[DallaRete]#Ventimiglia in ogni città! La solidarietà senza confini è già opposizione alla guerra futura

FOTO-COPERTINA_600px[Dopo il racconto del primo mese al presidio di Ventimiglia, ecco un testo collettivo che aggiorna sulla situazione al confine con la Francia, allarga la prospettiva all’Europa intera ed evidenzia il rapporto tra le ondate di «emergenze profughi» e le nuove guerre che l’Occidente, Italia compresa, sta preparando. Su Giap ci occuperemo presto, in modo più approfondito, di una delle situazioni narrate qui sotto, quella romana del Baobab. Più avanti parleremo anche di quel che accade a Lampedusa, oltre e contro le descrizioni allarmistiche o pelose che vanno forte sui media mainstream. Buona lettura.]

Testo scritto da plv, in collaborazione con Martina Bernabai, pannychisviii, Rosa M. Valerio Muscella e altre losche individualità che hanno preferito non essere citate.
Foto di Michele Lapini, Valerio Muscella, José Palazón e Francesco Pistilli.

«Molti crimini sono migliori di questa legalità.»
Luca Rastello, I buoni

1. Resistenza
2. Ventimiglia in ogni città
> Melilla
> Lesvos
> Passaggio tra i Balcani
> Ungheria
> Calais
> Lampedusa
> Parigi
> Roma
> Bologna
3. Guerra. E le sue retoriche

1. Resistenza

Nell’ultimo mese la situazione a Ventimiglia è rimasta stabile pur nella sua estrema difficoltà. Il presidio sugli scogli è sempre di più un punto di riferimento, dove chi ha intrapreso il viaggio verso il Nord Europa può rifiatare e avere informazioni che altrove è difficile ottenere. Per questo in diverse giornate si sono allestiti workshop con avvocati in grado di rispondere alle domande sulla richiesta d’asilo in Italia e in altri paesi, diritti, norme internazionali. Durante alcuni di questi incontri diversi migranti si sono poi presentati agli avvocati italiani con un foglio in mano, senza sapere di cosa si trattasse:
– È la tua richiesta d’asilo in Italia.
– Ma io non ho mai fatto una richiesta d’asilo in Italia.
Di fatto, alcuni dei migranti hanno scoperto di aver firmato un foglio ci cui non conoscevano il reale contenuto.

Ma i problemi con la legge non sono finiti qui: altri momenti sono stati dedicati alla comunicazione con i migranti nel centro della Croce Rossa vicino alla stazione, a cui è stato letteralmente impedito di partecipare ad un’assemblea avvenuta l’8 agosto. Come abbiamo scritto nel precedente post, ai migranti in stazione è concesso fare tutto, meno che capire qualcosa su quello che sta avvenendo. L’assemblea ha mandato sulle furie il sindaco Enrico Ioculano (PD) e la leghista Sonia Viale, vicepresidente della regione Liguria: il primo ha dichiarato che «l’amministrazione è vicina a chi è in difficoltà, cioè ai migranti, non agli attivisti che sono “in vacanza” (al presidio)» la seconda ha definito i No Borders dei figli di papà. Una delle attività principali a cui si dedicano i No Borders durante la loro vacanza è quella di intervenire con azioni di disturbo nelle tante operazioni discrezionali da parte della polizia francese, puntualmente segnalate dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. L’ASGI ha infatti pubblicamente sollevato, diritto alla mano, la questione del l’illegalità delle attività della polizia contro i migranti, sia per quel che riguarda la parte francese che quella italiana. Tuttavia, al di là del finto battibecco tra Italia e Francia nei primi giorni del presidio, nessun membro della politica italiana ha sollevato la questione con i colleghi francesi presentando mozioni, documenti, rilasciando dichiarazioni, insomma, quelle attività che un politico dovrebbe fare quando è realmente interessato ad un problema.

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È in questo vuoto che, nella notte tra il 9 e il 10 agosto, il presidio è stato avvisato della presenza di 100 migranti nella parte francese della frontiera, rinchiusi nei container. Nel corso della notte una ventina di persone del presidio si è spostata sul luogo per dar vita ad una protesta di fronte alla stazione della polizia francese, con i migranti a gridare da dietro le transenne e gli attivisti No Border a bloccare la strada. La protesta si è conclusa con l’intervento della polizia francese da una parte e quella italiana dall’altra, mai così d’accordo fra loro. Tutti gli attivisti hanno così passato la notte in questura: identificazioni e denunce per l’occupazione del presidio sugli scogli a cui si aggiungono 6 fogli di via. I migranti invece sono stati rimandati in Italia al centro della Croce Rossa da parte della quale, a quanto pare, mai si avrà alcun comunicato di sdegno in merito alla situazione.

Un episodio simile si è ripetuto la sera del 23 agosto, con 55 migranti bloccati alla frontiera per molte ore e rimandati dopo molte ore al centro di Ventimiglia. Identica la dinamica delle operazioni e la coordinazione tra le forze dell’ordine, con la differenza che questa volta la polizia francese ha usato la forza: un’attivista francese è stata colpita al costato da una manganellata della polizia francese, mentre per un ragazzo è scattato il processo per direttissima con l’accusa oltraggio a pubblico ufficiale.

Vale la pena vedere qui, il video che racconta della notte del 9 agosto e al contempo restituisce in pieno lo spirito di chi per due mesi ha letteralmente ballato alla frontiera.

