A piazza Carlo Giuliani, ragazzo
Imbocco l’autostrada a Torino, in direzione Genova. Oggi c’è il concerto che apre le manifestazioni contro il vertice dei G8. Un minuto dopo, come se fosse appollaiato alle mie spalle, mi chiama Buone, Francesco, il nostro direttore di produzione, che è come al solito già lì in avantour con i tecnici.
«Rosà dove siete?»
«Io sono partito dieci minuti fa, il pulmino col gruppo da un po’.»
«La solita star, sempre per ultimo», dice ridacchiando dall’altra parte della cornetta. «Cerca di raggiungerli e arrivate insieme perché qui non hai idea di quello che c’è.»
«Che c’è, sentiamo, il lupo mannaro, l’uomo nero, l’orca assassina? Hai paura, piccolo Buone?» Mantenendo la conversazione sullo scherzoso andante.
«Strunz», replica piccato, «solo qualche migliaio di polis che hanno perquisito per due ore noi e il furgone. Poi ci hanno chiesto: “Quando arrivano i 99 Posse? Non vediamo l’ora di conoscerli”. Stanno tutti aggressivi fra’, non si possono guardare.» «Ma no obbe’, il bello, hai frainteso. Quelli hanno chiesto perché sono fans, ci vogliono bene. Magari vogliono l’autografo e tu sei il solito malpensante. Comunque mo’ chiamo gli altri e cerco di raggiungerli, mi hai convinto. Tu intanto tienimi informato sugli sviluppi. Ah», gli dico mentre sorpasso un camion guidando con una sola mano, «com’è la situazione tecnica?»
«Tutto a posto. Manu Chao è già qua e stiamo pariando, l’impianto è montato, il nostro backline è sul palco. Abbiamo solo il solito problema…»
«Sarebbe, Buone?» faccio, alzando gli occhi al cielo perché conosco già la risposta.
«Il problema è che non ci sono problemi.»
E ride sguaiato, volendo intendere che con lui al timone fila sempre tutto liscio come l’olio. Ed è vero, perché Francesco nonostante la giovane età è un drago nel suo mestiere. «Il miglior direttore di produzione della categoria junior. Poi si deve vedere quando cresci», gli dico spesso riconoscendone il valore, ma prendendolo in giro sulla sua capacità di tenuta nel tempo.
Poi ci salutiamo fanculizzandoci a vicenda e interrompo la conversazione. Chiamo Gigi, il driver.
«Oh Gigi, dove siete?»
«Ciao Rosario», fa lui con la marcata cantilena ligure, «ci stiamo fermando a mangiare.»
Gli chiedo il nome dell’autogrill, me lo dice. Faccio due calcoli al volo sul tempo che ci metterò ad arrivare, quindi: «Ok aspettatemi che ho delle novità, fra una mezz’oretta sono lì».
Scalo in terza, faccio salire i giri del motore, poi quarta, quinta e vado veloce. Lungo la strada sorpasso un sacco di macchine di manifestanti. Non chiedetemi come li riconosco: se aveste passato la vostra vita fra centri sociali e comunisti, lo sapreste anche voi. Una ventina di minuti dopo arrivo e li trovo già a tavola.

«Ciao Rosy», mi fanno in coro.
«Cia’ guagliù», replico in un napoletano schietto che ci sta sempre bene, «fate in fretta a mangiare che a Genova ci sono controlli molto rigidi. Me l’ha detto poco fa Buone al telefono. Loro hanno avuto una perquisizione di due ore e pare che i nostri amici in divisa stiano aspettando proprio voi.»
«Bella lì!» fa Marco toccandosi la punta di uno qualunque dei lunghissimi dreads. Un gesto ormai mitologico, diventato per noi motivo di sincero e compiaciuto sberleffo.
«Ma Luca? Dov’è finito?» chiedo, notando l’assenza di Zulù.
«Già a Genova, è partito stanotte dopo il concerto con la macchina di Pippo. Dice che così si scansava la rottura di posti di blocco e perquise.»
