Cosa ci dice Milano. Spunti strategici su antirazzismo e movimenti

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Sono passati pochi giorni dalla marcia antirazzista di Milano e non si sono sprecate, a varie latitudini della sfera politica, le letture e i commenti. Senza fare una narrazione antologica della giornata, vorremmo piuttosto soffermarci su alcuni elementi utili ad inserire l’evento meneghino in un contesto sociale più ampio che guardi ai movimenti. D’altronde è sempre la dialettica tra avvenimento e processo a costituire elemento d’indagine per chiunque abbia cura della trasformazione dell’esistente e provi a farla vivere nelle contraddizioni.

Nessuna persona è illegale

I centomila di Milano rappresentano un importante elemento di rottura in Italia. Non solamente perché tolgono respiro, almeno per un attimo, alla retorica barbara e odiosa  che ad una cultura dell’accoglienza contrappone la purezza etnica, ma perché per la prima volta assistiamo alla massificazione di un discorso antirazzista che eccede la dimensione caritatevole e meramente umanitaria. Come abbiamo scritto in un commento a caldo della giornata, la prima strozzatura all’operazione politicista messa in piedi dall’amministrazione Sala è stata la composizione stessa della piazza, in cui è stato egemone «quel tessuto sociale che le politiche della governance cittadina costringono all’illegalità ed alla marginalità sociale». La rottura dei dispositivi legalitari e securitari, che vive nella quotidianità di questa composizione, il 20 maggio si è rappresentata nello spazio pubblico, capovolgendo completamente il segno politico della manifestazione stessa. Non si è trattato del puro effetto di una nemesi, ma dell’affioramento di una contraddizione latente all’interno della convocazione della giornata, coltivata sapientemente dalla piattaforma “Nessuna persona è illegale”, in tutta la costruzione politica del corteo.

È stato proprio il lavoro molecolare compiuto in questi mesi dalle realtà antirazziste del capoluogo lombardo, fatto di attivazione di reti, di politicizzazione delle relazioni sociali, di costruzione condivisa di un discorso che non lasciava margini alle ambiguità, ad aver costruito le condizioni favorevoli per la materializzazione di una eccedenza. È altresì palese che questo lavoro sarebbe rimasto lettera morta se non avesse intercettato una disponibilità concreta a mettersi in gioco, a non essere comparse della rappresentazione teatrale dell’antirazzismo, per esprimere una capacità soggettività di contaminazione e mobilitazione. Quella stessa capacità che vede il protagonismo migrante emergere nelle lotte contro lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, nell’affermazione del diritto all’abitare, nella rottura di quel regime dei confini che regola i movimenti di persone sia nello spazio mondiale sia nella micro-geografia urbana.

Questa molecolarità, che in una città come Milano si nutre più che altrove di un’essenza meticcia che connota le forme di vita metropolitana, è il risultato del rapporto tra soggettività situata e moltitudine in sé,  tra organizzazione politica e tessuto biopolitico. Una dialettica che è riuscita, proprio stando dentro ad una contraddizione e lavorando per decostruirla, a trovare sintesi e consenso in una prassi radicale, quella della contestazione all’assessore Carmela Rozza e allo spezzone in cui erano presenti personalità locali e nazionali di spicco del PD sovvertendo di fatto la logica della giornata e gli stessi rapporti di forza che ne erano alla base.

Cortocircuito

La fuga di Rozza, di Sala e di tutto lo spezzone contestato rappresenta forse la foto-icona più rappresentativa del 20 maggio milanese. La stessa scelta di far parlare gli esponenti istituzionali prima dell’arrivo della massa dei manifestanti in parco Sempione è un altro elemento che sintetizza nitidamente quanto detto fino ad ora. Ma il punto è anche un altro e, pur intrecciandosi con i diversi momenti “di rottura” della giornata interroga il tema dell’accoglienza e la macro-questione dell’antirazzismo su un piano di discorso più complesso.

