“Sono compagni” – Il senso profondo delle Brigate per l’emergenza

Noi ci riprendiamo ciò che ci hanno tolto, ma gli diamo indietro ciò che ci hanno dato.

Erano sei anni che non facevo più attivismo. Sono cresciuto in una città di provincia del Piemonte. Come tanti della mia generazione, ho partecipato al movimento studentesco dell’Onda, ho lottato contro la costruzione della base militare Dal Molin a Vicenza, ho percorso i sentieri della Val di Susa e respirato i gas CS insieme al generoso popolo NoTav, ho dato il mio piccolo contributo al movimento di lotta per la casa della mia città, ho avuto il privilegio di conoscere e lottare insieme al movimento contro il Terzo Valico. Dopo circa dieci anni decido di prendermi del tempo per me e fare altre esperienze. Volevo laurearmi e fare un’esperienza Erasmus. Tornato in Italia mi laureo e trovo lavoro a Milano. Volevo vivere in un’altra città, uscire dalla provincia.

Confesso, con un po’ di imbarazzo, che dopo anni di preoccupazioni, volevo dare ai miei genitori la soddisfazione di “vedermi sistemato”. Trovo un bel lavoro, almeno per la concezione piccolo borghese che la società del paesino in cui sono nato contempla. Per due anni, vesto giacca e cravatta quotidianamente. Faccio un lavoro alienante: business plan che non tornano mai a causa della svendita dei progetti da parte dei manager, slides da fare all’ultimo minuto, server che non rispondono nel momento clou, e-mail inviate da colleghi e clienti alle 21 del sabato sera a cui dover rispondere. All’inizio di quest’anno decido che la misura è colma: il lavoro ti prende, quando va bene, otto ore al giorno. Fare qualcosa di cui non ti frega un cazzo tutti i giorni è devastante e ti ruba la vita. Scopro che alcune ONG ti permettono di lavorare per loro: lo stipendio non è poi tanto male e hai la possibilità di viaggiare. Decido di sbattermi ed invio curriculum.

Ma il futuro non è prevedibile. Arriva il Covid-19. Lavorando per una multinazionale dell’IT continuo a lavorare. Globalizzazione e capitalismo impongono la mobilità territoriale a fini lavorativi: tanti colleghi provengono da ogni parte d’Italia, lo smart working per noi è una realtà consolidata. Perlomeno, durante le vacanze estive o natalizie. Capita pure che, in quarantena, quando milioni di persone sono costrette a stare in casa e a tantissimi amici vengono cancellate date ed appuntamenti, faccio otto ore di straordinario. Subito penso: ancora, per una mera questione di culo, sono un privilegiato. Inizio a pensare a quanto siano importanti i rapporti reali, con la famiglia, gli amici, le persone a cui voglio bene e che stimo, la mia compagna. Per qualche giorno vado un po’ in para, penso a quanto questa situazione possa lobotomizzarmi, rinchiudermi nel mio individualismo. Quanto durerà? Allo stesso tempo penso anche a quanto sono fortunato: è vero, non vedrò per un tempo indefinito le persone per me più importanti, ma sto bene, a casa stanno tutti bene, percepisco uno stipendio, mangiare e pagare l’affitto non sono un problema. Posso permettermi anche di aiutare qualche amico. Penso a quanti stanno male, a quanti hanno perso persone care. Morte in solitudine. Alle case di riposo, dove sono morti tantissimi dei nostri nonni. Che sono stati lasciati soli dalle istituzioni. Penso agli amici OSS, medici, infermieri, costretti a turni devastanti per sopperire ad un sistema che per decenni ha smantellato la Sanità pubblica per far arricchire i privati. Vedo le fosse comuni scavate nel Bronx, i cadaveri bruciati in strada in Ecuador. Penso a tutte le persone senza documenti nel mio paese. Mi preparo alla quarantena ed ordino i libri che non ho avuto tempo di leggere. Ma sento un vuoto devastante. Non l’ho mai fatto, non sono mai stato un ignavo. Credo profondamente che ognuno sia artefice del proprio destino. O quanto meno, della propria moralità. Da buon piemontese, sono sempre stato partigiano. Mi devo attivare. Non ho competenze mediche o infermieristiche, ma potrò pur fare qualcosa. Ho sempre creduto nella solidarietà e nell’autorganizzazione dal basso. Vengo a sapere che le fasce più deboli della popolazione stanno per essere lasciate indietro: chi una casa non ce l’ha oggi è ancora più emarginato. Molti volontari che quotidianamente distribuivano cibo alle persone in necessità, per motivi anagrafici, sono bloccati in casa.

