Quella volta che salvammo la vita di un agente di Pubblica Sicurezza

 

18-21035Sono molte le storie che potrei raccontarvi riguardo al BULK… Di alcune vado molto fiero, di altre meno; sta di fatto che fanno tutte parte del mio bagaglio di ricordi. Si impara a vivere stando a stretto contatto con gli altri, si impara molto di sé e si scopre altrettanto su chi ti circonda, uso il termine “circonda” non a caso. Ti circondano come in un caldo abbraccio le vite delle tue sorelle e dei tuoi fratelli, ti cingono a volte con cerchi stretti, mentre altre volte ti sfiorano soltanto, ti toccano appena lasciando però un segno preciso accanto al cuore.

Quando mi hanno chiesto di scrivere di noi e della nostra vita, davanti alla tastiera del PC mi sono sentito perso per un istante, il lamento della ventola di raffreddamento nell’infinito silenzio di Settembre mi traghetta attraverso i ricordi, scelgo questo o scelgo quello, quale fra tutti è il più rappresentativo, in che modo posso dare di me, di noi, un immagine chiara e reale…

Non esiste un racconto sufficientemente esaustivo a tutte le mie domande, così all’improvviso mi sono ricordato della prima serata di apertura in Via Niccolini. Forse è questa la storia che vi racconterò oggi, la storia di come salvammo la vita ad un agente di pubblica sicurezza. Era Dicembre e come ogni Dicembre faceva un freddo becco a Milano, da pochi giorni avevamo liberato l’area di Via Niccolini a seguito del fiammeggiante sgombero del primo Deposito Bulk, in Via Don Sturzo, RARO EVENTO DI AUTOCOMBUSTIONE. Era un periodo “gagliardissimo” per noi che già da qualche anno scorrazzavamo per le vie di Milano, purtroppo dovemmo subire lo sgombero del laboratorio studentesco, ci avevano tolto parecchie energie, ma il vivere insieme nella casa occupata di Piazza Minniti ci dava ogni giorno la carica necessaria per ricominciare da capo. L’occupazione del nuovo Bulk era andata benissimo, in corteo arrivammo davanti al portone che dava su Via Niccolini; come a salutare la nostra venuta, le porte dell’ex rimessa ENEL si aprirono e la massa informe e colorata entrò nel piccolo cortiletto buio e sporco, illuminato solo dalle torce rosse e fumanti dei compagni. Diciamo che l’area era tutto, tranne che un luogo accogliente, cadeva a pezzi e veniva chiaramente usata da anni come discarica abusiva, per anni si erano accumulate macerie e sporcizie di ogni tipo, tanto che scorgemmo subito il losco lavorio che doveva esserci stato lì prima che liberassimo il posto. Per tutto il pomeriggio perlustrammo quella che si rivelò una preziosissima area dismessa nel centro di una disattenta Milano, tutta da bere. Il Bulk redivivo si stringeva fra due enormi palazzine sempre dell’ENEL, sulla sinistra, in Via Niccolini un mostro di cemento e vetri che in passato doveva essere stato il centro nevralgico dell’azienda elettrica, sulla destra invece gli accumulatori e le bobine che davano e danno ancora oggi corrente alla città. Sul davanti la piazza del cimitero Monumentale con lo snodo dei tram e la piccola casetta arancione degli atiemmini, riparo nei freddissimi inverni milanesi. Sarebbe stata questa la nostra casa, enorme, sconosciuta, tetra, nei sei anni a venire. Seppur il lavoro ci sembrò enorme, a tratti infinito, in pochi giorni rendemmo decente lo spazio a ridosso del portone, un piccolo bar, il BARRACUDA 2, una sala che ribattezzammo la NERA, dove ballare e ascoltare musica e infine l’ingresso con la cassa per le sottoscrizioni… Si! Si chiamavano così. Con i soldi che ci erano rimasti, dopo lo sgombero, pensammo di mettere in piedi una giornata per il re-styling del posto, un modo per farci conoscere e per conoscere il nuovo quartiere, un modo per dare una ripulita al grigio stantio sulle pareti del BULK.

