era un gran vino. Quando mi sono iscritta all’università a Trieste e ho capito che esisteva il mondo, ho cominciato a tazzare l’anima a mio padre perché andasse a prendere anche un po’ di vino in Collio (oltretutto molto più vicino) e mollasse quella monocultura mentale ed enoica. Erano i primi anni Novanta e già cominciava la moda del Prosecco. Mio padre, alle mode, ci ha sempre tenuto. Lui che lavorava in città, vi accedeva facilmente. In paese era sempre tra i primi importatori di tendenze e prodotti. Un vero influencer ante litteram. In realtà era il suo modo goffo di affrancarsi dal soffocamento culturale della bassa provincia friulana. Ma tant’è: quel Prosecco maleodorante faceva furori nella taverna di casa mia, e anche altrove.
Quel vino rifermentato in bottiglia, c’è ancora, e se ne bevono dei bei bicchieri. Anche tra i Prosecchi da autoclave ci sono buoni prodotti. Non diciamo di no. Nel mare, c’è di tutto. Ammesso sempre che piaccia quella vena marcatamente amabile, quasi dolciastra, che il Prosecco lascia alla bocca. De gustibus. Però il punto non è mica quello.
Oggi siamo arrivati a una quantità di bottiglie che rasenta l’infinito.
La Doc è la più estesa d’Italia e tocca tre regioni, fino al confine con la Slovenia.
A dire il vero in Carso i vignaioli si sono già pentiti della loro battaglia per entrarci. Pensavano di fare affari. Era un’aspirazione legittima: avete presente cosa vuol dire fare agricoltura e viticoltura in Carso? Più pietre che terra, poca acqua. Il carsismo è quella roba là: l’acqua trapassa la roccia, va a finir sotto, si fan le doline e le grotte e per coltivare resta poco. Lavoro duro. Produzioni limitate. Ma la strada della Doc Prosecco non è buona per i viticoltori carsici: come competere con le produzioni estensive del Veneto? “Hanno piantato vigneti di prosecco anche nei cortili delle scuole”, mi diceva un amico che abita a Conegliano. Era una battuta, chiaro. Ma dice tanto sulla monocultura imperante. Sul ribaltamento di un paesaggio, sulla cancellazione di una biodiversità ambientale ed estetica. Leggete le ultime poesie di Andrea Zanzotto, in proposito.
E tanto ci dicono le proteste locali: i trattamenti li fanno anche con gli elicotteri, perché le alte produzioni richiedono alta assistenza fitosanitaria. Cioè veleni, che cadono a pioggia. Se poi si pianta in pianura, si ha tanta resa ma grosso rischio: l’umidità chiama fungo, che chiama antibotritico. E così via. E allora la gente si arrabbia, fonda i comitati.
Qualche vignaiolo che ha la certificazione bio è disperato perché è chiuso in un cerchio di fuoco: le sue uve risultano contaminate, e non le può vendere come bio perché non rispettano i parametri. Però lui paga la certificazione. E non è giusto, no? E allora si diventa tristi, e anche un po’ incazzati.
E ci viene in mente Eris Spagnol, vignaiolo biodinamico in quel di Guia di Valdodobbiadene: “Nella tana del lupo”, diceva lui. Il “biodinamico” riguarda la sua scelta agricola, ma potrebbe essere un buon descrittore della sua persona. Aficionado di Critical Wine e poi de La Terra Trema, non è più, da un paio anni. Oggi è la sorella a portare avanti l’azienda. Il suo Prosecco nasceva nelle piccole vigne, divise in cru dai nomi storici: Cordeta, Muliana, Riva Granda… Il vino lo faceva col bilancino. Non ha voluto crescere di molto. Diceva che le piante le doveva conoscere una per una. Eris ha reso possibile un Prosecco attento alla terra, a chi la abita e la guarda. Un vino onesto, sincero e buono. Come chi lo faceva.
Ma la monocultura resta, e quella agricola e vinicola è sempre sostenuta dalla monocoltura della mente. Vandana Shiva, celebre attivista ambientale e femminista indiana, ha coniato nel 1993 questo termine che è stato anche il titolo del suo libro manifesto contro la nuova colonizzazione agricola globale fondata sugli imperativi della produttività. Perchè l’agricoltura è filosofia applicata e traduce una weltanschauung precisa in atti e prodotti che finiscono nelle nostre pance, alimentano il nostro corpo e il nostro immaginario.
Scegliere cosa e come produrre (ancora più che cosa consumare) è azione politica, nel senso perduto del termine: un cammino che la società compie, in cui ognuno può determinare o scombinare qualcosa.
Poi c’è il marketing. Eraserhead. Cancellazione e artificio. Killer di desideri. Anestetico di nasi e palati, strumento sopraffino della monocultura della mente.
L’antidoto è costruirsi abbecedari ribelli.
Si fa a partire da due cose: cercare e assaggiare.
Cercare significa conoscere, incontrare, studiare, imparare, criticare, confrontarsi, sapere. E va fatto sul campo (agricolo e culturale) e non solo sui social.
E assaggiare significa rimettere in pista nasi, lingue e palato e sforzarsi di farli funzionare come meritano, per liberarsi dalla schiavitù dei vini modaioli imposti a ogni nostro meandro del godimento. L’amore ci piace libero, perchè genera libertà e comunanza.
E il vino ci piace emancipato da ogni monocultura: agricola, mentale ed estetica.
da L’Almanacco de La Terra Trema. Vini, cibi, cultura materiale n. 11
16 pagine | 24x34cm | Carta cyclus offset riciclata gr 100 | 2 colori
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