[DallaRete] Dentro e fuori lo Zapatismo partenopeo
Napoli (17-18 settembre 2016) – Due giorni di dibattiti, workshop, assemblee nel Rione Sanità.
E’ da un po’ che, in riferimento ad alcune esperienze di buon-governo che stanno animando alcuni municipi situati nello spazio prevalentemente sud-europeo, il dibattito pubblico è occupato da questo richiamo continuo alle città ribelli, alle città autonome, alle città rifugio. La suggestione arriva dritta dalla Barcellona di Ada Colau, di En Comù, la Barcellona il cui il governo della città è stato conquistato da coloro i quali per anni erano stati i protagonisti e le protagoniste della lotta contro la speculazione sugli immobili da parte degli istituti di credito nazionali e internazionali e al tempo stesso i difensori più accesi di uno dei più importanti diritti sociali messo in crisi dalla finanziarizzazione della cittadinanza, che è il diritto all’abitare.
Così, questa delle città ribelli, già emersa grazie a David Harvey al tempo dei primi movimenti urbani contro la crisi e la dittatura delle finanza, è diventata una suggestione potente che si iscrive nel solco di una fase in cui da una parte l’Europa e l’occidente tutto si presentano dilaniati dal conflitto tra intolleranza e accoglienza, paura e coraggio, solidarietà e odio e in cui, dall’altra, le città stesse, come spazi politici e fisici, sono considerate dal governo centrale europeo come meri terminali di esecuzione di una catena del comando che in modo più o meno lineare fornisce direttive che parlano esclusivamente la lingua del taglio alla spesa pubblica, della sottrazione di diritti e dell’austerità.
La potenza di questa suggestione è quindi oggi innanzitutto la potenza di una possibile insurrezione ai comandi centrali nazionali e comunitari, o quanto meno l’assunzione di nuovi strumenti che rendano più efficace la lotta dei popoli contro la dittatura della moneta e della finanza. E in questo senso aggiungiamo che l’innegabile potenza che si sprigionerebbe dalla possibile costruzione di una rete effettiva tra queste stesse città indisponibili, non può e non deve in alcun modo trasformarsi nell’ennesimo brand che da una parte permette ai feticisti dell’autonomia del politico di costruirsi un nuovo, ibrido ed inedito campo da gioco su cui costruire opzioni che sommano tutto meno che le realtà sociali realmente mobilitate e che dall’altra diventa immediatamente inefficace non appena lo si distribuisce in maniera indiscriminata ovunque lo si rivendichi. Da questo punto di vista bisogna essere chiari e schietti.
Le città ribelli, ammesso che questa definizione sia sufficiente a raccontarne e ad esaurire la narrazione del processo, sono città in cui innanzitutto i movimenti sociali hanno sconfessato la partitocrazia tradizionale e le logiche della compatibilità con i governi nazionali ed europei e poi città in cui in cui gli abitanti stessi riconoscono lo spazio urbano come spazio della ricomposizione e della costruzione di una prassi collettiva di trasformazione radicale dell’esistente e in questo senso intendono l’assunzione autonoma del suo governo. Se invece questa nozione iniziasse, come pure ci pare stia accadendo, ad essere utilizzata per raccontare qualunque micro-processo di costruzione di alternativa radicale allora da una parte se ne depotenzierebbe immediatamente la forza, tradendo quella necessità di confederare autonomie e differenze che è invece da sempre la forza delle opzioni realmente conflittuali. D’altra parte il contesto storico, economico e politico ci dice alcune cose precise a proposito delle città. Se per un verso possiamo provocatoriamente affermare che esse non esistono più o che sono infinitamente slabbrate, scucite e ricucite dentro i processi di conurbazione, fagocitazione, nei quali i confini amministrativi sono tirati con un righello antiquato, è pur vero che le stesse città sono infinitamente e continuamente riscritte da ciò che si muove oltre e contro la nozione di cittadinanza, da tutti i movimenti in ingresso e in uscita che le riguardano: movimenti formali o clandestini, movimenti pendolari, movimenti da una città all’altra o da un paese all’altro, movimenti di manodopera altamente qualificata che si annida nel cuore delle città per intensificarne la produzione cognitiva, movimenti stagionali di manodopera dequalificata che, ai margini, a nero, si fa carico di tutta la merda fisica e materiale di cui la città stessa ha bisogno. Le città neoliberali sono dunque la scena su cui si gioca un conflitto radicalissimo e inarrestabile che è quello tra pratiche estensive e restrittive di cittadinanza.