Fu una giornata campale, a quella ne seguirono altre più fiche senza dubbio, ma quella fu la prima, la più genuina, la più spontanea, la più faticosa. Di agenti quel pomeriggio se ne erano visti pochi, pochissimi, d’altro canto lo stretto “contatto” dei giorni appena passati doveva aver tolto la voglia a tutti di vedersi. Verso sera anche la Digos, che osservava dalle prime ore del pomeriggio, se ne era andata lasciandoci liberi di tirare il fiato, solo pochi disegnatori si alternavano sulle scale di fortuna che erano rimaste fuori dal perimetro e con la forza del generatore era pure partita la musica all’interno. Ricordo che in cassa eravamo io e altri tre o quattro amici, stanchi e assonnati… intendiamoci la vita non era tutto sbattimenti e sofferenze, fino a quel punto solo io mi ero scolato almeno 20 birre e chi mi stava intorno si riposava rifocillando corpo e mente con dell’ottimo neroafghano. Eravamo comunque vigili e dalla nostra parte c’era il robocassa ballerino di Mario, un compagno del nordest, ballava e si illuminava a tempo di musica, la notte si faceva gelida e profonda e un pochino tutti abbassammo la guardia, almeno per oggi di attacchi non ne avremmo dovuti subire, si trattava di stare assieme e divertirsi. Punto.

Ricordo che un giovane graffittaro in erba “sbombolava” alle mie spalle, appena oltre il marciapiede, aldilà della strada, la sua ombra illuminata dal basso da un faretto ballava muovendo il culo a tempo. Lasciava strali di colore e poesia sul muro grezzo, con la coda dell’occhio lo seguivo nella sua danza sabbatica al ritmo di un punk sfrenato e ossessivo, mentre bevevo e ricordavo con gli altri i momenti di tensione da poco trascorsi in Via Sturzo. Quella sera si pagava in cassa a causa delle grosse spese affrontate per le vernici e i colori, ma sinceramente non prestavamo molta attenzione a questa cosa, un po’ per la stanchezza un po’ perché è sempre stato questo lo stile del Bulk, fu per questo che quando il pittore murale ci saltò con un balzo per superare la cassa ci girarono non poco i satelliti. ACCHIAPPALO!!!!! Le mani dei ragazzi si protesero verso il corpo guizzante che ci scivolò fra le dita, correva come inseguito da un fantasma: VIA….LARGO, LARGO! Neanche il tempo di capire e uno scossone mi sbatte contro la transenna della cassa improvvisata, ma allora siete in tanti, pensai ad un’irruzione, uno sfondamento, come se ne vedevano spesso ai tempi.

Gli occhiali mi erano scesi sul naso e non vedevo bene, le luci della sala roboavano tutte attorno e io… non potevo credere ai miei occhi, la prima cosa che notai del secondo irruento avventore fu la cintura e la fondina, prima bianche poi viola poi rosse muoversi fra la folla del bar, mi stropicciai gli occhi, sognavo o ero sveglio? Ero sveglissimo e quello che aveva appena sfondato la cassa era un agente di polizia con tanto di divisa, solo, nel bel mezzo della sala. Il poveretto non doveva essersi reso conto di dove si trovava, arrivato al centro della stanza si bloccò di colpo facendo ancora qualche centimetro in avanti scivolando sulle suole lisce, con un rapido colpo d’occhio feci il giro delle facce che lo circondavano, apparivano ad intermittenza e cambiavano colore, chi sogghignava, chi toccava il vicino con il gomito, chi….basito non sapeva che fare.