Rimane sempre elevata la discrezionalità delle operazioni della polizia, su tutt’e due i fronti. Sfruttando la sospensione di Schengen, prevista dal trattato di Chambery, la polizia francese ha continuato per due mesi con i blocchi alla frontiera: 1548 le persone bloccate nella prima settimana di luglio, il picco più alto fino ad ora, sebbene i numeri siano rimasti alti durante tutta l’estate (835 della prima settimana di agosto). Bisogna tener conto che il destino di alcuni dei migranti respinti dalla Francia è stato un ulteriore viaggio, imposto con la forza, al CARA di Bari. Di respingimento in respingimento, dunque, chi viaggia viene spedito sempre più lontano dalla sua meta, che per molti equivale all’Inghilterra o alla Svezia.

Il presidio ha comunque tenuto e continua a tenere botta nonostante il trappolone dell’estate. Non è poco: fino ad ora si è riusciti a reggere ed era tutt’altro che scontato, lontano dai centri abitati e tagliato fuori dalle linee di comunicazione. Con l’autunno alle porte, si tratta di un precedente importante: Ventimiglia non è infatti solo un comune al confine con la Francia, ma anche l’esempio di una resistenza di fronte ad un attacco di proporzioni globali che ha ricadute su tutti i territori e non solo nei luoghi che rappresentano le frontiera dell’Europa. Per questo vale la pena dire «Ventimiglia in ogni città» .

Ci sono vari strumenti utili a questo scopo che consentono di passare all’azione e dunque di impegnarsi in prima persona. Il primo è il portale Welcome to Europe dove i migranti possono trovare indicazioni su dove è possibile reperire, all’interno dei diversi paesi, un gruppo di supporto in grado di dare informazioni legali. Il portale è piuttosto basico, ma rende bene l’idea del tipo di aiuto che è possibile fornire.

Un secondo strumento è quello di Alarm phone, dedicato maggiormente ai viaggi via mare. Si tratta di un numero a cui può chiamare chi si trova su un barcone, in modo tale che chi riceve la chiamata segnali l’imbarcazione alla guardia costiera e così mettere pressione affinché vi sia un intervento tempestivo. L’idea è nata all’interno di un progetto molto più ampio, chiamato “Watch the med”: sul sito viene fornito un ottimo vademecum su come segnalare e documentare violazioni da parte delle autorità in tema di migrazioni.

Ci sono infine date di mobilitazione collettiva. Per il giorno 3 ottobre da Lampedusa viene la proposta di un’iniziativa comune a tutta Europa, per ricordare la strage del 3 ottobre del 2013 quando a largo della costa siciliana morirono, accertate, 155 persone. Lo stesso giorno infatti cadono gli 80 anni dall’invasione fascista in Etiopia. Quest’ultima, come ha scritto Wu Ming presentando il progetto «Resistenze in Cirenaica»,

«è un perfetto esempio di “ritorno del rimosso” che viene soffocato. Quasi tutte le vittime erano in fuga dalla dittatura eritrea (che l’Italia sostiene) o dal sanguinoso caos somalo (per il quale l’Italia ha enormi responsabilità), cioè da due ex-colonie italiane; per arrivare in Italia, erano passate dalla Libia, altra ex-colonia italiana precipitata nel caos anche per responsabilità italiane.
Ebbene, sfidiamo chiunque a trovare, nelle centinaia di articoli usciti all’indomani della tragedia, le informazioni che abbiamo appena dato.»

Fare i conti con i flussi migratori di oggi significa anche fare i conti con la coscienza sporca dell’occidente. Avere presente la mappa dell’Europa colonialista è sempre utile.

2. Ventimiglia in ogni città

Ventimiglia, Calais, Kos, Mediterraneo, Ungheria, ma anche Parigi, la Catalunya, Milano, luoghi lontani dalla frontiera ma che diventano frontiera essi stessi. Ciò che è certo è che quello della migrazione è stato il tema centrale dell’ultimo mese, non solo in Italia ma anche in tutta Europa. Ed è possibile unire i punti per vedere il disegno che ne veniva fuori.

I resoconti che seguono parlano di militarizzazione, di nervi scoperti, di situazioni allarmanti, ma anche di resistenza. Sebbene possano essere differenti tra loro, tutti questi casi ci parlano di una situazione che è comune.

Melilla

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Ceuta e Melilla sono due luoghi simbolo di un esproprio dal momento che il Marocco non riconosce la sovranità spagnola delle due enclave . Si tratta di avamposti della frontiera europea, circondati da recinzioni (la ” valla “) che impediscono il passaggio dei migranti in territorio spagnolo. Giusto per chiarire la natura di questi avamposti, Melilla è una delle città in cui ancora resiste intatta una statua di Franco e dove una delle vie centrali porta il nome di “Avenida de la Legión”. Pochi mesi fa la stampa internazionale ha acceso i riflettori su quanto avviene in questi luoghi, anche a causa di questo video che mostra le violente operazioni della Guardia Civil spagnola durante uno dei tentativi di salto del valla . A questo tipo di violenza si aggiungono le “devoluciones en caliente” operate dalla stessa Guardia Civil che, dopo il salto dellavalla , rimanda di peso i migranti in territorio marocchino. Si tratta di una pratica illegale a cui le forze dell’ordine spagnole fanno costantemente ricorso.