«Perquise? Cazzo stiam diventando proprio milanesi qui, eh?» Cazzeggio, imitando maldestramente la parlata di quel Sant’Ambroeus lì.
Luca è napoletano, presumo ve ne siate accorti nel corso degli anni, ma da qualche mese vive a Milano. Pippo invece è la sua ombra. Originario di Monza, ha quell’accento brianzolo da commedia all’italiana che ogni volta che apre bocca ci fa sempre scompisciare, qualunque cosa dica. Questo fa sì che nel nostro purissimo idioma partenopeo si sia introdotto un bel tot di termini come siga, perquisa, raga e via di questo passo andante. Nel team, il driver è ligure, i sei tecnici sono veneti, il gruppo, io e Buone siamo napoletani: un bel frullato di idiomi locali in agrodolce, arricchito di reciproci prestiti linguistici. Perciò, senti i veneti che parlano napoletano, noi che rispondiamo in veneto, milanese o ligure, Gigi che alterna random, un po’ a come cazzo gli viene. Siamo un manifesto vivente della società multietnica. Ed è un bel sentire.

«Qualcuno sa se Luca e Pippo hanno avuto problemi?»
Alzata di spalle collettiva. Poi: «No, nessuna notizia», risponde Meg, «li ho chiamati prima e avevano ancora il cellulare spento. Ma tu devi mangiare?»
«No, ho fatto colazione in albergo a Torino, non ho proprio fame. Per me possiamo partire appena finite.»
Evito accuratamente di dirlo, perché nel gruppo solo Massimo è come me malato di pallone, ma l’albergo dove abbiamo dormito due notti dalle parti dell’aeroporto di Caselle è quello dove andava il Napoli di Maradona. E io, of course, ho preteso la stanza di Diego, passando queste lunghe notti a sfiorare con sacro timore reverenziale oggetti e pareti.«Ok», fa lei di rimando, interrompendo l’estasi mistica che aveva di nuovo preso il sopravvento. Prendo il cellulare e provo chiamare Luca.
«Telecom Italia Mobile…» Subito dopo chiamo Pippo. Squilla tre volte poi una voce mi risponde.
«Pronto», senza rinunciare, naturalmente, a una «o» aperta come la bocca della balena che inghiottì prima Geppetto e poi Pinocchio.
«Pippo sono io, tutto a posto? Problemi?»
«Uè Rosario. Sìssì tutto a posto. Non ci ha cagato nessuno, te dov’è che sei?»
Il suo accento mi fa troppo ridere e anche stavolta non mi trattengo da una maldestra imitazione.
«Eh, sono qui con gli altri. Il tempo che mangiano e partiamo. Voi invece?»
«Siamo al Carlini. Luca dorme ancora. Siamo arrivati stanotte e ci siamo ammazzati di canne fino all’alba, bela sturia.»
«Ah, questa sarebbe la famosa voglia di lavorare padana?» gli chiedo sarcastico.
«Be’, dài, un cannino…»
«Vabbuò. Quando Zulù si ripiglia senti Buone per il soundcheck. Se avete problemi, chiamami subito. E non fare tardi come al solito!»
«Sor parun dale bele braghe bianche…» La sua risposta. E ridiamo come due coglioni.
Poi, rivolto agli altri che hanno finito: «Si va?» Un coro di ok e ci rimettiamo in marcia. Arriviamo al casello di Genova e c’è uno schieramento di celere da paura. Ma passiamo lisci, nessuno ci ferma, nonostante io per errore quasi imbocchi la corsia opposta di marcia. Le berline coupé di fabbricazione tedesca hanno la tendenza a non essere associate ai no global, presumo mentre un polis mi indica gentilmente la direzione giusta. Lo so, mo’ mi starete criticando, vi vedo lividi che fate i Savonarola del cazzo, criticando la poca coerenza dei miei gusti automobilistici, pure se siete cresciuti al Vomero o a Posillipo, c’avete la casa a Capri e a Positano, ma vi vestite come degli straccioni per dimostrare che siete tanto alternativi. Ma punto primo: me ne strafotto. Punto secondo: fateveli voi, icsmila chilometri in un’utilitaria ogni anno, poi mi dite. E poi, dopo la seicento di mio nonno operaio e la centoventisette di mio padre operaio, saranno pure cazzi miei, se voglio girare con la Bima, no? Dopo la cazziata che qualcuno di voi ha ampiamente meritato, torno alle incombenze materiali. Tiro fuori la cartina, mi oriento e, dopo aver indicato con piglio condottiero la giusta direzione, ci rimettiamo in marcia, arrivando a piazzale Colombo, dove stasera si terrà il concerto.
