ClimateStrike – Non torneremo alla normalità, perché la normalità è il problema!

Oggi è il giorno del 5° Sciopero Globale per il Clima. È il giorno in cui avremmo dovuto scendere in piazza – ancora una volta e ancora più fortemente – per rivendicare ciò per cui ci battiamo: la necessità di ribaltare il nostro modello di sviluppo, produzione, consumo e interazione con l’ambiente, che ci sta portando al collasso. In altre parole, per la giustizia socio-ambientale.

Parliamo di GIUSTIZIA AMBIENTALE e non solo CLIMATICA perché la crisi del sistema-Terra non è data esclusivamente dal cambiamento climatico, ma da uno spettro più ampio di effetti che impatteranno in misura sempre maggiore sulla società umana. Prima che climatica, la crisi è ambientale: riguarda il nostro di modo di interagire con gli equilibri ecosistemici – rompendoli – e la crisi climatica ne è una recente e diretta conseguenza.

La storia, infatti, ci insegna come molte società passate, prima ancora che si acuisse il fenomeno del riscaldamento globale, si siano estinte a causa dell’adozione di pratiche antropiche molto simili a quelle che sta adottando la società moderna e globalizzata. Un esempio è la società dell’Isola di Pasqua, sviluppatasi dal 700 al 1700 d.C, dove una rapida crescita demografica e i comportamenti degli isolani portarono ad una deforestazione insostenibile, con conseguenze tragiche per la popolazione dell’Isola, quasi estintasi. Oggi come allora, le civiltà collassano perché i sistemi naturali da cui l’uomo trae risorse hanno delicati equilibri che, se sovraccaricati, fanno perdere agli ecosistemi le proprie capacità autoregolanti, con effetti difficili da prevedere.

La CRISI AMBIENTALE palesa tutti i giorni gli errori del capitalismo nel rapporto con l’ambiente (deforestazioni, riduzione della biodiversità, allevamenti intensivi, etc), evidenziando le contraddizioni del modello economico liberista vigente. Ed è anche la principale causa della pandemia globale del 2020: LA CRISI SANITARIA DA CORONAVIRUS.

Non è la neanche la prima di questo tipo: il virus HIV ci venne trasmesso dai primati del Congo durante deforestazioni selvagge dell’Africa centrale, mentre il virus della SARS fu preso da piccoli mammiferi selvatici venduti nei wet market cinesi. Si chiama SALTO ZOONOTICO: quando una malattia infettiva viene trasmessa dagli animali all’uomo.
L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, causata dalla pandemia di Covid-19, è quindi intrinsecamente legata alla crisi ambientale in corso da decenni.

PERCEZIONE DELLA CRISI

Crisi sanitaria e crisi ambientale hanno diversi punti in comune non solo nel modo in cui si sviluppano, ma anche in come vengono recepite dalla società. Citiamo ad esempio i numerosi allarmi lanciati per anni dalla comunità scientifica in merito alla vulnerabilità di una società altamente globalizzata a virus molto contagiosi: il rischio di pandemia era alto e lo si sapeva. Anche una volta iniziata la crisi la politica ha fatto orecchie da mercante agli allarmi, facendo di tutto per prolungare le attività produttive economiche, col risultato di sacrificare decine di migliaia di persone sull’altare della crescita economica. Allo stesso modo, da anni se non decenni ormai, le istituzioni politiche ignorano gli appelli sulla crisi climatica che arrivano da UNFCCC e IPCC.

Quando in un secondo momento l’occidente si è accorto di come il sistema sanitario stesse collassando, l’unica azione possibile rimasta è stata l’imposizione della quarantena e un’attivazione massiccia di polizia ed esercito. Questo non ha fatto altro che gettare ulteriormente nel panico e nella confusione la popolazione, che ha subito una narrazione schizofrenica dell’emergenza, passata in un attimo dalla sottovalutazione all’allarmismo più completo. Tutto ciò non ha lasciato spazio ad un’analisi razionale del problema e ad un’adeguata pianificazione che possa anche prevenire future esplosioni del contagio.

Un’altra similitudine tra l’attuale crisi sanitaria e la crisi ambientale è che i soggetti maggiormente influenzati sono gli stessi: gli ultimi, i poveri.
Per quanto entrambi i fenomeni siano globali, ciò non significa che tutti vengano colpiti allo stesso modo. Chi possiede di più da un punto di vista economico ha anche maggiori possibilità di accedere alle cure, di sottrarsi al ricatto lavorativo, di usufruire di servizi che facilitino e rendano più piacevole la permanenza dentro casa. Chi invece ha meno risorse si può trovare a non poter mettere la propria salute al primo posto, a dover lavorare anche in condizioni non sicure e a vivere la condizione di quarantena come un rischio reale alla dignità della propria vita, perché privato anche di quel poco che da sol* riusciva a guadagnare.

