[DallaRete] Il senso di Baobab

Un pezzo tratto dal blog di Alessandro Gilioli che spiega l’importanza del centro Baobab obiettivo dell’operazione di Polizia ieri a Roma.

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Nella stradina davanti al Baobab passano due tipi di automobili. Quelle di chi porta aiuti: cassette di pane e pizza, frutta, vestiti, medicine. E quelle di chi invece inchioda, sgasa, suona il clacson e sgomma. Sono i due volti di Roma, l’accoglienza e il rifiuto. A volte a pochi minuti di distanza. Ma – è giusto dirlo – i primi sono molti di più. E al Baobab i magazzini si riempiono ogni giorno. Altrettanto in fretta, tuttavia, si svuotano: davanti alla stanza dove vengono consegnati i vestiti c’è sempre la coda e i pranzi serviti variano tra i 200 i 500, con punte di 800.

Del resto, fra i migranti in arrivo dal Corno d’Africa (Eritrea, Somalia ed Etiopia) il tam-tam ormai ha diffuso la notizia che a Roma, in questa ex vetreria sulla Tiburtina, per ciascuno c’è un tetto, del cibo, un ricambio di vestiti. Così, appena sbarcati in Sicilia, arrivano qui: letteralmente, solo con ciò che hanno addosso. Sono uomini, donne, bambini. Molti minori non accompagnati, cioè spediti dai genitori in cerca di una vita migliore, come nel film “Vai e vivrai”. Nessuno ha però in mente di restare in Italia: pensano tutti alla Germania o ai Paesi scandinavi, qualcuno all’Inghilterra. Tecnicamente sono “transitanti” e in media restano a Roma meno di una settimana: il tempo di ritrovare le forze dopo la traversata nel Mediterraneo e organizzarsi con altri compagni per l’ultima parte del viaggio.

È tutto informale, al Baobab. Cioè spontaneo e lontano da ogni istituzionalizzazione.

Il gruppo di volontari che lo gestisce non si è neppure costituito in un’associazione vera e propria; nessun rapporto con le istituzioni, quindi non vengono percepiti i 35 euro a migrante che lo Stato dà di solito alle cooperative o agli alberghi che offrono ospitalità. I profughi arrivano quasi tutti senza documenti. Nessun contatto ufficiale nemmeno con la polizia, che però chiude un occhio perché il centro alla fine svolge una funzione utile anche a loro: niente disperati per strada, tutti dentro quando fa buio e dopo un po’ di giorni vanno via dall’Italia: di più le forze dell’ordine non potrebbero chiedere. Frequenti invece i rapporti con la Chiesa: e fa un po’ specie vedere ragazzi dei centri sociali con l’orecchino scambiarsi sms con padre Konrad, l’elemosiniere del Papa, che senza farlo sapere in giro spesso spedisce aiuti importanti.

Tutto il resto, al Baobab, arriva dalle donazioni di singoli, famiglie, associazioni: niente soldi (che non sono accettati, il centro non ha nemmeno un tesoriere), ma altri aiuti concreti: cibo, medicine, vestiti ma anche lenzuola e materassi, che non sono mai abbastanza e vanno cambiati spesso. Del resto qui, dal maggio scorso, sono passate quasi 30 mila persone. Tutte registrate dall’anagrafe ufficiosa del Baobab, un quaderno di carta su cui viene inserito a penna ogni arrivo, incasellato per genere, età, eventuali malattie, tempo di permanenza e giorno di partenza: quando ai rifugiati viene consegnato una specie di kit (acqua, biscotti e poco altro) infilato in uno zainetto preso dallo scaffale delle donazioni. A destinazione raggiunta – sia Monaco, Londra o Stoccolma – l’ex ospite chiama per assicurare che «è andato tutto bene» e la sua casellina si chiude con un “ok”. Un giorno a caso, spulciamo il diario del Baobab: totale presenze 485, di cui 215 maschi e 89 femmine, più 181 minori. Di questi, i più piccoli vengono accompagnati a dormire in una struttura di Save The Children vicino a piazzale Fiume (che però di giorno è chiusa, quindi il mattino dopo i ragazzini tornano qui); i più grandi invece sono divisi per sesso e dormono con gli adulti.