«Hai visto quanta gente?» mi chiede dal palco uno stupefatto Buone, a bocca aperta, alcune ore dopo. E ha ragione, non so quantificarli ma sono tanti. Davanti a noi, nel piazzale, ci sono decine di migliaia di persone. Vengono da ogni parte d’Europa. Sembra che almeno cinque generazioni del popolo di sinistra si siano date appuntamento qui stasera. Faccio una carrellata rapida con lo sguardo e li vedo tutti. I vecchi, che sono bellissimi nei loro vestiti fuori moda e l’acciacco degli anni, ma sempre con la stessa inconfondibile fierezza. Saranno nati negli anni Venti o giù di lì. Qualcuno me lo immagino sulle montagne, che poi li hanno chiamati partigiani, ma allora erano solo ragazzi come tanti, anche se qualche volta uccidevano e qualche volta morivano.
Altri, li vedo con le tute blu e i baffoni nei consigli di fabbrica, nei reparti-confino. Alla Fiat, alla Pirelli, all’Ansaldo: formiche operaie in lotta ogni giorno per un aumento di stipendio, contro i ritmi massacranti, contro la nocività del lavoro. Il Partito gli aveva detto che stava arrivando il socialismo per via parlamentare. E loro c’avevano creduto, alla fine avevano perso, però sono ancora qua. Perché noi siamo così: un popolo di irriducibili, come questi nonnetti che non hanno mollato un passo. Ci sono i sessantottini che non sono diventati direttori dei tg di Berlusconi. Quelli dell’autunno caldo. Quelli del ’77 che nelle giornate di marzo, a Roma e a Bologna, avevano assaltato il cielo. Certi che l’avrebbero preso. La generazione che ha vissuto gli anni di piombo e migliaia di arresti, le torture, i carceri speciali. Poi ci siamo noi, i figli degli anni Ottanta e Novanta, quando ci avevano detto: «andate a casa, è tutto finito». E invece noi avevamo pensato che la storia già finita era appena cominciata. La generazione cresciuta nel sogno dell’Italia diventata ricca, dove tutti si compravano la tv a colori e la seconda macchina. Che pure se eri povero, dovevi far finta di essere pieno di soldi. Che se eri giovane dovevi metterti il Moncler e le Timberland, a costo di rubarli al primo malcapitato, come si leggeva ogni tanto sulla cronaca di Milano. E se andavi al cinema, erano i fratelli Vanzina la tua bibbia.
Ma noi lo sapevamo, che era tutta una truffa e abbiamo resistito. In mille modi. Una resistenza carsica che poi era esplosa con la Pantera. Furono mesi di occupazione ruggenti. Una scarica di adrenalina che attraversò l’Italia da Sud a Nord e chiuse definitivamente, una volta per tutte, gli anni Ottanta. Di quei giorni, mi ricordo tipi e tipe insospettabili, con i bei vestitini regolari, che arrivavano da controccupanti e si trasformavano in un attimo negli più strenui difensori dell’occupazione. Se ne accorgevano, che c’era tutto un altro mondo possibile, ma non domani, non l’orizzonte messianico del socialismo, lì e ora, in quelle relazioni nuove e diverse che sapevamo costruire tra noi. Questa era l’unica cosa che aveva senso, perché la nostra generazione aveva in fondo un solo obiettivo: resistere. E quella resistenza l’abbiamo portata avanti fino in fondo e almeno in questo abbiamo vinto. Infatti, butto un occhio fra il pubblico e ci sono un casino di persone fra i trenta e quarant’anni. E sono fiero di noi. Poi guardo la marea di giovanissimi con i dreadlocks giamaicani, i capelli lunghi, le teste rasate, gli orecchini, i piercing, i capelli normali, le giacche militari, le magliette da bravo ragazzo, i tatuaggi, gli occhiali da primo della classe. Insomma, ce n’è di tutti i tipi e mi scaldano il cuore, perché i giovani hanno sempre ragione. Perciò guardo questa massa di ragazzine e ragazzini urlanti e idealmente gli consegno il futuro.