La polizia effettua operazioni altrettanto violente anche all’interno del territorio di Melilla: il 27 maggio Osama, un ragazzo poco più che adolescente, è morto cadendo dalla scogliera durante una retata della polizia. Per farsi un’idea di come non si tratti di un caso isolato e della retorica razzista che lo ha accompagnato è consigliata una lettura di questo articolo. Nell’articolo si fa riferimento al fatto che non si sapeva se Osama fosse o meno maggiorenne. Si tratta di un elemento importante, dal momento che i minorenni, in teoria godrebbero di una protezione legislativa speciale, tuttavia proprio la situazione di Melilla è pesantissima anche da questo punto di vista. Circa 60 bambini vivono infatti nelle strade di Melilla senza alcun tipo di supporto e sono costantemente oggetto di retate e di maltrattamenti.

Da qui è possibile trovare un barcone, così come da Ceuta, ma ultimamente l’apparato repressivo è così pesante che Tanger è diventata un nuovo punto di partenza. Tuttavia nella città marocchina la situazione è a dir poco tesa, anche perché qui sono affluiti i migranti sgomberati dal Gurugù, il monte in cui si radunavano i migranti prima di tentare il salto della valla . Contro i migranti provenienti dall’Africa subshariana si è scatenata una retorica violentissima (“i neri non rispettano le donne”, “i neri non rispettano il Ramadan”, ecc.) che ha comportato anche manifestazioni di protesta degli stessi marocchini. L’1 luglio questa situazione è sfociata in un violento sgomberodel quartiere di Bohkhalef, che ha causato la morte di un ragazzo di 29 anni. Oltre allo sgombero sono stati effettuati degli sfratti da appartamenti dove i migranti avevano regolare contratto. I migranti vivono ora nei boschi, poco lontano dal quartiere in cui abitavano, nell’attesa di organizzare dei gruppi per tentare la traversata verso la Spagna. Già, perché a Tanger si assiste ad un fenomeno originale per cui molti dei gommoni che partono sono in realtà auto-organizzati, senza quindi la mediazione di scafisti. Non risulta che questo “dettaglio” interessi i governi europei, così preoccupati dalla lotta alle mafie o al commercio degli esseri umani.

Lesvos

La notizia dell’11 agosto è stata quella di scontri e tensione nell’isola di Kos, a cui accedono molti migranti dalla Siria, nel tentativo di accedere alla Grecia e poi continuare il viaggio verso l’Europa. I numeri parlano di circa 7000 migranti per un’isola di trentamila persone. Nei filmati è possibile vedere le operazioni della polizia greca di fronte alle proteste: schiaffi, minacce, spintoni (anche da parte di un poliziotto munito di coltello), gas urticante che hanno portato all’estremo una tensione già al limite a causa del caldo e dei numeri. Per avere le idee più chiare su quanto avvenuto a Kos suggeriamo i bei reportage di Francesca Coin e qui.

Non è l’unico caso, un’altra isola particolarmente sotto pressione è infatti quella di Lesvos. È qui che ha sede il centro di Kara Tepe, che versa in una condizione definita «scioccante e inimmaginabile», con più di tremila persone prive di accesso ad acqua e sanitari. Il collettivo Musaferat ha inoltre segnalato come la tensione sia alta anche a causa della poca chiarezza e l’efficacia solo temporanea delle misure messe in campo dal governo. Questo genera continue proteste, ma anche litigi, a volte molto violenti, fra i migranti stessi.

Tuttavia esiste una solidarietà attiva che produce risultati incredibili. E’ il caso del centro autogestito di Pipka (di cui recentemente si è parlato anche in Italia, nato grazie all’aiuto di attivisti e volontari, in un periodo in cui non vi erano strutture in grado di supportare l’immigrazione. Abas, uno dei migranti arrivato al centro, racconta così la sua esperienza: «eravamo delusi dall’Europa prima di arrivare a PIKPA dal momento che avevamo passato giorni durissimi. A PIKPA potevamo riposarci. Abbiamo ricevuto vestiti, cibo, un posto per dormire, supporto medico… e onore». Vale la pena leggere anche qui) che riguardano i tre anni di vita del centro.

Non manca chi dice che l’immigrazione danneggia l’immagine del turismo, un bel problema viste le condizioni economiche in cui versa la Grecia. Tuttavia a queste accuse si può rispondere con le parole dello scrittore Yorgos Tirikos-Ikas , da tempo impegnato a PIKPA e a diffondere attraverso i suoi racconti le storie della vita al centro: «Ho parlato con dei turisti che venivano da Kalimno e mi hanno detto che la cosa più bella che hanno visto sull’isola è la solidarietà di certe persone verso i rifugiati! Questa è la migliore pubblicità!».

In realtà anche per chi vuole dare la sua solidarietà la situazione non è facile. Esiste infatti una legge che punisce severamente chi offre un passaggio ai migranti all’interno del territorio di Lesvos, come accade piuttosto spesso con chi vuole fornire un primo aiuto immediato: chi è appena sbarcato e ha intenzione di recarsi immediatamente al centro di identificazione a Mitilini può infatti dover percorrere anche 80 chilometri dal luogo dello sbarco. Per questo motivo il 15 giugno è stata organizzata una protesta con una carovana di 41 auto che trasportavano i migranti verso Mitilene. Obiettivo pienamente raggiunto senza alcun fermo o arresto.

Passaggio tra i Balcani

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Le rotte proseguono spesso verso i Balcani e in particolare attraverso Macedonia e Serbia, lungo un percorso noto come il “cammino delle formiche”. Il tratto da percorrere diventerà ancora più pericoloso di quanto lo è stato durante l’estate, visto quanto sta avvenendo negli ultimi giorni con la chiusura della frontiera macedone e il conseguente invio dell’esercito a chiudere il confine con la Grecia.