Scrivo ad un’organizzazione cattolica che aiuta le persone più bisognose; in questo momento non c’è spazio per fare gli schizzinosi. Mi rispondono che al momento per motivi burocratici non possono registrare nuovi volontari. Non mi arrendo, scrivo ad Emergency. Anche qui al momento non è possibile diventare volontari. Dai network che pretende il Reddito di Quarantena scopro che i centri sociali di Milano si stanno muovendo. Fanno spese e vanno in farmacia per le persone che non possono uscire di casa. Scrivo a Milano in Movimento che mi risponde subito. Mi chiedono la zona di residenza e mi indirizzano al centro sociale Lambretta. I ragazzi hanno dato vita alla Brigata Lena-Modotti; magari a loro serve una mano. Scrivo immediatamente sulla loro pagina ed altrettanto celermente mi rispondono. Gli mando una serie di dati, che servono per richiedere il badge.

Dopo un paio di settimane il badge arriva e mi viene richiesto di recuperare del pane da un negozio che ha deciso di donare la merce in avanzo. Vado a ritirare il badge e trovo questo centro sociale vicino alla Stazione Centrale: una villetta con autofficina a fianco, nel cuore della cementificazione: pulito, in ordine, occupato, solidale! Mi chiedono di andare davanti ai supermercati per la colletta alimentare: abbiamo bisogno di incrementare gli approvvigionamenti di beni, perché in un solo giorno il centralino indipendente del Lambretta riceve migliaia di chiamate. Do la mia disponibilità nei weekend e nei giorni di ferie pasquale. Nei miei anni di attivismo politico, il volantinaggio in generale è sempre stata la cosa più pallosa di tutte. Ma ripenso a quanti stanno male e decido di impegnarmi a fondo. In questo momento, arretrare di un millimetro potrebbe significare lasciare anche una sola famiglia senza pacco alimentare. I ragazzi sono stanchi, si vede. Oggi è un mese che si svegliano all’alba e vanno a dormire tardi. Ma lo hanno promesso: non lasceranno indietro nessuno! I ritmi sono serrati: in media trecento consegne di pacchi alimentari al giorno, spese per gli anziani e i contagiati, recupero e smistamento del cibo per le persone che vivono in strada. Eppure, ogni volta che varco il cancello di via Edolo 10 e chiamo qualcuno per farmi sterilizzare, c’è un’energia esplosiva. Ogni volta che entro alla sede della mia Brigata, rinasco. E’ una confusione organizzata ed efficiente di volontari giovanissimi, con occhi spesso stanchi ma sempre sorridenti. Imballano spese, dividono beni con precisione maniacale, partono per le consegne o il recupero delle collette. Sono pronti ad ascoltare le storie dei più deboli che lì cercano aiuto, abbandonati da un sistema che crede solo nella competizione e nel profitto individuale.

Inizialmente, per la mia formazione politica, molte cose non le comprendo. Il loro fine va ben oltre il legittimo investimento politico, che sembra assente. Si sono autorganizzati per aiutare la comunità per un motivo molto semplice: perché è necessario, ma soprattutto, perché è giusto. Da esterno, non capisco come sia possibile, ma tutto funziona come se fossero un’organizzazione decennale che da sempre si è occupata di questo. Inizio a conoscerli, imparo tanto e scopro che alla fine ciò che li muove è un concetto molto semplice: la solidarietà verso ogni individuo. Torno lucido e mi ricordo perché ho deciso di stare in basso a sinistra. Mi ricordo quanto sia stato affascinato dall’internazionalismo, dai volontari partiti per la Spagna durante la guerra civile, dai Barbudos della Rivoluzione cubana, dalle sorelle e dai fratelli partiti per difendere la Rivoluzione confederale del Kurdistan siriano. Ma ancora qualcosa è sfocato. Nel mentre gira sui social il video di medici ed infermieri cubani che partono per dare una mano a Crema. Vedo il video, mi commuovo e lo mando alla mia fidanzata con questo commento: “Questo video è troppo romantico!”. Lei mi risponde in modo semplice: “Sono compagni”. Rimango senza parole. “Sono compagni”.