«Oh, ti sei addormentato?» mi chiede Buone.
«No, no stavo pensando. Hai ragione c’è veramente un bordello di gente.»
«Quanti saranno?»
«Boh, tanti, almeno trenta o quarantamila», gli rispondo. «Ma secondo te», riattacca lui, «quanti sono venuti per il
concerto e quanti perché veramente convinti?»
«Mah, forse è la stessa cosa…»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che se ti piacciono canzoni come “Clandestino” o “Rigurgito Antifascista”, se ti piace stare in questa marea di persone, se passi una canna, un panino o una birra alla persona che hai a fianco senza nemmeno conoscerla, se non crei nemmeno mezzo scazzo, pure se ti devi fare la fila per venti minuti per pisciare o comprarti da mangiare, come stanno facendo tutti quanti qua sotto, non hai bisogno di leggere libri: sei un compagno.»
«Cos’è il manifesto del partito comunista del terzo millennio?» E ride, portando le braccia al petto e spostando la testa platealmente all’indietro, per sottolineare il compiacimento.
«Invece di dire cazzate, a che stiamo?» Lo riprendo.
«Tutto a posto. Ma abbiamo sempre lo stesso problema…»
«Che non ci sono problemi?»
«Esatto.» E ride di nuovo.
Poi i 99 e Manu Chao mettono a ferro e fuoco la serata:
una delle più belle della mia vita.
«Comunisti dimmerda», «Zecche dimmerda», «Bastardi comunisti dimmerda!» Gli insulti arrivano feroci, insieme ai manganelli. Violenti e scomposti, si infrangono sugli scudi producendo un fragore infernale. Le maxiprotezioni in plexiglass montate sulle ruote tengono. Noi le reggiamo compatti, spingendo con forza i supporti di ferro nella direzione dei demoni in divisa, al riparo delle armature di gommapiuma. Non io, però. Me ne sono liberato in fretta molto prima di via Tolemaide, sotto le sferzate del sole che infierisce impietoso sulle nostre teste. Sono vestito di nero, non aiuta. I Dr Martens con la calotta d’acciaio, una polo coi righini bianchi e una felpa dello stesso colore annodata in vita. Ho il casco infilato nel braccio: il casco ti salva la vita. Lungo la strada, poi, un amico mi ha regalato una maschera antigas con la proboscide che mi ricorda un fantaccino della prima guerra mondiale. Evocando trincee, merda e sangue rappreso. Quando arrivano i lacrimogeni, però, non c’è più storia. Mai vista una cosa del genere. Il respiro si accorcia all’istante, come se qualcuno mi avesse colpito con forza in pieno petto. La pelle brucia quasi fossi immerso in una vasca di sostanza irritante. Perciò, metto su maschera e felpa, mentre nelle primissime file del corteo spendiamo gli ultimi scampoli di resistenza. Poi è una fuga scomposta, un ognuno per sé nel quale corriamo all’indietro, impattando il resto della manifestazione che scende dall’alto.
