[DallaRete] Quanto costa la fiducia del Teatro Valle
Dopo tre anni è finita l’occupazione. Che cosa è successo davvero, e quali sono i rischi e i risultati della “fiducia” concessa alle istituzioni.
Gli unici ad avere creduto, fino in fondo e fino ad oggi, in una trattativa che non è mai esistita sono stati gli attivisti del teatro Valle. Ci hanno creduto fino al punto da completare l’«autosgombero» domenica notte, come segno di una «fiducia» nel teatro di Roma e il Campidoglio. Un atto clamoroso, di cui non c’è memoria nella storia dei movimenti sociali in Italia, che ha tormentato fino in fondo gli ex-occupanti in un’assemblea lunghe e dolorose.
Chi è l’«artivista»
Si sono raccontate di «spaccature» tra un fronte «riformista» e uno «rivoluzionario», tra chi pensava di accettare una cambiale in bianco presentata dal Campidoglio sotto una minaccia di sgombero che ha mandato in tilt l’assemblea e chi pensava ad una resistenza «creativa», articolata e di lunga durata. Al netto dell’emotività, dell’angoscia e della paura di un’occupazione che un attivista in queste ore ha «definito sentimentale», in realtà la proposta di tenere insieme il gruppo è stata avanzata proprio dall’ipotetico fronte «radicale», trovando faticosamente una tenuta nell’assemblea.
Più importante di un «pezzo di carta», impossibile da produrre nell’Agosto inoltrato, più importante di una disfida in punta di diritto, era tenere l’unità politica nel momento del primo, vero, conflitto da tre anni a questa parte. E bisognava reagire al tentativo, intelligente ed efficace, del Campidoglio e del teatro di Roma di dividere gli «artisti» dagli «attivisti», spaccando così la vera novità politica espressa dal Valle: la creazione dell’«artivista» (riprendo il concetto coniato dagli attivisti di Macao).
È stata una scelta difficile: con questa ardita soluzione, si è voluto affrontare la contraddizione tra le convinzioni legate alla cultura professionale e il fare politica – uno dei problemi costitutivi del quinto stato – cercando una sintesi ancora sconosciuta all’interno del gruppo. Ciò ha messo in secondo piano la politica in campo aperto, riaprendo i giochi e allargando l’orizzonte della sintesi alla partecipazione della società attiva e dei movimenti. In quest’ultimo caso, molte erano le incognite. La debolezza dei movimenti, l’intermittenza dell’impegno civile, le modalità della resistenza, la stagione non proprio favorevole a fare movimento. Un tentativo poteva essere fatto, ma così non è stato. Si è pensato invece alla necessià di rendere riproducibile la lotta del Valle. E per farlo bisognava mantenere – per quanto possibile – l’unità tra gli artisti e gli attivisti. Per questo è stata presa una decisione traumatica.
Doppio vincolo micidiale
L’insidia più forte era la volontà di normalizzare l’esperienza del Valle, riducendola ad un’esperienza artistica, anzi ad un solo spettacolo: il «Macello di Giobbe» di Fausto Paravidino che debutterà al Beaux Arts di Bruxelles. Dal punto di vista della composizione sociale e professionale, invece, la forza del Valle è stata l’ibridazione tra la creatività e la politica. Con l’ultimatum del 31 Luglio, e poi con le ventilate minacce di sgombero violento, le «istituzioni» hanno cercato di cancellare uno degli elementi costituenti della condizione del «quinto stato», rinviando un accordo credibile (una «convenzione» tra il teatro di Roma e la fondazione del Valle) a dopo l’uscita dal teatro.
Questo uso cinico della psicologia in politica ha creato un doppio vincolo micidiale al punto che il Valle ha oscillato tra diverse ipotesi. Avere resistito, forti solo della propria vulnerabilità, è stato un risultato. Così come avere mantenuto l’unità fino all’orlo del baratro, anche davanti a ragionevoli obiezioni. Come quelle dei cittadini e dei soci della fondazione che nelle assemblee dell’ultima settimana si sono appellati ad una «resistenza» per stanare a sua volta il Campidoglio.