Mi vengono in mente tutte le lotte a cui ho partecipato o seguito e penso a quanto sia vero. Dalle lotte No Tav, alle lotte No Mous, al Comitato 3e32, per citarne alcuni. Quando c’è da mettere “la ciccia”, quando gli altri tirano il culo indietro, quando la volontà di fare la cosa giusta supera la paura e gli schemi serrati di questa società malata, i compagni ci sono sempre. Con errori e scivoloni, ma sono sempre presenti, sempre pronti a mettersi a disposizione delle comunità e gettare il cuore oltre l’ostacolo con una generosità immensa. Ci sono a stare nelle strade, ci sono a prendere le botte, ci sono oggi, come sempre, a sostenere la comunità. Gino Strada li definisce “i tanti che stanno dando una mano”. In questi “tanti” ci sono anche tutte le persone che ci portano borsate di spese e si scusano perché da soli non sono riusciti ad aiutarci di più. Ci sono tutte le persone che ci danno anche solo una scatola di assorbenti, una scatola di fagioli, un uovo di Pasqua per far felice un bimbo e magari sono in imbarazzo perché vorrebbero dare di più ma sono colpiti anche loro da questa emergenza.

Varcare il cancello di via Edolo 10 ti catapulta nella società che potrebbe essere. Ti dà la percezione dell’abbattimento delle barriere. Ti dà la percezione di un altro mondo possibile, trasuda solidarietà e umanità. Varcare le porte del Lambretta non si limita ad entrare in uno spazio fisico, significa incrociare le centinaia di volontari che hanno deciso di non subire questa crisi ma di cogliere l’opportunità per costruire un mondo migliore.

Oggi è il momento dell’emergenza. Ma questo momento, se lo lasciamo alle istituzioni, alla politica con la P maiuscola, rimarrà tale. Questa crisi non solo è drammatica oggi ma avrà effetti devastanti nel prossimo futuro. A tutti i volontari che oggi stanno facendo un lavoro straordinario chiedo di non mollare. Nei prossimi mesi gli sfratti, i pignoramenti, le ristrutturazioni aziendali colpiranno milioni di persone. Abbiamo il dovere morale di continuare a lottare per un’inversione di sistema. Abbiamo il dovere di pretendere una Sanità pubblica organizzata ed efficiente che metta al centro la persona e non l’interesse privato, abbiamo il dovere di pretendere un reddito minimo universale che non escluda nessuno, abbiamo il dovere di pretendere il rispetto del nostro pianeta perché non ne esiste un altro. Nessuno ci regalerà nulla: dobbiamo fare rete, lottare e conquistarlo. Lo dobbiamo alle migliaia di vittime, alle loro famiglie, al personale sanitario che sta vivendo mesi d’inferno perché la politica scellerata del consenso pro-elettorale pensa solo alle elezioni e non alla comunità.

Ringrazio tutti i volontari che si sono attivati, la mia Brigata Lena-Modotti, le ragazze ed i ragazzi del centro sociale Lambretta per l’abnegazione, l’efficienza ma soprattutto l’umanità dimostrata in ogni singolo gesto. Siete la parte più bella di questa società.

Mattia, un militante della Brigata Lena-Modotti

* foto di Giacomo Fausti

 

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2 risposte a ““Sono compagni” – Il senso profondo delle Brigate per l’emergenza”

  1. Rossella ha detto:

    MATTIA LO SEMPRE SAPUTO CHE SARESTI STATO UN UOMO DI SANI PRINCIPI MORALI E AFFIDABILE CON GRANDE STIMA ROSSELLA

  2. Fabio Leone ha detto:

    Sono pronto se esistesse a dare una mano ad una brigata catanese. Grazie per quello che fate. Fabio

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