Soprattutto, le città sono infinitamente sovradeterminate da un potere che non le abita direttamente e non le interpella: poteri transregionali e transnazionali, vincoli sui bilanci, linee d’indirizzo per lo sviluppo, linee d’indirizzo per le politiche culturali, piattaforme europee per l’istruzione scolastica, blitz dei capitali privati, commissariamenti come leva per grandi eventi e grandi affari. Sono state e sono così il terreno dell’accumulazione selvaggia del capitale neoliberale, lo spazio fisico su cui, a seconda delle cartografie della valorizzazione, si agiva e si agisce l’espropriazione di plusvalore dai corpi, dalle esistenze collettiva, dalle relazioni, dalle comunità.
Eppure le città resistono, si dimenano e si ribellano. I cittadini, i semi-cittadini e i non cittadini trovano in esse lo spazio della sottrazione e della ricostruzione di cittadinanza altra e lo fanno in almeno due sensi.
Il primo, più scontato, è quello che i movimenti sociali di massa trovino i loro punti di innesco all’interno del tessuto metropolitano (la Parigi messa a ferro e fuoco contro la loi du travail, le 250.000 persone in corteo a Berlino contro il TTIP, etc).
Il secondo, più complesso, è il fatto che alcune forme specifiche di resistenza si costruiscono a partire da un’identità territoriale: si resiste perché si è città, rete solidale contro l’eterodirezione del potere, la catastrofica impersonalità dell’austerity, la verticalità delle privatizzazioni e dei tagli lineari, le politiche di esclusione, di razzismo interno, di marginalizzazione (e di messa a profitto di questa marginalità), di segregazione.
Questo è il caso delle città ribelli. Città contro lo Stato. Meglio: città contro potere centrale. Città basche, città catalane, città curde, città greche. Città animate da una irriducibile rivendicazione di identità progressive e collettive. Esiste una costellazione imprecisa e ancora tutta da mappare di laboratori metropolitani che sfidano il Leviatano dei poteri finanziari e provano a ricostruire un tessuto sociale fatto di buone pratiche alternative, di sottrazioni e anche di scontro frontale con chi questi spazi prova a chiuderli. Siamo interessati a scrivere questa mappa e soprattutto a unire a partire dalle pratiche gli attori e le attrici di questi esperimenti di buon governo.
Napoli si iscrive dentro questa suggestione con la forza dirompente di un processo già in atto, non inedito, del tutto singolare, del tutto perfettibile e assai differente da quello che attraversa la stessa Barcellona. La Napoli del secondo mandato dell’amministrazione di Luigi de Magistris rappresenta un’occasione e ancor di più una sfida. Il ruolo rappresentato dalle organizzazioni di movimento, che per altro non si sono comportate in maniera omogenea, nella rielezione del sindaco di Napoli non si è limitato a una forma di sostegno blando né al classico attraversamento del nesso amministrativo. Al contrario hanno avuto un ruolo attivo che ha influenzato le parole d’ordine e l’immaginario che si è costruito attorno alla campagna elettorale. Il controllo popolare, lo zapatismo partenopeo, l’autogoverno, e le dichiarazioni di guerra al neoliberismo sono solo alcuni degli esempi più lampanti. Evidentemente lo spazio politico che si apre è enorme, così come le responsabilità che si dovranno prendere, perché la sfida ora è quello di valorizzare l’enorme domanda di radicalità e di democrazia che si è espressa con il consenso che de Magistris ha raccolto attorno a sé. Dovranno prendere forma le assemblee popolari, non più solo, dove già esistono, come luoghi di organizzazione delle forze territoriali, ma come effettivi agenti della decisione e dell’autogoverno.
Si dovrà tenere ancorata l’amministrazione alle sue posizioni più radicali di rifiuto delle politiche europee d’austerity e degli aggregati di potere che hanno governato la città nel ventennio Bassolino-Iervolino. Ancora, andrà aperta una battaglia seria e conflittuale che porti all’autonomia finanziaria per la città di Napoli coinvolgendo la città e i suoi abitanti. È questo, di fianco alle lotte territoriali che continueranno a esistere e a nascere, quello che abbiamo immaginato parlando di Napoli città ribelle.
A ragione l’esperienza napoletana è stata descritta dai molti nei termini di un’anomalia. Un’anomalia che non si è prodotta in maniera casuale evidentemente, ma che è la conseguenza di un processo in atto da tempo, che si è nutrito del sentimento di rivalsa verso una delle peggiori gestioni amministrative d’Italia, in senso predatorio e speculativo, ma anche dei numerosi microconflitti, ambientali e non, che in alcune occasioni si sono fatti movimento di massa, come nel caso delle lotte contro il modello di gestione dei rifiuti basato su discariche e inceneritori. Pensare Napoli come un modello da riprodurre in vitro in altri territori è impossibile. Eppure non possiamo considerare quest’esperienza isolandola completamente dal ragionamento più complessivo sulle città, in particolare in Europa.