Sembra incredibile – con così tanta gente e un turn-over tanto rapido – che tutto funzioni come funziona al Baobab: la sveglia alle sette, la colazione a base di té, latte e biscotti, le visite dei medici volontari, poi la cucina che inizia preparare il pranzo, l’assegnazione dei vestiti e tutto il resto, compresi i riti religiosi cristiani (la maggioranza) o musulmani, che si alternano nel cortile. Sembra incredibile anche perché la struttura d’accoglienza non ha gerarchie formali, salvo quattro coordinatori e l’assemblea generale che si tiene ogni martedì sera per affrontare questioni piccole e grandi, dall’igiene dei dormitori ai contatti con i No border di Ventimiglia, quelli che aiutano i profughi ad arrivare in Francia.

Già, perché il Baobab non fa solo charity ma è anche parte di una rete di attivisti con diversi snodi d’aiuto ai migranti: ad esempio a Milano (molti vanno in corriera a Lampugnano), a Bolzano (per chi vuole passare il Brennero) e nella Liguria occidentale (per chi vuole la Francia o ha in mente il viaggio fino a Calais, destinazione Inghilterra). Così da Roma si parte con le informazioni più aggiornate (quali sono le frontiere non blindate, quali stazioni vengono controllate etc) e non è raro che nel nord Italia ci siano volontari che si offrono di accompagnare di persona i rifugiati oltre il confine, con un passaggio in macchina: se guida un bianco, è più facile che nessuno ti fermi. Allo scopo si è creato anche un piccolo giro di giacche eleganti e scarpe lucide: l’immigrato le indossa nel percorso, poi si rimette quello che ha nello zaino e il vestito buono viene riportato indietro dagli attivisti italiani, che lo presteranno a un altro profugo perché passi a sua volta il confine, e così via.

Tutto ai limiti della legge, forse. Ma bisogna parlare con gli ospiti del Baobab e ascoltare le loro storie prima di giudicare in base ai regolamenti europei. Si inizia attraversando il Sudan, per settimane e con mezzi di fortuna; poi c’è il confine con la Libia, dove i migranti vengono passati in consegna alle bande locali. A quel punto inizia la parte peggiore: nel deserto, caricati in 25-30 dentro un Toyota Corolla, trasportati come bestie, da gente armata fino ai denti. A ciascuno, in quel tratto, viene data solo una bottiglietta d’acqua da 25 cl al giorno, a cui i broker prima aggiungono qualche goccia di benzina: serve a suscitare disgusto, così la si beve a sorsi piccoli e non viene consumata subito. La notte, tutti a dormire sulla sabbia con un mitra puntato, almeno finché non si arriva alla prima base dei trafficanti, dove si può restare anche mesi finché da casa qualcuno non manda soldi via MoneyGram o Western Union.

A proposito, a volte qui in Europa ci si chiede perché i migranti arrivano col telefonino. La risposta è semplice: senza, non si può partire. Nessuno ha in tasca contanti, di cui verrebbe derubato subito: il viaggio viene quindi pagato dai familiari a casa, a ciascuna banda, con i servizi di money transfer. Quindi si fa tutto per telefono. A volte, il cellulare è usato anche per convincere i parenti a sbrigarsi con il versamento: il migrante viene picchiato in diretta telefonica, in modo che sentendo le sue urla i familiari trovino i soldi.

Un altro frequente equivoco è quello delle madri che arrivano in Italia incinte al nono mese o con neonati: a noi sembra un controsenso che donne in quelle condizioni affrontino un percorso così pericoloso, ma al Baobab ti spiegano che partono proprio quando sono incinte perché questo è l’unico tabù ancora rispettato dalle bande libiche. Le altre ragazze vengono tutte violentate nel percorso: e non una volta sola.

Dopo un viaggio così – con frequenti compravendite di esseri umani da una banda all’altra – queste persone arrivano sulla costa libica e lì infilate su una barca. Soltanto a Misurata, spiegano, ci sono 17 “starting point”, uno per ogni gang: i più fortunati finiscono su un vecchio peschereccio con scafista incluso, gli altri buttati da soli su un catorcio galleggiante, il motore già acceso e il timone inchiodato verso nord.

Ecco quello che hanno alle spalle le donne, gli uomini e i bambini che stanno al Baobab, gli stessi che adesso vedi giocare a pallone sulla strada o a basket in cortile. Se ne andranno presto, Salvini stia tranquillo. Intanto però la Roma migliore offre loro qualche giorno di conforto, scherzi, abbracci di altri esseri umani. E anche un pianoforte, proprio all’ingresso del centro, donato da chissà chi: qualcuno che sa suonarlo c’è sempre e alla sera la sua musica, nell’aria morbida di Roma, racconta al mondo che da qualche parte, in qualche modo, la vita deve pur ricominciare.

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