Dire Genova vuol dire ferite profonde
Ho compiuto vent’anni dentro lo stadio Carlini di Genova.
A mezzanotte del 20 Luglio abbiamo anche bevuto, una cassa di vino di “operazione makaja” chissà perché l’avevamo portata.
Sulla curva a destra c’era una scritta perfetta, come concisione, senso e tratto del writer “ASSASSINI” sulla curva a sinistra una ben più triste “i martiri non muoiono mai” rimpicciolivano anche le lettere mano mano. Un compagno di Feltre mi disse:
– dopo andiamo a correggerla in “i martini non muoiono mai”
Dissacrante, ma giusto.
Eravamo tutto, meno che martiri. Mentalità lontana. Avere vent’anni, avere sogni grandi, voglia di mondo, sensazione di potenza, immischiarsi (alla marsigliese) era figo e quella volta era venuto tutto il mondo a darti una mano in quello che avevi messo in piedi.
Eravamo bocia al Carlini. Forse metà della distesa di zaini erano stati messi in spalla dalla mamma.
Non eravamo pronti.
Una cosa che non si racconta mai del Carlini sono i cinque minuti di follia collettiva alla notizia (falsa) che il G8 era chiuso. L’onda di pancia che si affloscia mentre ti rendi conto che avevamo un morto per terra.
All’inizio non si sapeva di Carlo Giuliani e qualcuno, credo Guidarello, aveva letto un elenco di nomi mancanti all’appello delle varie realtà.
Di Carlo ricordo la carica laterale e l’istinto, vista la mal parata dei carabinieri, di non rincorrerli. Poi mi ricordo il rumore secco dei due spari… tà tà …e due minuti dopo mio fratello con le lacrime che tracimavano sulle gote:
– sono scappato, ma poi sono tornato indietro a vedere se eri tu, ma mi sembrava che avevi una maglietta diversa.
Ripensarci, per ognuno, credo non possa andare lontano dal bilancio di chi c’era, che cosa è successo in mezzo, le relazioni politiche interrotte e anche l’elenco angoscioso di chi non c’è più.
Non è solo passato tanto tempo.
Siamo stati sconfitti.
Ma non siamo vinti.
Perché quello che è stato messo in campo per distruggerci era talmente mostruoso e malato che aveva in sé la mutazione finale della democrazia, della rappresentanza, della politica.
In via Tolemaide, ma anche alla Diaz. In questo paese di merda parlando di polizia ci si riempie la bocca con la retorica delle mele marce. La Diaz è la Diaz perché viene rivendicata collettivamente, perché il minuto dopo entrano le telecamere a riprendere il sangue rappreso sui muri e versato a chiazze per terra. Quella è politica, non schegge impazzite.
Di fronte a tutto questo, un pugno di noi è rimasto caparbio, con la fragilità degli squilibri facili, delle sensibilità che tracimano insensate. Altri hanno preso altre strade ed oggi riescono a essere pasionari di Beppe Sala.
Da sbarbati scrivevamo sui muri “senza rabbia non essere felice”, ci era arrivato anche un personaggio della trilogia di JeanClaude Izzo che si teneva stretto il credo di Victor Serge “Dove c’è rivolta, c’è rabbia. Dove c’è rabbia, c’è vita.”
Se avevamo ragione tutto torna, in effetti per essere davvero felici abbiamo bisogno di fare qualcosa per tutti.
Avevamo gonfiato le vele a forza di fiato, ma il mare sotto di noi era pieno di mostri.
Da lì in poi ci siamo fatti male, tanto.
Dire Genova vuol dire ferite profonde.
Ma vorrei dire, che viva quel dolore!
*Non chiedo che te ne vada dolore,
ultima forma di amore,
mi sento vivo quanto ti sento,
per tutto quello che è, ed è stato,
quella realtà umana negata,
e che magari si è solo impegnata,
ed è stato solo un pretesto per vivere,
ma la verità dei fatti mi assicura,
che niente è stata una menzogna,
ma la prova di un’altra vita possibile,
mentre sento questo dolore,
è la gran prova agli occhi gonfi,
di quel che è esistito,
di quel che esiste,
di quel che esisterà,
di quel che volevo,
di quel che ancora sto cercando,
di quel che sempre cercherò.*
E se c’è una cosa da dire
a ciascuno della generazione di genova
a ciascuno dei compagni che sono arrivati poi
a ciascuno dei nipoti su cui ci chineremo a raccontare quei giorni
è la nostra dichiarazione di amore a chi faticosamente porta avanti quella storia
perché al netto di tutto
ne vale sempre la pena.
Fede
** foto di copertina di Manuel Vignati
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