La carica è violentissima, parte senza preavviso ben prima della zona rossa, dove eravamo diretti per violarla. Ma che qualcosa non andasse per il verso giusto, mi è apparso evidente già da qualche minuto. Un vecchio compagno che conosco da anni, pochi minuti fa, continuava a ripetere a quelli intorno a sé: «Tiratemi indietro se mi prendono. Non mi perdete di vista». E se lo dice lui, che è un militante di primo piano del Nord-Est, devo stare con gli occhi ben aperti, perché qua intorno è il caos. Vedo Militant A di Assalti Frontali, Luchino, un fratello, che spinge un carrello da supermercato con l’attrezzatura antilacrimogeni. Ma è roba che andrebbe bene per quelli normali, non per queste armi da guerra che si chiamano CS e ci stanno sparando addosso a piene mani! Luca e gli altri 99 sono alla mia destra, appena qualche passo dietro di me. Zulù indossa i pantaloni di una mimetica. Meg è ingigantita dalle protezioni. Marco e Sacha spiccano dall’alto della loro statura. E Massimo sembra un folletto, mentre si sposta freneticamente alla testa del corteo. Poi non vedo più nessuno. E corro per salvarmi la vita. Anzi, uno lo vedo e mi resta impresso. Una figura minuta. Come me non indossa protezioni, ma una canottiera bianca e il passamontagna nero. Un rotolo di scotch tirato su oltre il gomito, gli cinge il braccio destro. Sta lì immobile qualche fila dietro di me, le gambe larghe e guarda verso la marea di divise che avanza a passo di carica davanti a noi.
Le protezioni sono un fatto recente. Un fatto No Global: la nuova generazione di militanti venuta fuori a cavallo del 2000, anche se fra loro ci sono parecchi arnesi dei vecchi tempi. Sono così bravi a far parlare di loro che, un giorno sì e l’altro pure, me li ritrovo sulle prime pagine dei giornali. Con una frequenza così regolare, che hanno fatto venire voglia anche a me di ributtarmi nella mischia. Rispetto alla mia generazione sono più universali. Noi eravamo, paradossalmente all’inizio dei Novanta, l’ultimo colpo di coda degli anni Settanta. Loro invece dicono cose che tutti possono capire. Dividono il mondo in Noi e loro, una cosa che non mi convince fino in fondo perché fa saltare le vecchie divisioni di classe con le quali sono cresciuto, ma gli riconosco una grossa capacità tattica e comunicativa. E poi, lo sapete. Penso che i giovani hanno sempre ragione. Perciò mi sono accodato come una brava pecorella, perché da qualche anno mi sono perso un po’ per strada e sono qui come un vero cane sciolto, anche se conosco un sacco di compagne e compagni presenti, dopo un decennio di nomadismo al seguito dei 99 e altre band, e gli anni Ottanta: quando giravo fra i centri sociali del circuito punk, fra Londra, Milano, Torino e Berlino.
Però in questo momento rimpiango quei vecchi cordoni, nei quali noi giovani eravamo stati educati dai vecchi di Autonomia. Cosa darei, in questo momento, per avere tremila stalin schierati. Come a Catanzaro per le manifestazioni contro gli F16, anche se eravamo solo seicento contro trecento, ma capaci di resistere e marciare per due ore, uscendone sostanzialmente incolumi. Come sul ponte girevole di Taranto, come a La Maddalena, a Capo Rizzuto, a Roma contro la prima guerra del Golfo, a Napoli, a Milano il 10 settembre del 1994. Ma di stalin, i vecchi e affidabili manici da piccone, strumento privilegiato della dialettica veloce, non ce ne sono. A farsi un giro nel corteo non si trova un solo oggetto atto a offendere, solo protezioni, di ogni foggia e grandezza. È una cosa da pacifista, e io sono pacifico, non pacifista. Tuttavia, se non sei dentro durante la fase organizzativa, non puoi arrivare in piazza e sovradeterminare le scelte di centinaia di assemblee, prima locali e poi nazionali, che hanno deciso le modalità del corteo. Almeno questo vago senso della disciplina, mi è rimasto cucito addosso e pur dolendomi della folla inerme che vedo bastonare intorno a me, me ne faccio una ragione. Dopo la prima carica riusciamo comunque a riprendere fiato.
