Per il diritto alla casa e alla città: Milano scende in strada
Il corteo di sabato 22 novembre ha detto una cosa molto semplice e molto potente: Milano è arrivata a un punto di rottura. Lo si percepiva già da piazzale Loreto, dove la manifestazione ha preso forma, e lo si è visto chiaramente mentre via Padova, metro dopo metro, iniziava a riempirsi di persone. In quella strada, che da anni è uno degli epicentri delle trasformazioni speculative della città, si è materializzata una risposta collettiva che non si vedeva da tempo.
Quella che è scesa in piazza non è stata solo “la solita rete del diritto alla casa”, ma un fronte più largo: comitati, sindacati degli inquilini, realtà di quartiere, persone che vivono ogni giorno sulla propria pelle il peso crescente degli affitti e la scomparsa delle case popolari ma anche i partiti che sono parte della maggioranza critica con il modello Milano. E la comunità palestinese, con cui questa estate si era costruita una prima convergenza, ha riportato ancora una volta al centro l’idea che il diritto alla casa non conosce confini: da Milano alla Palestina è lo stesso terreno di ingiustizia, espulsione e privatizzazione.
A Milano, ormai, il problema non riguarda più soltanto chi veniva etichettato come “marginale”: sta saltando anche il ceto medio e chi un lavoro a tempo pieno. La città è stata disegnata – e continua a essere progettata – come uno spazio per chi può pagare molto e che dismette lo spazio pubblico. E mentre si costruiscono appartamenti di lusso e si inseguono modelli di rigenerazione urbana che hanno come unico orizzonte il profitto dei privati, migliaia di lavoratrici e lavoratori essenziali devono vivere a decine di chilometri dal luogo in cui lavorano. Significa che la città non è più sostenibile, non più abitabile, non più pensata per chi la manda avanti davvero.
Da tempo sostengo che il nodo sia proprio questo: la casa non è più trattata come un diritto, ma come una merce. E se lo si osserva dal vivo nei quartieri, il quadro è ancora più chiaro. In zone come via Padova è evidente una pressione abitativa ormai ingestibile: le case popolari sono insufficienti, la presenza pubblica è minima, e ogni “rigenerazione” si traduce in un aumento dei prezzi e in nuove esclusioni. Non è un caso che proprio qui, negli ultimi anni, sia rinato un movimento territoriale forte, capace di dire no alle trasformazioni calate dall’alto.
A questa situazione si aggiunge una dimensione più brutale, quella repressiva. Quanto successo pochi giorni fa al Giambellino – centinaia di abitanti identificati come fossero un corpo estraneo, sospetto, da bonificare – non può essere derubricato a episodio. È il segnale di una città che tratta la povertà come colpa e che, invece di intervenire sulle cause della crisi abitativa, criminalizza chi subisce gli effetti del mercato immobiliare. Se il Comune non offre soluzioni, e la Regione continua ad accumulare case popolari vuote, è inevitabile che le persone occupino per necessità. Rispondere con operazioni muscolari significa solo aggravare il problema, non risolverlo.
Durante il corteo, passando per via Porpora e via Lulli, la contraddizione era davanti agli occhi di tutti: più della metà degli appartamenti popolari di quelle palazzine è vuota. È difficile non definire criminale questa situazione, soprattutto in una Milano dove gli affitti arrivano a 1.500 euro anche per bilocali senza qualità e dove chi lavora con stipendi bassi o medi non ha più alcuna possibilità di restare. In Via Lulli sotto la sede sono stati attaccati dei cartelli.
La manifestazione di sabato ha reso evidente tutto questo, ma ha fatto anche un passo in più: ha mostrato che esiste un movimento in grado di tenere insieme territori diversi, storie diverse, bisogni diversi. Che esiste una capacità collettiva di dire che basta case di lusso, basta edificazioni per chi ha redditi altissimi, basta speculazione mascherata da modernizzazione. Che la priorità deve essere altre: riqualificare le oltre dodicimila case popolari vuote, restituire un ruolo pubblico forte nella gestione dell’abitare, costruire una città che non espella chi la fa vivere.
La città che verrà – o quella che non ci sarà più, se continuiamo su questa strada – dipende anche da giornate come questa. Dal coraggio di dire che la casa è un diritto, che lo spazio urbano è un bene comune e che Milano non può essere lasciata in mano a chi la considera soltanto un investimento.
Sabato 22 novembre, questo è stato detto chiaramente. E non è poco. Il corteo, fatto di migliaia di persone, si è chiuso al Parco Trotter con il buio che incalzava.
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