“Siamo bestie” – Cronaca dell’ennesima notte per richiedere asilo a Milano
“Fine, finito” urla agitando le braccia un ufficiale di Polizia in borghese, forse dell’Immigrazione, “Finito, capito? Tornate settimana prossima”. Ma chi lo capisce? Sono le due e mezza, è la notte tra domenica 19 e lunedì 20 febbraio 2023, di fronte alla Caserma Annarumma, a Milano. Dopo quasi sette ore di fila, con otto gradi di temperatura massima, un’illuminazione parziale, praticamente nessun interlocutore per ore, dieci cariche della Polizia e cinque ambulanze giunte in soccorso (più un’automedica), centinaia di aspiranti richiedenti asilo cominciano a disperdersi.
La situazione è sempre la stessa da diversi mesi. Non si conoscono le ragioni, burocratiche, amministrative o logistiche che siano, ma per fare domanda di protezione internazionale, comunemente definita richiesta d’asilo (“senza appuntamento”, però l’appuntamento, di grazia, come si prenderebbe?) bisogna recarsi la domenica sera nel Parco Nord, nel quartiere Niguarda, di fronte alla sede distaccata della Questura di Milano, precisamente in via Cagni 15. Lì, fin dal tardo pomeriggio, si creano file di decine e decine di metri, secondo le “etnie” più numerose e riconoscibili. I “sudamericani” sono i più organizzati, con cartoni (per proteggersi dal suolo che tende a ghiacciarsi), cibo e acqua; poi la fila dei “pakistani” (che include in realtà tutto il sudovest asiatico), schiacciati uno sull’altro per non rischiare di perdere la priorità; quindi “gli egiziani”, raccolti in gruppi e poggiati alle transenne. Tanti spurî, con fogli in mano. Si legge: Iran o Iraq, per esempio. Ci sono diversi bambini. Dall’altro lato non c’è nessuno, dalla parte dello Stato. Nessuno a fornire informazioni, nessuno a coordinare le file. Sul sito della Questura (va da sé solo in italiano) non vengono date altre informazioni.
Arrivo sul posto con Mutuo Soccorso Milano, Naga e tante altre associazioni, verso le 20:30. Siamo una trentina, tre interpreti per l’arabo, tre per lo spagnolo. Subito veniamo circondati da persone che ci mostrano fotocopie dei documenti d’identità o del certificato di nascita; alcuni hanno in mano un foglio dalla Questura di Torino, di Padova, di Genova, “sono arrivato fino a Potenza”, dice un ragazzo, “ora qui”. Per tanti Milano è solo l’ultima città che li rifiuterà. Ascoltiamo le loro storie, siamo loro “vicini” ma non possiamo fare nulla. Siamo arrivati per fornire quel poco di assistenza legale che ci è concessa e soprattutto per monitorare la situazione. Perché “siamo bestie” e “in nessun paese è così” – come dice un ragazzo di appena diciottanni, che prova ad imparare l’italiano e lavora in un fruttivendolo, in nero, da diversi mesi. Ogni tanto ci sono dei disordini, tra i gruppi in fila si alza la voce, c’è nervosismo. Sono mesi che è così (ma la modalità “fila all’aperto e senza informazioni” è pratica decennale), anche con il clima rigido di dicembre o gennaio, anche con la pioggia.
Col passare del tempo ci raggiungono rappresentanti di Mediterranea, della Comunità di Sant’Egidio, qualche consigliere comunale di Europa Verde e Sinistra Italiana, la Presidente del municipio Anita Pirovano, l’Assessore alla sicurezza e coesione sociale Mirko Mazzali, e qualche giornalista, per esempio di Radio Popolare. Monitoriamo perché, nonostante si sia creata una prassi, in realtà ogni volta può essere diversa. Per un volontario di NAGA è una strategia, perché non è facile contestare una prassi se non c’è nulla di scritto, “gli avvocati neanche riescono a entrare, mai, in questura. È illegale ma non c’è alcun riscontro, quindi non si riesce a fare nulla”.