Poi riparte la danza e stavolta ci asserragliamo in uno dei vicoli che si aprono sulla sinistra di via Tolemaide, poco distante dal tunnel di via Canevari, ma dall’altra parte della strada. So che il Movimento si è un po’ spaccato negli ultimi giorni, ne ho avuto conferma anche alle assemblee tenutesi al Carlini, alle quali mi sono guardato bene dall’intervenire, come si conviene a una stella caduta in disgrazia. Posizioni diverse e rotture che probabilmente non saranno ricomposte, anzi si acuiranno sempre di più nei prossimi anni. So come vanno queste cose fra compagni. Però qui intorno a me, in questa strada più stretta e strategicamente adatta alla resistenza, vedo molte facce note di entrambi gli schieramenti. Mi sembra di fare un passo indietro lungo dieci anni. E, non a caso, è qui che ci attestiamo e facciamo partire la vecchia giostra. Un blindato dei Carabinieri prova a venirci addosso, ma le barricate tengono e loro restano bloccati. Poi partono le prime bocce, che qualcuno ha armato in fretta e furia, con la mano esperta di quel buon tempo antico, in cui non avevamo ancora imparato ad abbassare la testa.
Il muro di divise a questo punto esita. Si vede che gli piace di più picchiare i ragazzini indifesi. Non questi cani da presa. Educati nelle giornate di marzo del settantasette e poi a Voghera, a Montalto di Castro, nel corso di quella resistenza sotterranea degli anni Ottanta. Capiamoci: nessuno è venuto qua per fare la guerriglia, figuriamoci io, altrimenti il corteo non avrebbe badato sostanzialmente a difendersi. Ma qua si tratta di lottare per la vita, perché di fronte non abbiamo un potere che vuole solo disperderci e allontanarci dalla zona rossa, che comunque dista ancora qualche chilometro. E se vogliono le nostre vite se le devono venire a prendere. Perché questi vogliono ammazzarci, darci una lezione davanti agli occhi del mondo. Pestarci a sangue per far capire a chi è a casa che ribellarsi è impossibile. Che un altro mondo può esistere al massimo nelle nostre teste. Almeno finché non troveranno il modo di estirparlo anche da lì. Non ho dubbi, quando vedo i pacifisti picchiati ferocemente nonostante le mani alzate. Non ho alcuna incertezza, quando i rivoli di sangue colorano l’asfalto intorno a me di un rosso brillante che scintilla sotto i raggi del sole. In un drammatico contrasto cromatico con le divise blu, verdi e nere che ci caricano senza sosta.
Poi a un certo punto arriva la notizia: «Hanno ammazzato un ragazzo». «No, ne hanno ammazzati due: un francese e un italiano». Sono minuti terribili, durante i quali le voci si rincorrono frenetiche, senza trovare conferme ufficiali. Sento montare una rabbia che mi soffoca più dei lacrimogeni, perché nonostante la tragedia non si placa la furia dei demoni in divisa. Continuano a caricare mossi da una forza che non può essere umana, sotto le armature imponenti, nel caldo soffocante. A pochi metri da me, vedo picchiare con ferocia una ragazza del tutto disarmata. Le sue urla mi entrano sotto la pelle. Come quelle di un vecchietto col fazzoletto rosso al collo che viene pestato da sei, sette carabinieri. Poi mi sposto verso piazza Alimonda e lì lo vedo. Ho la netta percezione che mi ricorderò per sempre di lui, ragazzo. Come l’ho visto pochi minuti fa prima che morisse, ragazzo: con il rotolo di scotch infilato nel braccio sottile, la canottiera bianca e il passamontagna. Solo che ora è riverso sull’asfalto, il ragazzo. Carne inerte priva di vita. In lugubre contrapposizione con gli accenti e le lingue diverse di quella gioiosa armata Brancaleone, che appena poco fa continuava a scendere via Tolemaide nel sole di una calda giornata di luglio. Pensando che potevamo essere più forti dei signori della Terra.
Quando ancora nessuno sapeva che ti avrebbero ucciso. Nemmeno io lo sapevo. Nemmeno tu.
E così, oggi a piazza Carlo Giuliani, ragazzo, lasciamo insieme al tuo corpo senza vita gli ultimi scampoli della nostra innocenza. Per sempre.
di Rosario Dello Iacovo
14° Capitolo di Curre Curre Guagliò – Storie dei 99 Posse
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