Dicotomia fallace
Il dibattito è stato polarizzato da una dicotomia fallace: uscire senza firmare, restare per farsi reprimere. Del conflitto, come della resistenza, all’interno come all’esterno dell’occupaziione sono state fornite rappresentazioni caricaturali, massimediatiche e in fondo moderate. Chi confligge è inevitabilmente un «antagonista», un «marginale», un riottoso. In altre parole, un «black block». Non che sia vera la versione opposta: chi tratta è un «riformista» e basta. Nel parossismo scattato dopo l’ultimatum di Marinelli e Sinibaldi queste rappresentazioni si sono accavallate, con il rischio dell’implosione.
Nel brevissimo intervallo che ha portato ad una conclusione (provvisoria) dell’affaire Valle non è stata quasi mai presa in considerazione la proposta della «Comune» contenuta nello statuto della fondazione «teatro Valle bene Comune». Una posizione politica precisa, e impegnativa al punto che gli attivisti si sono auto-definiti «comunardi». Sul tavolo di una vera trattativa, che non c’è stata ancora, ciò avrebbe implicato il riconoscimento di una fondazione che autogoverna il teatro Valle e, successivamente, firma accordi necessari con istituzioni come il teatro di Roma, il Campidoglio, il Ministero dei beni culturali. Questo terreno è stato abbandonato. È stata accettata la proposta del teatro di Roma. Si è arrivati ad un rovesciamento: la fondazione oggi dovrebbe rientrare sotto l’ombrello del «pubblico-statale» per diventare titolare di un «progetto sperimentale». L’impressione che non ci fossero alternative resta forte e si sa che le trattative – soprattutto quelle che nascono in condizioni sfavorevoli – devono essere concluse con intelligenza. Se l’avversario ti concede uno spazio. Questo è avvenuto con il riconoscimento «culturale, artistico e politico» della fondazione e quindi dei tre anni di occupazione.
Dei «beni comuni» e della politica
Dai beni comuni alla sussidiarietà orizzontale, il passaggio è stato tuttavia grande. E può implicare una trasformazione dei lavoratori dello spettacolo, e della cittadinanza che li ha sostenuti, in un movimento a difesa della Costituzione. Non che questi elementi siano inconciliabili, anzi. Ma resta una questione politica di primo piano: il riconoscimento politico di questa esperienza è avvenuta in base alla sua capacità di gestire un «bene pubblico», non in base alla capacità di cambiare le regole della produzione culturale a partire da un modello che afferma la cooperazione e il mutualismo e rifiuta il modello verticistico e burocratico delle diseguaglianze tra i redditi, lo spoil system, l’appropriazione del valore di un’attività o di un lavoro. Se si vuole, questo è il risultato ottenuto da negoziatori determinati e «pronti a tutto». Così si è definita l’assessore alla cultura di Roma Giovanna Marinelli. Non è detto che, in futuro, con altri rapporti di forza, gli equilibri possano cambiare.
A pesare sono stati anche gli attacchi all’«illegalità» del Valle che hanno sollevato una nube tossica. A questo è stato risposto: il movimento difende un modo diverso di gestire bene pubblico in nome della Costituzione. Ma per questo basterebbe il pubblico così com’è. Salvo pretendere di insegnare allo Stato a fare veramente lo Stato.
Su queste ambivalenze ha giocato la politica dura e determinata dell’assessore. Insieme a Sinibaldi, ha riconosciuto agli attivisti di avere «mantenuto pubblico il teatro», ma per dire: «Ora basta, ci pensiamo noi». Per anni invece il Valle ha detto che la «pubblicità» del teatro era la premessa per affermare l’autogoverno dei cittadini e dei lavoratori, tra l’altro stabilito dall’articolo 43 della Costituzione. Una scelta giustificata per «riconquistare il consenso degli artisti». Non è tuttavia escluso che abbia creato criticità con l’altro emisfero del mondo Valle: i movimenti sociali e una parte attiva della società civile. Su questo elemento si giocherà la convenzione da concordare nei prossimi mesi.
