Carabinieri, la caserma tutta spaccio e tortura chiusa dalla Procura
«Ho fatto un’associazione a delinquere ragazzi», «in poche parole abbiamo fatto una piramide», «noi siamo irraggiungibili». «Abbiamo trovato un’altra persona che sta sotto di noi. Questa persona qua va da tutti questi, gli spacciatori, e gli dice: “Guarda, da oggi in poi, se vuoi vendere la roba vendi questa qua, altrimenti non lavori!” e la roba gliela diamo noi!». E ancora: «Da uno zaino ho fatto sparire tutto e l’altro l’ho preso, ho fatto un colpo della madonna… Io l’ho arrestato per un chilo e quattro e adesso, nello scatolo, ce ne sarà la me… e quando vanno a controllare, l’ho fatto solo io! Lo sai perché? Perché l’erba, quando tu la metti nella scatola, finché non la… non la bruciano… l’erba non è come il fumo che rimane lo stesso peso… l’erba diventa sempre più leggera, quindi, con l’erba, non ti sgameranno mai, non sono mica scemo. Adesso ti devi far pagare… chi la vuole la paga».
Le intercettazioni, si sa, non sono una prova incontrovertibile contro l’imputato, e andranno confermate in giudizio le accuse contenute nell’ordinanza di 300 pagine emessa ieri dal Gip del Tribunale di Piacenza, Luca Milani, per autorizzare misure cautelari di varia natura nei confronti di 22 persone, tra cui 10 carabinieri dell’Arma (sei dei quali finiti in carcere) e un militare del Corpo e – per la prima volta a memoria d’uomo – per disporre il sequestro e la chiusura di un’intera caserma (nel centro di Piacenza). Ma certamente descrivono una realtà che si fatica a pensare interna proprio alle Forze dell’Ordine. Appartenente cioè a quel mondo che, per la gran parte, milita nelle prime fila del proibizionismo e che da sempre si spende affinché le sostanze stupefacenti continuino a rimanere soltanto a disposizione del mercato illegale.
«Faccio fatica a definire questi soggetti come carabinieri, perché i loro sono stati comportamenti criminali. Non c’è stato nulla in quella caserma di lecito», sintetizza il capo della Procura di Piacenza Grazia Pradella che ieri in conferenza stampa ha illustrato l’operazione «Odysseus» condotta in Emilia-Romagna e in Lombardia dalla Guardia di Finanza piacentina e di Fiorenzuola d’Arda. Agli arresti domiciliari è finito anche il comandante della stazione Levante di via Caccialupo a Piacenza ma, ha spiegato la magistrata, «la figura di spicco come spacciatore era sicuramente un appuntato». Le 22 persone raggiunte dal mandato del Gip sono accusate, a vario titolo, di peculato, abuso d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, lesioni personali aggravate, arresto illegale, perquisizioni ed ispezioni personali arbitrarie, violenza privata aggravata, tortura, estorsione, truffa ai danni dello Stato, ricettazione, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Tutti reati che sarebbero stati commessi dal 2017 in poi, con un picco durante i primi mesi della pandemia.
«Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown, con il più totale disprezzo dei decreti emanati dalla Presidenza del Consiglio. Solo un militare della caserma non è coinvolto. Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacenti a casa delle norme anti Covid», ha riferito Pradella descrivendo anche sei mesi di indagini, con intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, coordinate dai due pm Matteo Centini e Antonio Colonna.
Frasi raccolte anche da conversazioni avvenute tra criminali della città. Un «malavitoso – riferisce la pm – dice in un’intercettazione: “Hai presente le scene di Gomorra? Guarda che è stato uguale, tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato”». Mentre l’appuntato dei carabinieri, secondo l’ordinanza del Gip, avrebbe descritto così il pestaggio di uno spacciatore nigeriano avvenuto in strada: «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: “Mò l’abbiamo ucciso”». Riferiscono le agenzie che il Nucleo di polizia economico-finanziaria delle Fiamme gialle di Piacenza avrebbe trovato sul telefonino di uno dei militari anche le foto dell’uomo arrestato, ammanettato e senza scarpe, con il sangue sul volto e finito sul selciato.
È uno degli episodi contestati agli indagati, tra i quali figurano alcuni accusati di tortura. Per esempio, il Gip Milani cita l’arresto di un giovane egiziano accusato di spaccio che veniva «minacciato anche con violenze e agendo con crudeltà» «cagionandogli acute sofferenze fisiche». In un’intercettazione un carabiniere raccontava alla propria compagna: «Minchia, questo c’ha fatto penare, mamma mia quante mazzate ha pigliato, colava il sangue, il sangue gli colava da tutte le parti, sfasciato da tutte le parti, non parlava. Credimi che ne ha prese, ne ha prese». In rete circola anche l’audio del pestaggio di un arrestato: «Che fai ridi? Ti diverti?», si sente dire, e giù schiaffi. Ci sono anche foto che ritraggono alcuni carabinieri con pacchetti di marijuana e soldi, tanti soldi.
Comportamenti, quelli violenti, che purtroppo sembrano appartenere a qualcuno in più che a «un pugno di mele marce», tra le Forze dell’Ordine, come è sotto i nostri occhi almeno da Genova in poi. E davanti a questa violenza – al di là della conferma delle responsabilità penali individuali – altri reati diventano peccati veniali. Per il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini si tratta di «accuse gravissime rispetto a episodi inauditi e inqualificabili». «Da subito – ha aggiunto – sia l’Arma che il Ministero della Difesa hanno dato la massima disponibilità a collaborare con la magistratura affinché si faccia completa luce sulla vicenda. Il Comandante Nistri – ha assicurato il Ministro – mi ha confermato di aver immediatamente assunto tutti i provvedimenti possibili e consentiti dalla normativa vigente nei confronti del personale coinvolto». Non resta che aspettare e sperare che il caso di Stefano Cucchi abbia insegnato qualcosa.
di Eleonora Martini
da il Manifesto del 23 luglio 2020
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