A che punto è la rivoluzione siriana? (di Lorenzo Trombetta)

(di Lorenzo Trombetta, Europa Quotidiano).

Quasi diecimila morti in un anno, per una media di 26 persone uccise al giorno. Con picchi, sempre più frequenti, di oltre 100 uccisi in meno di 24 ore. Delle 9.753 vittime siriane documentate finora 7.883 sono civili e 1.847 sono militari, molti dei quali disertori dell’esercito regolare.

Tra i civili si contano 695 tra bambini e adolescenti e 392 donne. Sono solo alcune voci del bilancio della repressione compiuta dal regime di Damasco nel corso dell’ultimo anno e della conseguente rivolta armata scoppiata dall’autunno 2011 nelle regioni di Homs, al centro, di Idlib nel nord-ovest e a Daraa nel sud. È un conteggio in continuo aggiornamento e destinato ad aggravarsi da ora, mentre si scrive, fino a quando il giornale arriverà sotto gli occhi del lettore.

Tensioni a sfondo confessionale. Dopo aver sin dall’inizio e per molti mesi accusato fantomatici terroristi armati di seminare caos e discordia confessionale nel paese, il regime del presidente Bashar al Assad è riuscito in parte a spostare la partita sul terreno ad esso più favorevole: lo scontro militare. Che in alcune regioni si sta colorando sempre più di fosche tinte confessionali, sfruttando le mai sopite tensioni tra la maggioranza sunnita, che si sente discriminata da decenni, e la minoranza alawita (frangia dello sciismo) identificata con i clan al potere da più di quarant’anni.

E se il regime appare solido e coeso come non mai, il fronte delle opposizioni è più diviso dei mesi scorsi, quando una patina di apparente unità aveva spinto americani ed europei a sostenere il Consiglio nazionale (Cns) dei dissidenti all’estero e in patria. Dal canto suo, la comunità internazionale è un attore che finora ha parlato moltissimo, agendo pochissimo. Perché lo status quo assicurato dalla presenza degli al Assad in fin dei conti fa comodo a tutti fuori dai confini siriani. Da qui il motto ormai celebre dei rivoluzionari: «Siamo soli in questa lotta. Non è solo una rivoluzione contro la dittatura, ma contro un ordine regionale».

Il sogno della rivolta non violenta. È stato per lunghi mesi un dilemma al centro del dibattito interno tra gli attivisti e gli oppositori siriani in patria. E da marzo a luglio scorsi il fronte dell’opzione non violenta è stato largamente maggioritario rispetto a coloro che invocavano l’uso delle armi contro la repressione delle forze di Assad. La prima forma di resistenza operata da questo movimento è stata quella di non cedere alla tentazione di scendere nella stessa trincea del regime.

Le voci della via pacifica della rivoluzione provenivano per lo più da Damasco, in particolare da quella classe di giovani professionisti, di trentenni e quarantenni, che con una laurea alle spalle, avevano maggiori strumenti per “resistere” alla violenza dello stato. «I siriani non hanno la non violenza nel dna», mi disse molti mesi fa padre Paolo Dall’Oglio, monaco gesuita da decenni a capo della comunità di Mar Musa nel deserto siriano a nord di Damasco.

Ad agosto però, con l’attacco governativo su Hama e poi su Dayr az Zor, l’ago della bilancia è cominciato a pendere verso la scelta di imbracciare le armi, per legittima difesa. «A Homs siamo ormai morti. Anche se siamo vivi è solo questione di tempo. Il regime ci vuole morti e ci sta uccidendo giorno dopo giorno», mi aveva detto Wassim, un giovane del movimento non violento che era fuggito a Beirut e che a settembre era poi tornato nella terza città siriana per portare via la famiglia. Di lui non ho più avuto notizie. Durante il nostro ultimo incontro, Wassim mi confessò che la parola “pacifico” non aveva più senso. Che l’unico modo per opporsi al regime era rispondere al fuoco.

