Gaza, lacrime e libertà

“Quando un forestiero viene piange due volte: quando arriva e quando parte”. Alessandro Siani lo affermava in merito al sud Italia nel film “Benvenuti al Sud” con Claudio Bisio. Se penso però al viaggio appena trascorso nella Striscia di Gaza, questa osservazione calza a pennello. Appena passato il valico di Erez, la prima immagine che ci è letteralmente venuta incontro è stata scattata dai nostri occhi nei pressi della ex-discarica del nord della Striscia, dove la cooperazione italiana, con il Progetto MAE, sta riqualificando e bonificando il territorio per donarlo nuovamente alla popolazione di Gaza. Dovevamo proprio sembrare dei forestieri, o forse salvatori, agli occhi di quell’orda di bambini che ci è corsa vicino per conoscerci. Sicuramente non vedono tutti i giorni venti persone provenienti dall’altra parte del muro con capelli sciolti al vento e senza elmetto, con in mano macchine fotografiche al posto delle armi. Per loro quelli “dall’altra parte” sono quelli con il mitra in mano che sganciano bombe sulle loro teste. E infatti, dopo alcuni primi istanti di timore, hanno gioito per la nostra presenza in un modo talmente aperto e conviviale da farci commuovere e non poco. Questo è quello con cui si ha a che fare nei primi minuti in cui metti piede nel territorio palestinese e, soprattutto se è la prima volta, non si è mai preparati: ognuno di noi se pensa a Gaza si immagina solo morte, distruzione, sofferenza e tristezza. Invece, appena arrivati sono i bambini i primi a far percepire un’aria diversa, sicuramente oppressa e appesantita, ma comunque fresca e gradevole. Riescono, soltanto con le loro corse a piedi nudi e le loro grida, a mettere tutto il contesto politico, economico e sociale su un altro piano, che è quello dell’energia vitale palestinese.

O’ Zulù direbbe: “Non so dire dove nasca quel calore ma so che brucia, arde e freme”. Io non so dire da dove arrivi il vento della libertà ma sicuramente soffia sulla Palestina e brucia nel petto dei gazawi, come una ferita mai chiusa. La Striscia viene definita una prigione a cielo aperto e di fatto è così (anche se in questo caso neanche il cielo è libero). E proprio per questo i suoi abitanti non si sono mai dati per vinti nel tentare di ritrovare pace e libertà, senza mai farsi scoraggiare. Arrivano anche al punto di sacrificare la loro vita, non sempre pienamente coscienti, davanti alle camionette israeliane appostate ai confini del border, dove dal 30 marzo 2018, ogni venerdì, migliaia di persone si riuniscono per alimentare la Grande Marcia del Ritorno. Noi siamo andati a vedere una di queste manifestazioni con i nostri occhi ed è incredibile la rabbia che invade chi protesta: da chi getta indietro lacrimogeni a mani nude, a chi lancia biglie con la fionda, a chi entra nella mischia per documentare il tutto, per fare in modo che nessun gesto sia vano, fino ai soccorritori che alzano i lettini per evitare di far andare a segno i colpi dei cecchini. Tutti loro rischiano pallottole per che cosa, alla fine? Un pezzetto di terra? No, è molto di più a smuoverli. Vendetta forse, anzi, sicuramente. Ma soprattutto è la sete di libertà che li porta ad abbeverarsi anche nella pozza dei coccodrilli. È come se ne sentissero il bisogno fisiologico.

Questa spinta vitale viene continuamente oppressa perché fa paura. E non solo a Israele, stato occupante, che come risaputo schiaccia giorno dopo giorno i diritti umani dei palestinesi, al punto da ingabbiarli in 365 Km2 di terra. La spinta che dal basso grida “Hurrya” (libertà in arabo, ndr.) terrorizza anche il partito al governo nella Striscia, Hamas. Sin dal 2006, anno in cui le bandiere verdi vinsero le elezioni e presero il potere, il movimento estremista islamico ha progressivamente modificato lo stile di vita palestinese, imponendo limitazioni alla vita di tutti i giorni e trasformando la popolazione in un esercito di sudditi, inizialmente convinti che sacrificando una, ulteriore, parte di libertà personale, sarebbero riusciti a sconfiggere l’imposizione israeliana sul loro territorio. D’altra parte, il partito verde si è sempre posizionato in maniera radicale contro l’occupazione, vincendo consensi soprattutto dopo gli accordi di Oslo del 1993 tra Arafat e Rabin, opponendosi al riconoscimento formale dello stato di Israele da parte dell’OLP. Questa radicalità arriva al punto di amministrare il territorio secondo una personalissima interpretazione, come spesso succede in questi casi, della Sharia, la legge islamica.

I gazawi si sono trovati quindi in un contesto completamente modificato rispetto a quello che vivevano prima. Il passaggio di Gaza da ambita meta turistica a carcere sotto stretta sorveglianza si riflette nelle acque del porto di Gaza City, dove ogni giorno all’alba tornano sempre meno pescatori. Nella zona portuale, infatti, c’è un enorme luna-park fantasma e la spiaggia è cosparsa di impianti balneari, dove un tempo le famiglie con i bambini ridevano spensierati. Lì dove nel 2014 quattro bambini morirono sotto i missili israeliani, “scambiati per militari armati di Hamas”. Vittime dell’oppressione di Hamas sono inevitabilmente le donne, ormai relegate al solo ruolo di casalinghe, obbligate a mettere il hijab, a restare vergini fino al matrimonio, non potendo comunicare con l’uomo, anzi rimanendogli tre passi indietro quando cammina, e violate nel la loro dignità dal non poter esprimere se stesse con qualsiasi forma di svago. Continue restrizioni sulla vita quotidiana non sembrano provenire solo dalla necessità di omologare tutti, quanto più dalla paura di non poter contenere quel vento di libertà che si fa sentire più l’oppressione si acuisce.

È come se Hamas avesse più paura di quel calore dei gazawi che degli israeliani. E la forza di andare avanti “nonostante tutto”, continuando a combattere quel “tutto”, è ciò che caratterizza e fa palpitare il popolo palestinese da più di settant’anni. Una sera, su uno di quei baracchini dismessi sulla spiaggia, poi ristrutturati per farli diventare luoghi di ritrovo, stavo parlando con un ragazzo conosciuto lì. Bevendo chai e fumando una shisha, a certo punto della discussione lui ha detto una frase che riassume perfettamente da dove arriva questa voglia di libertà: “Io non sono libero quando mi viene data la possibilità di viaggiare ma quando so di poterlo fare quando ne ho voglia. Vedi, la libertà non è qualcosa che ti viene concesso, è molto di più, è qualcosa che provi”.

Provate a non piangere voi mentre siete su un taxi che vi porta sempre più lontano da quella terra. Ma quelle che cadono non sono lacrime, sono un mosaico di emozioni e sentimenti per lo più contrastanti. Si piange perché, volente o nolente, ci si lega alle persone che vivono in quella situazione, che inevitabilmente diventano amici, compagni, fratelli e lasciarli è una pugnalata al cuore. Si piange perché non si vorrebbe andar via, o meglio, si piange per la vergogna di aver pensato di non voler andar via, di fronte a un popolo che da anni lotta e muore solo per poter superare quel muro che li circonda. Si piange per la rabbia di non aver potuto fare di più per e con il popolo gazawo. Si piange per rispetto. Si piange perché la Palestina è lacerata e occupata. Si lotterà e si piangerà sempre finché la Palestina non sarà libera.

Rita Barbieri per Gaza Freestyle Festival

 

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