Sarebbe infatti errato pensare all’operazione tentata dal PD milanese sulla manifestazione del 20 maggio solamente come un posizionamento interno alla varie correnti di partito. Gli organizzatori del corteo hanno infatti provato ad imporre, sia nell’indizione della giornata sia nei contenuti espressi dai cartelli in piazza, parole d’ordine come «sicurezza e legalità», che, a loro modo di vedere, rappresenterebbero la dimensione complementare dell’accoglienza.È all’interno di questo codice che la piattaforma istituzionale aveva una continuità di fondo con le leggi Minniti-Orlando e con i rastrellamenti etnici compiuti alla stazione Centrale. Una continuità che da un lato è subalterna all’ideologia securitaria ed al concetto di accoglienza che discrimina tra migranti meritevoli e non (ad esempio sulla base della disponibilità del soggetto al lavoro gratuito), dall’altro si inserisce in una tendenza generalizzata di pacificare l’antirazzismo, privandolo di tutti quei contenuti e prassi che lo rendono terreno reale di lotta politica.

Il cortocircuito di Milano apre uno spazio dialettico dove istanze e prassi portate dal basso possono far deflagrare la contraddizione tra enunciazione politica e prassi istituzionale, muovendo tanto dall’intervento diretto sulle condizioni materiali di vita dei migranti quanto disvelando la progressiva implosione della sfera dei diritti entro cui i soggetti possono essere inseriti, ridotta al nucleo incomprimibile dei diritti umani. Non possiamo non rilevare, nel dibattito attorno ai “migranti in accoglienza”, l’assenza di ogni rivendicazione di diritti civili e politici. Ma, forse in maniera latente, forse pre-politica, le lotte nelle strutture di accoglienza (troppo spesso derubricate a proteste per il cibo o il pocket money) contengono il seme del ripensamento degli istituti della cittadinanza: sono certamente le lenti del pietismo cattolico o una nuova tensione coloniale ad imprigionare l’immagine del migrante nella figura del profugo dolorante o dell’africano indolente, vittima di mutilazioni violente o di sottosviluppo ed arretratezza da cui è impossibile emanciparsi impedendoci di leggere l’indubbio protagonismo che questo segmento della composizione di classe sta esprimendo.

L’antirazzismo molecolare

Sarebbe errato, però, tracciare una linea netta di confine tra un antirazzismo encomiabile ed uno da biasimare. Siamo consci, proprio perché immersi nella molecolarità dei processi e degli eventi, che per costruire iniziative che abbiano come obiettivo quello di sottrarre terreno al razzismo spesso dobbiamo confrontarci con realtà e soggetti assai eterogenei tra loro. La questione non è quindi quella di creare un’ortodossia della lotta antirazzista, ma generare un orizzonte che possa diventare terreno comune di riconquista universale di diritti e ricchezza.

La “questione razziale” definisce una polarizzazione della società attorno ad una macro-visione del mondo: da un lato solidale e predisposta al metissage, dall’alto xenofoba e neo-fondamentalista. E’ proprio quest’ultima categoria che ci consente di avere una lettura più ampia del fenomeno, che sia in grado di cogliere il disciplinamento basato sulla linea del colore elemento che si incunea nella crisi del neoliberismo, mantenendo tratti di funzionalità ad esso. Se da un lato il populismo nazional-reazionario, che con l’ascesa di Trump alla Casa Bianca tenderà ad incidere anche sugli assetti geopolitici mondiali, ne rappresenta un naturale risvolto, dall’altro la scia di attentati che da oltre due anni stanno scuotendo l’Europa e non solo in nome del fascismo islamico dell’Isis si afferma come l’altra faccia di una medesima medaglia. L’ultima strage di Manchester, nella quale hanno perso la vita oltre 20 persone, tutte giovanissime, è solo l’ultimo brutale riscontro di quella egemonia della violenza asimmetrica che corre lungo la linea della civiltà contemporanea ed è prodotto diretto della guerra globale permanente che, proprio nell’humus neo-fondamentalista, trae nuova linfa per modificare i propri assetti e campi d’azione.