Fino alle 23:30 niente, poi cominciano ad arrivare le camionette della Polizia. Dal lato degli “egiziani” parcheggiano ad angolo, come per ostruire le vie di fuga, dalla parte dei “latinoamericani” e dei “pakistani” non mostrano formazione, sembrano più sereni. È qui che si creano i primi corridoi. Ufficiali pescano senza criterio dalla fila, soprattutto donne e bambini. La fila si è trasformata in una formazione a imbuto. Urlano, solo in italiano, “non spingete” (non stanno spingendo), “altrimenti chiudiamo tutto, non entra nessuno” (come fossero dei bambini, come se potessero farlo). Saliamo su una panchina per vedere meglio, si stacca un gruppo di poliziotti in assetto antisommossa, aggira le transenne, carica da dietro per disperdere. I “pakistani”, non toccati dall’aggressione, ancora in fila, applaudono ironicamente, “bravi, bravi”. Una donna sviene e sbatte la testa, viene chiamata l’ambulanza, nessuno riesce a parlare le loro lingue, c’è caos, c’è incomunicabilità. Quando arrivano i paramedici, la Polizia crea un nuovo corridoio più avanti e un ragazzo del Bangladesh mi dice “la portano via, la mettono in ospedale, e poi la riportano qua” scoppiando a ridere e con lui tanti nella fila. Le scene si ripetono, prendono quaranta “sudamericani” in tutto, i cinesi che ci sono, i pochi iraniani e iracheni, “lo sapete, solo quaranta, solo quaranta di voi”, urlano, ma nessuno capisce. Carica, dispersione, di nuovo coda a imbuto. Noi cerchiamo di moderare ma la situazione è gestita malissimo sia all’origine sia durante. Chi è passato aspetta sul marciapiede opposto, sotto la luce di un lampione.
È la volta degli “egiziani”, creativamente in fila. Ce n’è una regolare, una orizzontale sulle transenne e c’è un grosso gruppo proprio di fronte a dove c’è la Polizia. Chiedo “di che giornale sei?” all’unica persona con una telecamera a cui è permesso stare dal lato delle Forze dell’Ordine (a diversi giornalisti è stato proibito, me compreso). È della Digos, inquadra soprattutto noi che inquadriamo. Una volontaria di Mutuo Soccorso mi dice: “oggi siamo tanti e visto che riprendiamo continuamente sono più gentili, sono obbligati a esserlo, cercano di mediare, almeno ci provano”.
Più gentili? Subito una carica di decompressione sulla calca, cadono le prime transenne e inciampano le prime persone. Ancora e ancora, un ragazzo viene colpito ripetutamente alla testa, ha una commozione cerebrale ma nessuno chiama l’ambulanza. C’è confusione, ne prendono un po’, sotto un albero appena al di là della camionetta si sdraiano i feriti, il ragazzo che si tiene la testa e dice in arabo che gli gira, che non sta ferma, altri che si tengono spalle e gambe. Cerco di sdrammatizzare dicendo, “Asyut Asyut” e ridono, perché tantissimi vengono da Asyut e ci scherzano su.
Sono le due e trenta, “non c’è più spazio”, urlano da là. Un uomo si issa sulla transenna e traduce per tutti, c’è silenzio: “ne abbiamo presi già centoventi” (sarà vero? Il Corriere, gonfiando i numeri, mistificando i fatti e riportando la tardiva e paracula presa di consapevolezza del Sindaco Sala, parla di 130 persone), “tornate la prossima settimana”. Alcuni ridono, da entrambe le parti, per ragioni diverse. La procedura, se così può chiamarsi, è ormai nota. Un limbo preburocratico, preverbale, senza umanità, senza preparazione, senza competenza. Più di cinquecento persone in fila per la sola possibilità di fare richiesta di protezione internazionale, senza indicazioni né informazioni. Chi ce l’ha fatta a passare, secondo criteri oscuri e probabilmente casuali, ha aspettato fino alle sette di mattina per poter accedere agli uffici, gli appuntamenti mesi dopo.
La maggior parte di loro però, dopo essere stati ore al freddo, in un luogo scelto proprio per isolarli, per nasconderli – fuori dall’abitato, fuori dai riflettori al neon del Centro – dopo essere stati caricati dalla Polizia, vanno via per giocarsela la settimana seguente. Un’infinita ripetizione. Nel frattempo, esistono? Esistono i migranti rinchiusi nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, gestiti privatamente e rivelatisi veri lager contemporanei (No ai CPR è la rete lavora per smantellarli. A Milano, il CPR è in via Corelli)? Non esistono. E se questa è Milano, Milano non esiste.
Articolo e foto di Demetrio Marra x lay0ut
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