Se tutto ciò vi ricorda le conseguenze della crisi climatica, questo è esattamente il punto del discorso: chi ha maggiori possibilità economiche può modificare più facilmente il proprio stile di vita, le proprie attività ed anche il luogo in cui vivere. Chi invece è tra le fasce basse della società vive sulla propria pelle e nella propria quotidianità, sia dal punto di vista lavorativo sia nella vita di ogni giorno, gli effetti di siccità, eccezionali piogge torrenziali e ondate di calore, senza contare il fenomeno delle migrazioni forzate già in atto in diversi luoghi del mondo.

C’è un passaggio che ci preme sottolineare: dato il legame intrinseco che lega i due problemi, pensare di affrontare il COVID-19 e i cambiamenti climatici separatamente porta solo ad aggravare la situazione. Per risolvere una crisi, si peggiora l’altra: un chiaro esempio è ritornare al consumo massiccio dell’usa e getta per limitare le possibilità di contagio. Inoltre, ignorando la crisi clomatica, si ostacolerà la risoluzione di quella sanitaria: si pensi alla difficoltà nel far rispettare standard igienico-sanitari in situazioni di emergenza ambientale, come può esserlo uno sfollamento a causa di un uragano.

RISPOSTE SECURITARIE E RISPOSTE DAL BASSO

Un altro aspetto inquietante è la narrazione che fa ricadere la colpevolezza della crisi sugli individui. In Italia, nella confusione generale di questi mesi, i runners e quelli che portano a spasso il cane sono additati come untori, mentre le fabbriche rimangono aperte e negli ospedali gli operatori sanitari sono costretti a turni massacranti senza protezioni adeguate, diventando così veicoli del contagio.
Cosa c’è di diverso rispetto a quando si accusa della crisi climatica chi ha come unico mezzo per muoversi una vecchia macchina a benzina che inquina?

Tutto questo si manifesta inevitabilmente con uno sdoganamento di misure securitarie e di distanziamento sociale, che in ultima analisi si ripercuotono su tutta la sfera relazionale, e quindi anche politica, delle persone. Questa potrebbe essere la medesima risposta che attueranno i governi quando i fenomeni meteorologici estremi diverranno incontrollati e saremo costretti a stare in casa e a non poter usare più mezzi inquinanti o il nostro stesso riscaldamento.

La realtà è che una società fortemente gerarchizzata, basata sulla crescita e il consumo illimitati non è in grado di rispondere adeguatamente a fenomeni globali e incontrollati come una pandemia o la crisi climatica. Il coronavirus ha messo a nudo la fragilità del nostro modello di sviluppo, miope rispetto alle esigenze della società e univocamente improntato al tornaconto economico, nel suo preferire il delocalizzare i settori strategici.
Se la società è fortemente globale e interconnessa risulta chiaro che una crisi di sistema locale, come quanto accaduto a Wuhan, si propaghi rapidamente in tutto il globo. Negli ultimi decenni l’uomo occidentale ha costruito una società apparentemente proiettata verso il progresso ma ha sempre visto quest’ultimo come monodirezionale, unicamente orientato verso la crescita economica, e che non contempla l’imprevisto e il caos per potersi sviluppare. Non è un caso che fenomeni caotici, globali e incontrollati mettano in crisi l’apparente stabilità di questo sistema non resiliente. Ed eccoci, nel momento del bisogno, quasi del tutto privi degli strumenti indispensabili, solo perché fino a ieri non conveniva produrli o farne scorta. Il cerchio si chiude rendendosi conto che è la corsa sfrenata alla crescita che produce le crisi che la bloccano.

È proprio in queste crisi che nasce quindi un tipo di risposta alternativa, popolare, inclusiva, solidale e auto-organizzata. Una risposta che non lascia indietro nessuno e che si fa carico delle problematiche di emarginazione e abbandono di cui lo Stato in cui viviamo è complice delle cause. Abbiamo infatti visto nascere a Milano, la città in cui la maggior parte di noi vive e milita, le Brigate Volontarie per l’Emergenza.

Come attivist* che si battono per la giustizia climatica, abbiamo deciso di attivarci nel volontariato per fornire un’alternativa popolare e costruita dal basso che soddisfi i bisogni delle persone in questa fase. Siamo consapevoli che la crisi climatica contro la quale ci battiamo è solo la punta dell’iceberg di una società basata sulle disuguaglianze e le prevaricazioni di ogni genere. L’attivazione di una comunità di aiuto reciproco in cui tutti possano riconoscersi significa mettere in pratica uno strumento realmente in grado di ribaltare le ingiustizie della società attuale che ci hanno portato a questa crisi.

È sulla base di questa esperienza che vogliamo trarre insegnamento per il futuro ed essere noi a creare il sistema che vogliamo, per non doverci trovare ad affrontare in modo contingente la crisi climatica come è stato per il coronavirus. Se la società capitalistica è impreparata, saremo noi a costruire una società alternativa, realmente democratica, egualitaria e partecipata.

NON TORNEREMO ALLA NORMALITA’, PERCHE’ LA NORMALITA’ ERA IL PROBLEMA!

Brigata Lena-Modotti
Resilient GAP
TempoZero – Cambiamenti Climatici
Fuori Luogo
C3

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