I treni che attraversano Macedonia e Serbia sono normalmente gonfi di migranti, stipati in vagoni sigillati. Entrambi i paesi forniscono dei permessi di libera circolazione validi per 72 ore, il tempo concesso dal governo alle persone per fare una traversata e uscire dal paese. Il viaggio può essere fatto a piedi, in treno o sfruttando l’aiuto dei passeur: ovviamente a nessuno interessa in che modo i migranti si spostino, l’importante è che siano fuori entro il limite massimo, altrimenti il rischio è la galera. Per ottenere il permesso è necessario stare in coda anche per giorni, tanto che esistono casi di persone che si mettono in fila due volte per poter rivendere il permesso.

Nei campi la situazione è drammatica: è il caso del campo di Preševo, uno dei luoghi in cui è possibile ottenere il famoso foglio di circolazione. Anche in questo caso si segnalano atteggiamenti violenti da parte della polizia locale che durante la notte interviene spesso con intimidazioni, svegliando le persone e obbligandole a spostare le tende senza alcuna motivazione.

L’arrivo al confine con l’Ungheria non è per nulla facile. È infatti frequente la presenza di «mafia gangs» che assaltano i migranti a sassate. Il razzismo non è l’unica causa: chi viaggia per così tanti chilometri sa che avrà bisogno di soldi per pagare i trasporti, molti di loro non sono quindi dei “poveri migranti”, ma persone che in effetti i soldi li hanno e sono disposti a spenderli per arrivare a destinazione.

Il viaggio tra Macedonia e Serbia è quindi un autentico incubo, anche perché le detenzioni sono numerose e rientrano nella logica di un gioco di rimpiattino che coinvolge ben quattro nazioni differenti: i migranti che riescono a percorrere questa tratta possono arrivare in Ungheria, ma da lì respinti in Serbia dove possono essere arrestati o rimandati addirittura in Macedonia, dove tenteranno di nuovo il viaggio. Un limbo costruito dalle nazioni, da cui solo i “traghettatori” possono salvarti, a costo,ovviamente, di una lauta somma. Ma d’altra parte, quali sono le alternative?

Ungheria

Tappa obbligata per chi arriva dalla Grecia e vuole raggiungere la Germania o la Svezia. Nel corso dell’estate si è molto parlato della decisione del premier conservatore Viktorb Orbán di innalzare un muro lungo il confine con la Serbia al fine di bloccare l’afflusso di migranti nel paese. Una decisione simile è stata presa anche dal governo bulgaro per bloccare i flussi in arrivo dalla Turchia. La maggior parte dei migranti che qui arrivano sono siriani, in fuga dalla morsa ISIS/Assad, e afghani. A questi si aggiunge un elevatissimo numero di kosovari.

C’è da dire che l’Ungheria è uno dei paesi che accoglie il maggior numero di richieste d’asilo, quasi il doppio rispetto all’Italia. Eppure ci sono diverse affinità tra Ungheria e Italia, sia in merito ai punti politici cruciali che alle retoriche che circolano.

La proposta di costruire un muro è arrivata dopo un lungo braccio di ferro con l’Unione Europea rispetto al regolamento di Dublino secondo cui un migrante è costretto a fermarsi nel primo paese in cui viene identificato. Questo è un punto interessante, dal momento che questo è uno dei blocchi che ha creato il caso “Ventimiglia” e che di fatto blocca le rotte dei migranti nei paesi situati ai confini esterni dell’Unione Europea. È per questo motivo che il 23 giugno l’Ungheria ha deciso di sospendere l’accordo di Dublino in modo da consentire ai migranti entrati nel paese di procedere nel loro viaggio. A questa decisione ha fatto seguito il voto del 6 luglio con cui il parlamento ungherese ha deliberato a favore dell’inasprimento delle norme sul diritto d’asilo. Riguardo alla linea del governo Orbán ha chiarito senza mezzi termini che bloccare i flussi migratori significa bloccare il terrorismo, e ha aggiunto che «vorremmo riservare l’Europa agli europei», e allo stesso tempo costruire «Ungheria ungherese».

Calais

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«Welcome to Eurotunnel» e «Bienvenue a Eurotunnel» sono le due scritte che accolgono chi si appresta a passare al di sotto della Manica. I cartelli contrastano con una lista di morti lunghissima e in costante aggiornamento: colpiti dalle auto o da un tir, caduti dal treno o uccisi durante aggressioni. La situazione all’ingresso dell’Eurotunnel è diventata esplosiva da quando il governo inglese ha speso 15 milioni di sterline per rinforzare la sicurezza del porto. All’Eurotunnel si tenta così di passare saltando su un treno in corsa, infilandosi dentro un camion o sotto un autobus e sperando di arrivare vivi dall’altra parte.

Secondo le recenti dichiarazioni di David Cameron sono in arrivo altri 7 milioni di sterline per rinforzare la sicurezza del passaggio, come richiesto dalla stessa società Eurotunnel. Il finanziamento è giustificato sui giornali con il riferimento ad un assalto di 2000 migranti alla struttura, avvenuto lo scorso 28 luglio. Come informa il gruppo Passeurs d’Hospitalités, i numeri sono ben diversi e nella realtà 2000 era il numero totale delle persone che in quei giorni erano accampate a Calais. Il giro di soldi è comunque destinato a continuare, dal momento che è notizia della settimana scorsa che la Gran Bretagna finanzierà, con 3,5 milioni di sterline, un centro di accoglienza sul territorio francese. In altre parole Calais è, e si appresta sempre di più ad essere la Melilla inglese.