E dunque l’anomalia partenopea: Napoli oggi rappresenta una delle città più chiacchierate del mediterraneo. Una chiacchiera caotica, non un discorso organizzato: dentro c’è tutto, dalle serie tv sulla criminalità organizzata alle sfilate d’alta moda al turismo di massa all’amministrazione comunale. Dentro, soprattutto, ci dovrebbe essere tanto altro: i movimenti anticamorra, i comitati ambientalisti, le centinaia di lavoratrici e lavoratori in lotta contro le esternalizzazioni, i movimenti per il diritto all’abitare, gli studenti e le studentesse che quest’autunno hanno riempito le piazze, gli spazi autogestiti.
Questo discorso caotico tratteggia il profilo di qualcosa di interessante e però difficile da articolare.
La domanda è semplice: è possibile governare il processo sotteso a tutte queste manifestazioni? E cosa vuol dire governare nella crisi? Esistono degli spazi di autonomia? Quali? Esistono degli strumenti politici/giuridici che vanno messi a sistema? Quali? Esistono dei precedenti, dei modelli virtuosi a cui fare riferimento, con i quali interloquire, dai quali imparare (fosse anche solo imparare cosa non fare)?
Soprattutto: cosa vuol dire – oggi – il rapporto tra movimenti e istituzioni?
È sempre uguale a quando vent’anni fa si iniziava a ragionare di attraversamento del nesso amministrativo? Il ruolo dei movimenti (anche quando scelgono forme più o meno ibride di internità a percorsi istituzionali) è quello del “controllo”? O la sfida è più alta?
La dialettica che si può instaurare tra movimenti e istituzioni è sempre del tipo: piattaforma, vertenza, ricezione della piattaforma da parte delle istituzioni “illuminate”?
Esiste una maniera non sloganistica di ridefinizione degli spazi di decisionalità? Questa maniera in che modo è a servizio delle comunità e non diventa uno strumento neutralmente plebiscitario che trasforma semplicemente la dittatura del leader in dittatura del consenso?
È chiaro che molte di queste questioni non possono essere risolte a freddo, soprattutto per chi –come noi – ritiene che a freddo i movimenti non esistano.
Esistono invece delle “organizzazioni di movimento” che si pongono il problema dell’attivazione sociale e della costruzione di diverse forme di movimentazione (per inciso: anche dire “questa non è un’organizzazione” è una forma di organizzazione, non si scappa da Lenin copiando Magritte).
Agire nella crisi nasce su una simile ipotesi di lavoro: l’ipotesi che alcune pratiche di lotta potessero individuare uno spazio politico (non un cartello, non una cordata, non qualcosa di definito a priori che poi si rappresenta nella pratica), dei compagni di strada, delle possibilità di connessione a partire dalle quali riallacciare le fila di un discorso.
È questa rete che oggi può provare ad interrogarsi sui temi del governo e dell’autogoverno, delle autonomie territoriali e della maniera in cui esse possono confederarsi.
La sfida è questa, dopo tutto. Si può decidere di assumerla o non assumerla, ma non esistono scorciatoie.
Noi abbiamo deciso di farlo. Vogliamo farlo prendendoci tutto il tempo necessario alla discussione attraverso workshop, momenti assembleari, dibattiti, ma anche visite guidate nei luoghi, che al di là delle cartoline e delle fiction restituiscono il volto vivo della nostra fuori controllo città ribelle.
Per questo motivo vi invitiamo il 16, 17 e 18 Settembre a Napoli, nel chiostro della basilica di Santa Maria della Sanità (detta Chiesa di San Vincenzo).
Programma in via di definizione:
Venerdì 16:
H.18 accoglienza e distribuzione di materiali
H 20 e 30 aperitivo e dj set a Mezzocannone Occupato
Sabato 17:
h. 10-13: tavoli di lavoro
1. Istituire la democrazia radicale. Il diritto alla decisione delle assemblee popolari e delle realtà di base
2. I ribelli delle città. Costruzione del conflitto dentro e fuori l’Università
H 15-18: tavoli di lavoro
1. Confederare le autonomie. Confronto tra città ribelli.
2. I ribelli delle città. Costruire conflitto nella “buona” scuola.
Domenica 18
h. 11 Discussione Plenaria “dentro e oltre lo zapatismo partenopeo”
http://www.globalproject.info/it/in_movimento/dentro-e-fuori-lo-zapatismo-partenopeo/20250
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democrazia movimenti municipalismo municipio napoli sud Zapatismo