In questo scenario l’antirazzismo diventa un campo di forza che tende ad impattare il neo-fondamentalismo e le forme di vita che da questo si dipanano. Un campo di forza che ha, nel suo divenire, una grande capacità di realizzarsi come “movimento” in grado di scuotere lo stato di cose presenti. Come ogni grande movimento che abbiamo visto nel corso della storia, anche questo si genera contemporaneamente in luoghi e situazioni diverse, proprio perché risponde all’esigenza di mettersi in gioco di fronte a quella “guerra all’umano” che impregna ogni pensiero e pratica razzista. Non scopriamo certo oggi il valore etico e culturale dell’antirazzismo, ma oggi ne constatiamo la sua carica politica, la sua capacità di aggregare attorno ad una visione di mondo, di portare persone nelle assemblee o in piazza, di trasformare la sensibilità in attivazione. Tutto questo accade, come si diceva, in uno spazio diversificato, che accomuna i piccoli borghi di provincia alle metropoli, il Nord al Sud.

Oltre allo spazio anche le sue modalità d’azione sono diversificate e multiformi, sono fatte di tanti momenti di rottura, piccoli o grandi, come ad esempio la manifestazioni che sono state fatte al Brennero o a Ventimiglia, ma anche di numerose manifestazioni in cui, oltre all’elemento solidale, è emersa chiaramente una rivendicazione dal basso di diritti. Questa ricchezza l’abbiamo toccata con mano nella costruzione della manifestazione Side by Side, che ha visto riversarsi a Venezia lo scorso 19 marzo una vera e propria marea meticcia, proveniente da tutto il Veneto, che spesso la vulgata associa ad emblema dell’intolleranza. Lo abbiamo visto con la sfida eretica vinta a Pontida, che ha visto nella roccaforte della Lega andare in scena il Festival dell’orgoglio antirazzista e migrante, che non solo ha contribuito a decostruire una trentennale narrazione razzista legata a quel luogo, ma è riuscita ad attivare tante realtà da tutta Italia. Lo vediamo, infine, nel lavoro quotidiano delle polisportive popolari, delle scuole d’italiano per migranti presenti nei nostri spazi sociali, nell’associazionismo di base che intercettiamo nei territori, nelle tante iniziative di mutualismo che, in particolare nei quartieri a più alto rischio di marginalità sociale, si vanno moltiplicando sempre di più.

Un terreno strategico per i movimenti

C’è un corpo vivo che si muove, che costruisce accumulazione attraverso eventi e processi, intrecciando esperienze e relazioni, che prende forma non solamente sulla base della negazione del razzismo e dei razzismi, ma anche sull’affermazione di nuovi modelli di accoglienza e, più in generale, di vita in comune.

La sfida che si apre, che dopo Milano sembra più concreta, è quella di ricomporre il mosaico, senza alcuna velleità di sintesi, ma con l’ambizione di costruire realmente un terreno moltitudinario di movimentazione sociale. Le lotte contro le discriminazioni, di razza ma anche di genere, possono fungere da traino per una possibile intersezione di aree conflittuali.

Questo perché si situano su un livello avanzato della lotta di classe contemporanea, in quanto agiscono proprio perché mina alla base uno degli elementi su cui si riproduce il capitalismo odierno: quello della scomposizione dei soggetti sfruttati e della valorizzazione dell’iper-individualità. La cosiddetta “guerra orizzontale” si determina sulla base di un rapporto tra classi in cui, negli anni della crisi sistemica, si è cristallizzata la logica delle disuguaglianze e della subalternità. I nuovi processi di estrazione e di accumulazioni si sono accompagnati ad azione pervasiva da parte delle élite, che hanno introiettato nella moltitudine il concetto di scarsità che, di conseguenza, produce una feroce competizione al ribasso tra poveri e nuovi “eserciti di riserva”. In questo quadro le condotte discriminatorie e la costruzione fittizia di identità chiuse sulla linea della razza e del genere rappresentano in questa fase i principali elementi di riproduzione sociale del capitalismo. Per questa ragione contrastarle e batterle significa puntare al cuore del capitalismo stesso. Non è un caso, infatti, che in Italia le due principali espressioni di massa nell’anno politico negli ultimi mesi si siano date attorno alle questioni di genere, a Roma il 26 novembre, ed a quelle “razziali”, a Milano lo scorso 20 maggio. La capacità di questi terreni di lotta di intersecare istanze e soggettività sociali, anche usualmente lontane tra loro, deve essere la bussola dei movimenti per tracciare le linee strategiche nel presente e nell’immediato futuro.

da Globalproject.info

http://www.globalproject.info/it/in_movimento/cosa-ci-dice-milano-spunti-strategici-su-antirazzismo-e-movimenti/20837

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