Sia chiaro: le proteste da parte dei migranti ci sono e nell’ultimo mese sono diventate costanti. L’ultima di queste è stata giovedì scorso quando, durante la visita di Bernarde Cazeneuve e Theresa May (rispettivamente ministri dell’interno di Gran Bretagna e Francia), una manifestazione di migranti e solidali ha sfilato per il centro per poi bloccare l’autostrada che porta all’Eurotunnel. Il corteo è stato successivamente caricato e disperso dalla polizia francese con l’uso di gas lacrimogeni.

La vita nei pressi del Tunnel è durissima: nei tre accampamenti, definiti le “Jungles”, le condizioni igieniche sono assolutamente precarie e il freddo è intensissimo anche nei mesi estivi. Le giungle (una di queste contiene più di 1500 persone) sono una risposta alla legge che da aprile rende praticamente impossibile fare uno squat senza essere sgomberato subito dopo. Al loro interno ci sono baracche attrezzate a bar, addirittura discoteche, strutture spesso allestite da rifugiati o persone già in possesso di documenti. E poi le case, piccole baracche autocostruite, fatte in legno e con materiale di recupero. Alcuni gruppi sono riusciti ad allestire addirittura una cucina comune. L’alternativa per il cibo è il campo di Selam, dove sono presenti anche le docce e gli attacchi per i cellulari, ma il problema è che per tutti questi servizi l’accesso è regolato tramite ticket: visto che i numeri sono altissimi si passano quindi le giornate in fila, in attesa di un biglietto che dica qual è il turno di ciascuno. La vita delle giungle cambia verso sera, quando si vedono gruppi di persone infagottate partire per recarsi all’imbocco dell’Eurotunnel, a circa tre ore a piedi da lì.

Molti tornano il giorno dopo con stampelle e ossa fratturate. E si moltiplicano i racconti che narrano i tentativi della sera prima: raccontati come una sorta di gioco a nascondino in cui ci si nasconde dalla polizia in attesa del momento buono in cui si scatta a correre, fino a che non ti viene puntato un faro in faccia che ti costringe a tornare indietro. «Try again» è uno degli avvisi gridati dalla polizia francese a chi viene sorpreso.

Viste le ingenti misure di sicurezza, Calais è destinata a cambiare radicalmente nei prossimi mesi. Per questo motivo nell’incontro di giovedì scorso Theresa May ha dichiarato che il prossimo passo è quello di stringere accordi con Belgio e Olanda, per il timore che il flusso di migranti possa spostarsi sui porti di questi paesi. Avamposti inglesi in territorio europeo, dunque, anche se per Cameron la questione è assolutamente chiara: «l’origine dei problemi sono i migranti che passano il Mediterraneo» e per questo motivo è necessario «provare a stabilizzare quei paesi da cui arrivano».

Lampedusa

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Il luogo dove tutte le contraddizioni vengono alla luce. Un’isola bellissima, un posto di pescatori, una potenziale attrazione per turisti, il cui nome è noto però solo per le “emergenze sbarchi” che fanno salire la tensione nella popolazione e a cui si risponde con la militarizzazione del territorio. C’è infatti un legame sinistro che unisce le tragedie avvenute a largo di Lampedusa e l’accelerazione delle politiche di militarizzazione dell’isola: ogni barcone affondato è accompagnato da un’ulteriore rafforzamento di Frontex, tanto che alcuni sospettano che il naufragio del 3 ottobre 2013 sia stato addirittura provocato. Resta certo il fatto che le ricostruzioni immediate dell’evento, proposte su tutti i media, sono prive di un dettaglio abbastanza importante: i resoconti dei sopravvissuti.

A differenza di molti altri luoghi, Lampedusa è spesso al centro dell’attenzione mediatica, ma attraverso spettacolarizzazione dei naufragi diventa propedeutica ad una richiesta maggiore sicurezza da parte delle istituzioni, come se questa possa essere una soluzione. Che tipo di sicurezza è quella che rende un’isola invivibile?

«L’isola delle Pelagie è stata segretamente convertita in uno degli avamposti militari e strategici più moderni e aggressivi», scrive sul suo blog Antonio Mazzeo, autore del libro I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina. In questo post Mazzeo passa in rassegna la strumentazione e le forze militari chiamate a intervenire sul territorio, come la 9^ Brigata Aerea Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance – Electronic Warfare (ISTAR-EW) che, come spiegato sulle pagine del Ministero della Difesa, ha il compito di «fornire il supporto operativo di guerra elettronica attraverso attività tecniche ed addestrative finalizzate a migliorare l’autoprotezione degli aeromobili e ad assicurare una tempestiva risposta alle evoluzioni della minaccia presente in uno scenario operativo».

Guerra elettronica? Minaccia? Una linea mesmerica sembra infatti legare Lampedusa a Niscemi, dal momento che, come nel caso dei No Muos , nell’ultimo periodo è in corso una battaglia contro l’installazione di potenti radar il cui impatto ambientale e sulle persone è tutt’altro che chiaro, anzi, come sottolineato da Piero Messina, «il programma è sottoposto a secretazione».