Il tempo di reazione varia da persona a persona e da situazione a situazione. Come in un lunghissimo rallenty l’agente alzò le mani facendole scorrere in avanti lungo il petto, come per dire state indietro, ma era troppo tardi, in meno di un lampo tutta la sala gli era addosso, mentre correvo verso il centro della stanza fianco a fianco dei miei compagni non pensavo a niente. Sì, in certi casi è possibile non pensare: ma agire e basta, tirati dall’istinto, dalla fotta di pareggiare un conto antico, un conto accumulato da noi, dai nostri fratelli, spinti dalla reazione scomposta di uno sciame impazzito che si avventa spietato. Il primo colpo che lo raggiunse lo fece girare su se stesso schiacciandogli il naso sul labbro superiore, il secondo, un calcio, lo menò al tappeto il terzo e i seguenti non li distinsi più, accadde tutto con una velocità assordante, come le urla di chi mi stava attorno, lo sprovveduto non poteva che coprirsi sotto i colpi.

In passato mi è capitato di prenderle diverse volte, alle medie ero ossessionato da un mostro alto due metri pieno di brufoli, in prima liceo venni battuto come un tonno dai nazi e poi sbirri e carabinieri; farsi picchiare diventa un arte con il passare degli anni, impari a proteggere le tue parti molli e scopri che i colpi più duri non ti fanno male da subito, mi ha sempre spaventato il rumore che fa un pugno quando schiocca sulla tua scatola cranica, lì ti sembra che l’osso si spezzi e che il cervello ti debba schizzare fuori da un momento all’altro. Per mia fortuna i danni che ho riportato in passato non sono mai stati gravissimi, ma li ricordo tutti, sono lì nel mio cranio, come in un elenco sempre da aggiornare.

Fra le urla e gli strilli sentii una voce amica scansare le altre, l’unica lucida nel magma sovversivo di quegli istanti: “Il cannone, c’ha il cannone! Dobbiamo portarlo fuori!” Un brivido mi strizzò le chiappe e corse su attraverso la spina dorsale fino al cervello, il fesso era armato e intorno a me non vedevo più nessuna faccia amica, fidata. Dovevamo salvarlo per salvare noi stessi, dovevamo agire per non dover reagire, dovevamo essere lucidi, ancora una volta, se qualcuno fosse arrivato all’arma dell’agente poteva finire molto male, più probabile fra tutte le cose un ubriaco che si spara in un piede. Abbassai lo sguardo e il poliziotto era sotto di me con le braccia incrociate sul viso, esausto, inerme, alzai appena la testa sopra di lui e lì come in un film vecchio della Fox, il mio eroe, M. che lo agguanta per la casacca e comincia a tirare: “Aiutami…..portiamolo fuori…” Ero di nuovo io e non più uno dei tanti. A mano a mano che lo tiravamo verso l’uscita i compagni intorno a noi aumentavano e ci facevano da scudo, a noi e al poliziotto, ancora pochi metri e saremmo stati fuori, ormai in una decina lo tirammo in piedi e lo infilammo nella volante che il fesso aveva parcheggiato sul passo carraio, la sua collega ci guardava terrorizzata e lui non riusciva neanche a mettere in moto. Improvvisammo un piccolo cordone intorno alla macchina fino a che non ripartì sgommando nella notte, quello che ne seguì potete immaginarlo tutti, Milano ci vomitò addosso tutti gli effettivi in divisa quella notte, urbani compresi.

Per fortuna per quella notte non si parlò di sgombero……se ne parlò qualche mese dopo a Metropolix e probabilmente lì pagammo anche questa. Alcuni penseranno, ecco i soliti amici degli sbirri, altri diranno e che male c’è a disarmare uno sbirro e a sparargli in faccia? Vedete, quello che penso io è che quella notte facemmo qualcosa di più, non solo mandammo a casa uno zelante quanto sprovveduto poliziotto, non voglio sapere che vitaccia e in quanti devono averlo preso per il culo, ma soprattutto agimmo di concerto senza farci prendere da noi stessi, cogliendo le sottili variabili che ci si ponevano davanti. Se non fossimo intervenuti le cose sarebbero degenerate, o forse no… è un fatto che in quella fredda notte di Dicembre mi sono sentito parte di un tutto nel pensare e nell’agire, IL DEPOSITO BULK.

 

 

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