Prove (caotiche) di pluralismo. Più di recente, Sittasham, pseudonimo di un’attivista non violenta di Damasco, madre di due figli e una laurea in filosofia, era a Beirut per raccogliere aiuti umanitari da inviare clandestinamente in Siria. «L’unico modo per uscire vivi e abbattere il regime è armare l’Esercito siriano libero (Esl)», dice Sittasham. Una richiesta che non viene – come sostengono molti commentatori e molti pseudo-oppositori siriani a Parigi o Bruxelles – dall’estero, ma che giunge prima di tutto dalle martoriate piazze siriane.

Tornato a Beirut dalla sua cittadina natale di Qseir, cittadina a metà strada tra il confine libanese e Homs, Madi mi ha detto esplicitamente: «Siamo pronti a ricevere le armi anche da Israele. Basta che qualcuno ci aiuti. Su di noi pende una condanna a morte». Madi ha tre figli e una moglie da portare in salvo e il suo appello impulsivo a ricevere armi dal “nemico” israeliano, non è da considerare una dichiarazione di tradimento dei valori nazionali della Siria – formalmente in stato di belligeranza con Israele – ma piuttosto un appello disperato: aiutateci.

Sì, ma come? «L’Occidente è abituato a trattare con i Chalabi (Iraq) e i Jalil (Libia), ma qui in Siria non vogliamo più dittatori»: in questa frase, lasciata cadere come un’osservazione di secondaria importanza, da Nidal, pseudomimo di uno dei leader dei Comitati di coordinamento locali degli attivisti anti-regime di Damasco, è nascosto il senso dell’incomprensione tra i paesi arabi e occidentali che cercano disperatamente un interlocutore unico della rivoluzione siriana e i siriani stessi, che per la prima volta dopo mezzo secolo hanno messo le dita nel barattolo dell’agrodolce glassa del pluralismo politico. Dopo mesi di tentativi, il Cns diretto da Burhan Ghalioun perde alcuni pezzi importanti: Haytham al Maleh e Kamal Labwani assieme a Cathrine Telli si sono dimessi denunciando la «monopolizzazione delle decisioni» da parte della corrente maggioritaria dei Fratelli musulmani, forti all’estero ma deboli in Siria.

«Né laicisti né salafiti». Salafiti, Fratelli musulmani o rivoluzionari “laici”? Nessuna di queste tre categorie è utile a descrivere il gran numero di siriani che, da attivisti civili o da resistenti armati, combatte per “liberare il paese dagli Assad e dalla loro mafia”. A Tripoli, nel nord del Libano, ora roccaforte della resistenza antiregime, disertori, dottori e uomini d’affari siriani che lavorano a vari livelli per sostenere il fronte nella regione di Homs sono musulmani sunniti osservanti. Hanno la barba con un taglio da fondamentalisti. Alcuni ammettono di essersi fatti crescere la barba «durante la rivoluzione».Come segno di distinzione, come «rivalsa dopo decenni di discriminazione».

Perché «un alawita trova lavoro e io no, pur avendo la stessa laurea?», si chiede in modo retorico Abbud, giovane attivista di Homs nell’ospedale Zahra di Tripoli. Accanto a lui Amer, corpo robusto e barba rossa “all’integralista”, se la prende con i Fratelli musulmani: «Non hanno base sociale in Siria. Sono fuori da decenni e non li vogliamo. Il Consiglio nazionale è roba loro e lo usano per rubarci la rivoluzione».

Il direttore dell’ospedale Zahra, Abu Raed, ammette che qualche settimana fa una delegazione del partito salafita egiziano al Nour si è recata nei suoi uffici chiedendo «contatti di salafiti siriani per instaurare collaborazione». Abu Raed, avvocato della regione di Homs e barba rasa “alla sunnita”, ha detto di aver gentilmente declinato ogni invito: «Quella gente non ci piace».

Nemmeno il laicismo, come lo immaginiamo noi europei, è un’opzione realistica in Siria. Piuttosto, l’obiettivo di molti siriani è la creazione di uno stato civile – non militare né teocratico – basato però sull’assicurazione di dare garanzie alle comunità confessionali ed etniche. (Europa Quotidiano, 16 marzo 2012).

 

Per approfondimenti:

http://www.sirialibano.com/

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/133421/siria_un_anno_dopo_la_guerra_fa_gioco_ad_assad

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