Il fatto è che dall’abisso delle contraddizioni non si esce senza abbattere lo stereotipo dell’isola-fortezza. Come si legge nelle pagine del collettivo Askavusa:

«quello che vedete nei TG, che leggete in molti libri, in molte mostre e spettacoli teatrali che ormai proliferano su Lampedusa, non sono altro che rappresentazioni basate su stereotipi funzionali alle scelte politiche ed economiche dei paesi “occidentali».

Più la situazione di Lampedusa sarà considerata un’emergenza, più l’isola diventerà una base militare atta ad attaccare. Alcuni stanno lavorando per fare in modo che in molti vadano sull’isola e possano conoscerla al di là dei titoli dei giornali. Una buona occasione sarà tra il 23 e il 26 settembre con la settima edizione del LampedusaInFestival (qui il link per finanziare questo e gli altri progetti presenti sull’isola. Le date sono state scelte con cura, dato che si tratta di uno dei pochi periodi in cui è possibile trovare voli diretti da Roma e da Milano.

Parigi

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Molti dei migranti passati da Ventimiglia sono poi arrivati a Parigi. Si tratta di una tappa per molti obbligata, non solo perché qui ci sono parenti, amici, comunità pronte a dare sostegno, ma anche per continuare il viaggio e arrivare al porto di Calais. È così che il 18 luglio proprio a Parigi è stata convocata una manifestazione in solidarietà con la lotta di Ventimiglia che ha contato un migliaio di partecipanti.

La situazione parigina era tesa da tempo, anche per la presenza di due campi occupati dai migranti in prossimità delle stazioni della metro, uno ad Austerlitz e l’altro a La Chapelle. In questi campi da tempo non solo persone in transito, ma anche persone in attesa di risposte alla richiesta d’asilo. La Chapelle viene sgomberato il 2 giugno con tanto di ruspe intervenute a smantellare il campo, e decine di migranti inviati ai centri di accoglienza. Un attivista italiano ha raccontato le fasi concitate dello sgombero e dei giorni successivi, mettendo in evidenza la poca chiarezza delle autorità nel fornire spiegazioni in merito a possibili soluzioni alternative.

Durante tutta l’estate si susseguono manifestazioni e occupazioni, con una repressione durissima fatta di ulteriori sgomberi (alla fine di luglio se ne conteranno una decina, compresa quello dello storico campo di rue Pajol) ed espulsioni. Queste continue operazioni di polizia hanno avuto anche l’effetto di ricollocare continuamente i migranti sul territorio parigino, nel tentativo di rompere le reti di solidarietà. La situazione è diventata sempre più drammatica, complice il blocco della frontiera a Calais, non è un caso il 29 luglio arriva la notizia della morte di un ragazzo di 16 anni egiziano, folgorato alla Gare du Nord nel tentativo di saltare sull’Eurostar che lo avrebbe condotto in Inghilterra.

Tuttavia l’ostinazione dei rifugiati produce dei risultati, come l’occupazione della scuola Jean-Quarré, nel XIX arrondissement, avvenuta il 30 luglio, all’interno della quale intervengono numerosi attivisti. Abitanti del quartiere, ma non solo: a Parigi più che in altri luoghi, infatti, è meno forte la spaccatura tra chi è arrivato oggi e chi arriva a dare la propria solidarietà. È qui che entra in gioco l’esperienza di chi, in altri momenti storici, è stato costretto ad emigrare in Francia. Una memoria trasmessa di generazione in generazione e che oggi può assumere un ruolo determinante.

Roma

Migrants rest next to the Tiburtina train station in Rome on Sunday. Hundreds of migrants, many from Ethiopia, Somalia and Eritrea, arrived in recent months on boats from Libya. They were brought to Italy after being rescued at sea.

Ultimamente l’Italia è stato un luogo di progrom e di razzismo ormai sventolato con una certa disinvoltura. Ma forse a Roma, più che in altri luoghi, è del tutto evidente che la cosiddetta “emergenza migranti” in realtà non esiste, ma viene effettivamente prodotta, magari con l’intento di imporre una stretta sulla città a suon di retorica sul “decoro”. In altro modo non si spiega la successione di eventi avvenuti di recente nella capitale, in particolare l’improvviso sgombero di Ponte Mammolo, un accampamento in piedi da nove anni, con circa 100 residenti e più di 300 persone in transito. Nessun avviso, ma anche nessuna misura destinata all’accoglienza, cosa che ha portato molti migranti a sostare nella stazione di Roma Tiburtina. Per fronteggiare l’emergenza (appunto) è stato riaperto il centro Baobab, precedentemente chiuso in quanto la gestione era stata colpita da Mafia Capitale. La struttura però è in grado di raccogliere circa 200 persone a fronte delle 700 presenti nei pressi della Tiburtina a inizio giugno, quando la Germania aveva sospeso Shengen in occasione del G7, una sospensione che (vista l’ufficialità dell’evento) era ampiamente prevista nei confronti della quale non sono state prese contromisure. A Baobab e a Tiburtina accorrono i solidali di tutta Roma, ma anche la polizia che prima sgombera la stazione e poi interviene anche nei pressi del centro di accoglienza facendo fuggire i migranti che sostavano sul marciapiede, anche a causa delle condizioni in vui versava la struttura, ormai strapiena. Per non far torto a nessuno, pochi giorni dopo le forze dell’ordine sgomberano anche l’hotel occupato dai movimenti per l’abitare, a due passi dalla stazione Tiburtina.