«Avere fiducia nelle istituzioni»
Consapevoli delle difficoltà, tra sabato e domenica è stata lanciata una scommessa. Alle istituzioni è stato detto: «Abbiamo fiducia in voi, ma voi dovete averne altrettanta in noi». Una scommessa dilaniante. Non passa giorno in cui tali istituzioni non esibiscano una distanza dai cittadini. Questa scelta pesa in un momento in cui resta altissima la diffidenza rispetto alla «casta», oltre che l’idea per cui queste istituzioni siano funzionali agli apparati di controllo e disciplinamento della popolazione. Il fatto, poi, che l’interlocutore del Valle sia il presidente del teatro di Roma Sinibaldi, già socio della fondazione «bene comune», apre un altro problema.
Nei capannelli che si sono formati nella notte di domenica si è a lungo discusso se si possa considerare «affidabile», cioè degno di fiducia, un interlocutore nominato dalla politica. Al di là delle lodevoli intenzioni di Sinibaldi, «nulla toglie che alla scadenza del mandato, i vertici del teatro di Roma cambino. Che fine farebbe la «convenzione» con il Valle?» Tutto è demandato ad una convenzione che è solo all’inizio. Si può modificare, per via contrattuale, una regola fondamentale della politica italiana, rispettando uno degli obiettivi del «movimento-Valle»?
Questo atto di fiducia può sembrare ingenuo, e forse lo è, perché può essere spazzato da uno stormire di foglie. Il tempo dirà se il Valle avrà avuto ragione. Questa fiducia è stata anche un atto di lucida follia e generosità politica. Non verso le istituzioni, l’Altro, che tuttavia ha risposto, ma verso se stessi. «E quanto a me – scrive Jacques Derrida in “Politiche dell’amicizia” – che io mi affido, in una asimmetria che introduce la differenza fra conoscere ed amare, tra ragione ed affetto, nel senso di avere la capacità di avvertirsi “affetti”». In altre parole, per superare la chiusura minacciosa dell’Altro che promette violenza (il Campidoglio, lo Stato), e per evitare di essere imprigionati nelle sue dicotomie (fuori/dentro; legale/illegale; marginalità/integrazione), c’è stato un riflesso animale verso un «senza misura». Ci si è messi a nudo, è stato fatto l’inconcepibile. Al di là degli effetti che produrrà in un rapporto di forza sfavorevole, questa resta la forza di un movimento.
Questa «follia» può essere il risultato di un sogno umanistico: deriva dal tentativo di restaurare un legame tra cittadini e Stato che sembra impossibile visto che nella vita quotidiana le «istituzioni» sono portatrici di un conflitto durissimo (appropriazione di risorse pubbliche, obbedienza ai patti europei che distruggono risorse economiche ecc.). Nella società dell’austerità non c’è spazio, né tempo, per alcuna fiducia
Con questa «fiducia» il Valle ha deciso di muoversi su un margine stretto, esponendosi alle rappresaglie dell’Acea (e la Prefettura) che hanno tagliato ieri la luce al teatro, mettendo a rischio veramente il teatro, mentre il Campidoglio ha imposto a tempo di record il riallaccio. Una vicenda imbarazzante che ha dimostrato un conflitto anche tra chi, nelle istituzioni, ha visto nel Valle un «nemico» e chi, invece, cerca di ricondurlo ad una norma.
Avere fiducia è una scelta difficile perché ha un costo, quello di pensare che le istituzioni siano modificabili fuori all’interno dei loro meccanismi autoreferenziali. Il prezzo pagato è alto: da prefigurare un’istituzione autogovernata, per il Valle si prospetta una co-gestione pubblico-privato. In questa cornice, sarà la Fondazione del Valle a ricoprire il ruolo del «privato», come del resto è ogni fondazione. Il «pubblico» continuerà a guidare le danze. Come prima, anche domani.
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