[DallaRete] Perché il Jobs Act destinerà i lavoratori al precariato perenne

jobs-act-2015_650x250Articolo 18. se l’economia non funziona, è inutile riformare il lavoro. Le risorse a disposizione non permettono di garantire un reddito a chi perde il posto.

Il com­bi­nato dispo­sto tra Legge di sta­bi­lità e Jobs Act è un pacco con­tro lavoro e diritti. Andando oltre la reto­rica che il discorso poli­tico ci pro­pone quo­ti­dianamente, colmo di sur­rea­li­smo e misti­fi­ca­zione, que­sto è il dato che emerge da ciò che il governo sta facendo.

Si afferma che occu­pa­zione sta­bile e posto fisso sono resi­dui di pen­siero nove­cen­te­sco: i costi dei diritti non pos­sono più essere a carico dell’impresa, ma tra­sfe­riti sul mer­cato con l’aiuto dello Stato che deve accom­pa­gnare le per­sone favo­ren­done l’occupabilità. Ma si sostiene anche che l’accesso ad una occu­pa­zione tem­po­ra­nea e l’opportunità di un con­tratto a tutele pro­gres­sive sono i porti di ingresso per quell’occupazione sta­bile e ben retri­buita che può essere assi­cu­rata alle nuove gene­ra­zione solo con il tra­scor­rere del tempo.

Que­sta è una evi­dente con­trad­di­zione. Se si nega con la prima affer­ma­zione la fat­ti­bi­lità di un lavoro sta­bile e tute­lato per­ché non siamo più nel secolo breve ma nell’economia glo­ba­liz­zata del nuovo mil­len­nio in cui il capi­tale è libero di andare dove più con­viene e la com­pe­ti­zione è oggi su scala glo­bale, non si capi­sce come possa essere con­tem­po­ra­nea­mente vera la seconda affer­ma­zione, ovvero che que­sto lavoro sta­bile e tute­lato possa essere comun­que rag­giunto ma solo dopo la neces­sa­ria tran­si­zione in una fase di precarietà.

Il nostro mer­cato del lavoro non fun­ziona: le cifre par­lano da sole, nella crisi e prima della crisi. Il tasso di occu­pa­zione sulla popo­la­zione in età di lavoro è tra i più bassi d’Europa (nel 2013 è al 55%, più di 10 punti in meno della media euro­pea); la disoc­cu­pa­zione uffi­ciale ed uffi­ciosa è altis­sima, sopra i 6,5 milioni di per­sone, con dif­fe­renze ter­ri­to­riali e per età ele­va­tis­sime; oltre la metà dei disoc­cu­pati sono senza lavoro da più di un anno, quando in Europa pochi paesi fanno peggio.

Ma il mer­cato del lavoro non fun­ziona per­ché è la nostra eco­no­mia che non fun­ziona. Con la crisi set­ten­nale il nostro red­dito è tor­nato al livello del 2000, la sua cre­scita è peral­tro nulla da 15 anni, la pro­dut­ti­vità e le retri­bu­zioni sono ferme addi­rit­tura a metà degli anni ’90. Il mer­cato del lavoro non può fun­zio­nare per ragioni di forza mag­giore: se l’economia rista­gna, anche il lavoro rista­gna. La depres­sione della prima implica la depres­sione del secondo.

Il governo Renzi ritiene però che per far ripar­tire il lavoro occorra una enne­sima riforma del mer­cato del lavoro, in grande con­ti­nuità invero con quelle che l’hanno pre­ce­duta, come se inter­ve­nendo su que­sto mer­cato l’economia magi­ca­mente potesse ripar­tire. Sap­piamo pur­troppo che non sarà così, che occor­re­rebbe ripar­tire dal vuoto di domanda e di poli­ti­che pub­bli­che di domanda; nella depres­sione non è con il cam­biare le regole del lavoro che si attiva nuova domanda di lavoro, sem­mai si sosti­tui­sce lavoro, magari più sta­bile e più retri­buito, con altro lavoro, meno sta­bile e meno retribuito.