Tutto questo avviene in una città in cui è scoppiata la bolla di Mafia Capitale, che ha investito quasi interamente il settore dell’accoglienza romana. Tuttavia se ormai è evidente che sulla testa dei migranti vi sia un giro clamoroso di speculazione («d’altra parte il sistema funzionava così», vocifera chi lavora nel settore), poco si è detto sulle condizioni salariali e lavorative degli operatori delle cooperative. L’Assemblea Lavorator* dell’Accoglienza ha dichiarato che è impossibile pensare di cambiare il mondo dell’accoglienza senza ragionare su come migliorare la vita di chi ci lavora. Questo non vale solo per le cooperative coinvolte nell’inchiesta, ma anche per tutte le altre. Alcune di queste a seguito di Mafia Capitale hanno inviato ai lavoratori una mail avvisando di possibili ritardi o mancati pagamenti. Scrivono gli operatori: «la colpa sarebbe delle verifiche amministrative disposte dal Comune. Questo atto è molto grave perché getta fango sull’operazione della magistratura e si rifà all’inchiesta per giustificare le gravi mancanze di cui sono responsabili le cooperative». Come se non bastasse lo stesso ruolo dei lavoratori diventa parecchio ambiguo nel momento in cui vengono loro chieste mansioni non previste dal contratto, come ad esempio il ruolo di sorveglianza e di controllo. L’impressione è che la bolla sull’accoglienza riservi ancora parecchie sorprese. Per fortuna, come nel caso di Roma, qualcuno si sta organizzando.

Bologna

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Succede nel torrido luglio bolognese nell’ex CIE di Via Mattei, diventato da un anno unhub center, ossia uno dei punti dove i migranti vengono mandati per essere identificati tramite la registrazione delle impronte digitali. Tale operazione segna la fine di molti viaggi, dal momento che, secondo gli accordi di Dublino, una volta registrati in un paese non è possibile fare richiesta di asilo altrove. Proprio la funzione del centro fa sì che la presenza di migranti sia molto alta e destinata ad aumentare con gli sbarchi in arrivo in questa stagione. La struttura è attrezzata per ospitare 200 persone, ma a metà luglio si è riempita improvvisamente. È stata immediatamente allertata la Croce Rossa e sono state allestite tende all’interno di una recinzione all’interno della quale non è possibile entrare. Tutto sotto controllo ci si appresta a dire, la situazione rimarrà così solo per 48 ore, ma per risolvere il problema dodici famiglie sono state trasferite nel Lazio. Ad oggi le tende sono ancora lì, in attesa della gente che certamente arriverà nel prossimo mese.

A Ferragosto il sindaco Merola ha espresso la sua opinione in merito: «la città è al limite, non c’è più posto». A preoccupare il sindaco non è solo l’ hub, ma anche le diverse occupazioni di case avvenute nel corso dell’anno, caratterizzate da una forte presenza migrante. Una su tutte è quella di Social Log al cui interno vivono più di 200 persone, tra cui anche bambini nati da pochi mesi.

Nel frattempo è avvenuto qualcosa che è passato inosservato: il 20 luglio, a Sasso Marconi, poco lontano da Bologna, un corteo di 85 migranti alloggiati nel centro di Villa Angeli ha marciato verso il comune per chiedere migliori condizioni di vita. Sulla questione si sono lanciati subito rappresentati della Lega e dalle pagine dei simpatizzanti si segnala un immediato allontanamento di 4 persone dalle strutture di alloggio a seguito del corteo. Si tratta certo di un episodio minore rispetto a fatti più clamorosi avvenuti nel corso dell’estate, in fondo è avvenuto in un piccolo comune del bolognese, senza destare eccessivo scalpore. Tuttavia è un segnale di come funzionano le cose, in una regione che si fa vanto della sua accoglienza, senza che però su questo tema avvenga mai una verifica. L’accoglienza è un sorta di santuario, che non può essere toccato, di cui non si deve parlare e le cui modalità non possono essere messe in discussione. Eppure proprio in Emilia sembra trattarsi di un nervo scoperto, se è vero che, come i 4 ragazzi allontanati hanno imparato sulla loro pelle, quando le forme della “accoglienza” vengono messe in discussione, anche in forma pacifica, si fa largo la strada della punizione.

3. Guerra. E le sue retoriche

È inutile parlare di numeri. O, per meglio dire, sarebbe utile se si volesse parlare veramente di immigrazione, ma non è quello che sta avvenendo. Lo “sciame di migranti” che secondo Cameron sta aggredendo l’Inghilterra è poca cosa, se paragonato a quanto avviene in altri paesi e, allo stesso tempo, i flussi migratori che investono l’Europa sono comunque minori rispetto a quanto avviene in altre parti del mondo. Ma i numeri sono spesso utilizzati per sostenere allarmi di “emergenza”, “crisi” che sono usati più come scuse che come modi per definire la realtà. Al di là dei dati è quindi utile prestare attenzione alle retoriche.

Una prima constatazione è che molte parole ci sono state letteralmente rubate. Al giorno d’oggi “muri” non risvegliano la nostra attenzione, come se muri e cortine non abbiano avuto un ruolo drammatico nella storia europea. Al contempo i “campi” descritti dai media sembrano soggiorni di piacere e pur essendo chiaro che è “umanitaria” la missione di salvare una persone dal mare, dovrebbe essere umanitario anche favorire il suo viaggio e non tentare di impedirlo in tutti i modi. Per quel che riguarda la “accoglienza” è evidente che si tratta di un ottimo principio se non lo si applica ad un sistema che da una parte relega le persone in un limbo di attesa e dall’altra produce immensi guadagni che non rispecchiano per nulla le condizioni di vita di chi abita i centri.

