Il divieto di manifestare non esiste, non più

Il divieto di manifestare non esiste e non può esistere, non più. Non esiste più nella realtà, perché già dopo i primi allentamenti forme di manifestazione, nel rispetto delle distanze e delle misure di sicurezza, ci sono già state e non sempre sono piovute multe o divieti. Non esiste più dal punto di vista del buon senso, perché una cosa era vietare manifestazioni quando l’unica occasione di socializzazione consentita era la coda al supermercato, altro cosa è quando, nel rispetto delle misure di sicurezza, potrai assembrarti praticamente ovunque, al lavoro, sui mezzi, al mercato, al ristorante eccetera. Infine, non può esistere legalmente, come molti costituzionalisti sottolineano da giorni, perché un diritto costituzionalmente tutelato non può essere sospeso a tempo indefinito da uno stato d’emergenza dichiarato ai sensi del Codice della Protezione Civile, come peraltro ora sembra prendere atto anche il decreto legge varato dal governo il 16 maggio.

Ma, anzitutto, vediamo come stanno le cose da un punto di vista normativo.

Stato di emergenza e libertà di manifestare

Lo stato di emergenza sanitario in Italia è stato dichiarato il 31 gennaio con una delibera del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 24 del Codice della protezione civile. Le limitazioni fortissime alla libertà di movimento dei cittadini sono state possibili attraverso questo strumento, peraltro costituzionalmente legittimo. E finché quasi tutto era vietato, anche allontanarti più di 200 metri da casa tua per chiacchierare in luogo pubblico con un tuo conoscente, anche il divieto di manifestazione appariva come logico e comprensibile. Ma, appunto, quando le restrizioni cadono e ai cittadini viene restituita la libertà di movimento, una prosecuzione di questo divieto diventa incomprensibile, ingiustificabile e insostenibile, perché in fin dei conti nessuno stato d’emergenza può sospendere a tempo indefinito e in maniera generale uno specifico diritto costituzionalmente garantito.

La libertà di manifestare è affermata, infatti, dall’art. 17 della Costituzione, che usa il termine generico di “riunione”.

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È l’ultimo capoverso che legittima costituzionalmente la previsione dell’art. 18 del Tulps (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), cioè quella che noi impropriamente chiamiamo “chiedere l’autorizzazione”, ma che in realtà è un obbligo di preavviso al Questore. Ed è sempre questo ultimo capoverso che individua come unici motivi di divieto della riunione da parte del Questore i “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”, cioè due elementi che devono essere sempre circostanziati e che non possono essere generici.

Il decreto legge del 16 maggio e le riunioni

Il decreto legge 16 maggio 2020, n. 33 non smentisce quella che sembra essere una caratteristica dei provvedimenti di questo periodo, cioè che una serie di cose non sono mai chiare fino in fondo. E così, anche i commi 8, 9 e 10 dell’art. 1 possono lasciare spazio a interpretazioni.

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Nel comma 8 si stabilisce che è “vietato l’assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico”, specificano però dopo una serie di fattispecie, che non comprendono esplicitamente le manifestazioni di carattere politico o sociale. Il comma 9, poi, conferma il potere del Sindaco di poter chiudere delle specifiche aree per le manifestazioni. Infine, la novità del decreto, cioè il comma 10 che afferma: “Le riunioni si svolgono garantendo il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.

Ebbene, a me pare evidente che l’utilizzo della parola “riunione” debba portarci necessariamente ad interpretare il comma 10, sebbene nella sua formulazione generica, come riferito al diritto di cui all’art. 17 della Costituzione e quindi alle manifestazioni di natura sociale, sindacale, politica ecc.

Agire per aprire concretamente gli spazi

La non chiarezza non aiuta, ovviamente, perché consegna all’autorità concreta, che nel caso concreto e nel territorio concreto deve assumere le decisioni, uno spazio di interpretazione e di discrezionalità. E visto che le discrezionalità hanno agito anche durante la fase dura del lockdown, che in teoria era più chiara… (ogni riferimento al 25 aprile milanese non è per nulla casuale).

Insomma, considerato anche che l’esperienza insegna che è facile mettere certi divieti, ma che è poi difficile toglierli, dovremo senz’altro mettere in campo le nostre soggettività, per sperimentare e conquistare. Beninteso, reinventando un po’ le modalità concrete di manifestazione, perché l’imposizione della distanza di sicurezza e l’uso di dispositivi di protezione personale, oltre che legittima, è anche ragionevole nella situazione data.

Un’ultima considerazione. La libertà di manifestare non va considerato un vezzo e neanche una questione di amore astratto per le libertà. No, ritengo che si tratti di un problema molto concreto, anzitutto di prospettiva generale, perché viviamo in una fase storica in cui le tendenze autoritarie degli Stati sono già di per sé significative, anche senza emergenze sanitarie, e non è il caso di assecondarle, magari anche involontariamente. In secondo luogo, perché nella prossima fase sarà cruciale garantire che il conflitto sociale possa avere gli spazi per svilupparsi e non finisca compresso in una ragnatela di divieti strumentali. E, infine, prima o poi dovremo pure andare sotto le sedi di Confindustria e Regione Lombardia, per dire anche con la nostra presenza materiale che non abbiamo dimenticato e non intendiamo dimenticare nulla. O no?

16 maggio 2020, protesta lavoratori dello spettacolo, Milano, p.zza Scala

Luciano Muhlbauer

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