La legge di sta­bi­lità 2015 ed il Jobs Act scom­met­tono invece che il mer­cato si riat­tivi con una inie­zione di fidu­cia col­let­tiva, libe­rato da rigi­dità (tutele e pro­te­zioni) ed alleg­ge­rito da minori tasse sulle imprese più che sulle fami­glie, coperte in gran parte da tagli a quella spesa pub­blica che crea domanda effet­tiva. In verità si rischia di scam­biare il certo per l’incerto, e si gioca d’azzardo. Ci si affida al magico dispie­ga­mento delle libere forze di mer­cato, rimuo­vendo Key­nes: «In periodo di crisi da domanda effet­tiva, puoi por­tare il cavallo all’abbeveratoio ma non puoi costrin­gerlo a bere». La rre­to­rica del discorso poli­tico rie­sce a ven­dere que­sta poli­tica di destra come fosse una poli­tica di sini­stra, facendo inten­dere che si offrano nuove tutele a coloro che non le hanno e che le vec­chie deb­bano essere rottamate.

L’introduzione del con­tratto a tutele cre­scenti avviene senza ridu­zione signi­fi­ca­tiva delle tipo­lo­gie di con­tratto di lavoro non-standard. Il rischio è che il nuovo con­tratto si aggiunga alla mol­te­pli­cità esi­stente, espan­dendo il super­mar­ket. Per il nuovo con­tratto man­cano decli­na­zione di tutele cre­scenti, cadenza tem­po­rale della loro intro­du­zione, ter­mine ultimo di tra­sfor­ma­zione in un con­tratto stan­dard. La novità rile­vante è già avve­nuta, eli­mi­nando la «cau­sale» nel con­tratto a ter­mine e con­sen­tendo pro­ro­ghe ad libi­tum via modi­fica della man­sione svolta. Peral­tro, prov­ve­di­menti di incen­ti­va­zione decon­tri­bu­tiva anche recenti mostrano scarsa effi­ca­cia nel creare occu­pa­zione aggiun­tiva favo­rendo invece sosti­tu­zione tra con­tratti. La decon­tri­bu­zione a sca­denza fissa al terzo anno e non vin­co­lata ad occu­pa­zione addi­zio­nale, som­mato all’indennizzo al licen­zia­mento cre­scente nel tempo, rischia poi di tra­sfor­mare al nascere il nuovo con­tratto a tutele pro­gres­sive in un con­ti­nuum infi­nito di mol­te­plici con­tratti a tempo determinato.

L’estensione degli ammor­tiz­za­tori sociali è illu­so­ria. Non si pre­cisa affatto quali cate­go­rie di lavo­ra­tori poten­ziali siano coin­volte, né la durata della coper­tura, o le risorse a dispo­si­zione. Non si tute­lano le cate­go­rie più deboli ed oggi escluse anche dagli 80 euro, si esclu­dono aree signi­fi­ca­tive di lavoro para­su­bor­di­nato ed auto­nomo. Il legame pre­vi­sto tra durata degli ammor­tiz­za­tori ed anzia­nità di ser­vi­zio ripro­duce il dua­li­smo che si vuole eli­mi­nare. Il modello wel­fare to work si pre­sta a rischi pre­scrit­tivi di lavoro for­zato, in cam­bio di sus­si­dio e non di un rap­porto di lavoro.

Le stime per un sistema di pro­te­zione eco­no­mica di mer­cato di tipo uni­ver­sa­li­stico vanno dai 10 al 20 miliardi annuali. Il gap tra le risorse a dispo­si­zione e quelle neces­sa­rie appare abis­sale e tale da non garan­tire affatto una pro­te­zione di red­dito al lavo­ra­tore che è pri­vato del lavoro. Ciò si dovrebbe rac­cor­dare con le poli­ti­che attive del lavoro, campo in cui l’Italia impe­gna risorse eco­no­mi­che ed umane esi­gue rispetto alla media euro­pea. La migra­zione della pro­te­zione di un lavo­ra­tore da tutele sul posto di lavoro verso tutele di mer­cato rischia di essere dav­vero alta­mente illu­so­ria per molti poten­ziali bene­fi­ciari. Meglio sma­sche­rare coloro che pra­ti­cano la misti­fi­ca­zione della realtà.

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