“Riformare le norme del diritto d’asilo” è una cosa che sta avvenendo già nei singoli paesi e sembra essere i prossimo diktat di Merkel&Co., ma è facile che dietro a questa formula si nasconda un autentico «giro di vite sui permessi di soggiorno» (formula utilizzata in un post del blog di Beppe Grillo). Fare la differenza, come avviene per le procedure di richiesta d’asilo, tra i migranti che arrivano da zone di conflitto e quelli che invece vengono per “ragioni economiche” significa istituire un elemento discriminante fasullo, dal momento che i flussi migratori arrivano da paesi in cui la situazione è spesso altamente problematica, anche a causa delle nazioni occidentali che sostengono governi e dittature a loro favorevoli. Infine dire “sì” ai richiedenti d’asilo e “no” all’immigrazione illegale (il governo inglese è maestro di questa retorica) è un controsenso evidente, dal momento che la maggior parte dei richiedenti asilo arrivano “clandestinamente” in Europa. Secondo questa logica bisognerebbe controllare fin dal principio dei viaggi, chi ha diritto all’asilo e chi no. Già, ma come? Forse spostando i confini un po’ più in là rispetto a dove sono ora e non solo facendo leva su governi amici.

C’è un filone retorico su cui conviene soffermarsi: ogni volta che un barcone affonda nel Mediterraneo si parla di trovare gli scafisti, di un commercio di esseri umani che deve essere bloccato. È una morale a doppio binario dato che nelle frontiere interne il fatto che esistano i passeurs è piuttosto tollerato dal momento che, in fondo, un passeur ti leva il migrante dai maroni. Sia chiaro, il commercio di esseri umani frutta denaro e per di più sono grandi affari a cui si aggiungono le violenze: un passeur non ti rilascia certo lo scontrino e può permettersi di metterti su un barcone che quasi non sta a galla (succede spesso a chi parte dalla Libia) o di buttarti giù dall’auto e pestarti dopo averti rubato i soldi (è successo a Ventimiglia). Quindi sì, come raccontaEmanuele Giacopetti nel suo bellissimo reportage, molto spesso i passeurs sono dei traghettatori infernali, ma sono anche gli unici che rispondono all’esigenza di portare le persone in un posto migliore. Rispetto a questa esigenza Unione Europea e stati membri rispondono invece sollevando barriere, materiali, legali, diplomatiche, militari. A queste si aggiunge la condanna ad anni di galera che viene data a chi per solidarietà accompagna i migranti oltre la frontiera (in Germania esiste addirittura una campagna che invita a questo tipo di disobbedienza) e che viene considerato automaticamente un passeur. Bisogna quindi stare attenti a non ribaltare causa ed effetto: sono i confini e il loro inasprimento a generare il racket, non è il racket a provocare il rafforzamento dei confini.

Il fatto è che sempre di più il discorso contro gli scafisti e il “commercio di esseri umani” viene distorto fino a diventare una scusa: si deve fare la guerra contro gli scafisti, quindi bisogna intervenire con forza nei territori del sud del Mediterraneo o nell’Africa sub-sahariana. Come scrive Martina Tazzioli: «ci si prepara a fare la guerra per salvare i migranti dalla rete dei trafficanti». La parola “guerra” torna ad affacciarsi all’orizzonte (quando mai si è allontanata, in effetti). Non a caso vengono simulate delle prove di conflitto: dal 28 settembre al 6 novembre è prevista la Trindent Juncture 2015, una mega-esercitazione militare (si parla di 25mila unità coinvolte) che si terrà principalmente in Italia, Spagna e Portogallo. La firma è della NATO che definisce questa operazione «la più grande esercitazione Nato dalla caduta del Muro di Berlino».
Nella lettera che Theresa May e Bernard Cazeneuve hanno pubblicato lo scorso 1 agosto (e che reca il titolo da schiaffi: “I migranti pensano che le nostre strade sono lastricate d’oro”) si legge:

stiamo spingendo altri stati membri – e l’intera UE – ad andare alle radici del problema (…). Stiamo anche lavorando per fare in modo che le persone nel corno d’Africa capiscano la dura realtà di un viaggio pericoloso al termine del quale saranno comunque rimandate a casa. Doppiamo essere inflessibili prima di tutto nel perseguire gli spietati criminali che stanno incoraggiando persone vulnerabili a intraprendere questo viaggio.

Come anche l’intervento di Juncker pubblicato questo lunedì su Repubblica, la lettera rimanda a un summit a Valletta, che si terrà l’11 e il 12 Novembre. Il summit prevede la presenza delle nazioni Europee e nazioni africane a discutere su 4 temi principali: lotta ai trafficanti, presenza nel Mediterraneo, prevenzione dei flussi migratori illegali (specialmente dalla Libia), rafforzamento delle forme di solidarietà all’interno degli stati. Conviene segnarsi la data anche perché c’è la concreta possibilità che il prossimo autunno si debba tornare a ripetere ancora che le guerre non hanno nulla di umanitario. E questo vale per le guerre che già si combattono nei paesi fuori dall’Europa, in frontiera e tutti i giorni nei nostri territori. E per le guerre che si stanno preparando.

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*Alcune fotografie sono in bassa risoluzione a causa di difficoltà tecniche, alcuni dei fotografi sono tutt’ora sul campo e non hanno avuto facile accesso a reti internet.

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