I Cpr sono una bomba a orologeria. Il Covid-19 tra le mura di Gradisca
Primo caso ufficiale di Covid-19 nella struttura detentiva per migranti di Gradisca d’Isonzo. A rischio tutte le altre. Si moltiplicano gli appelli al rilascio dei reclusi. Una misura di buon senso a protezione dei loro diritti e del sistema sanitario nazionale messo sotto pressione dalla pandemia.
All’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo un uomo è risultato positivo al Covid-19. Si tratta del primo caso ufficiale in una struttura detentiva per migranti. È stato confermato martedì scorso dal prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello a Linda Tomasinsig, sindaca Pd del paese del Friuli Venezia-Giulia. «Il prefetto mi ha informato che il detenuto è stato posto in isolamento fin dall’arrivo al Cpr e che sono stati messi in atto accorgimenti per evitare contatti con il personale», scrive la prima cittadina. Nello stesso comunicato esprime forte preoccupazione per la mancanza di trasparenza intorno alla comunicazione dei casi presenti sul territorio gradiscano e sottolinea come «ancora una volta ciò che ruota attorno all’istituzione Cpr è mantenuto riservato e fuori dal controllo pubblico».
La persona affetta da Coronavirus è stata trasferita ieri in ospedale e il locale in cui era trattenuto sanificato. Era arrivata a Gradisca il 19 marzo scorso da Cremona, uno degli epicentri dell’epidemia. «In un momento di emergenza sanitaria come questo, disporre simili trasferimenti è una scelta discutibile e pericolosa», afferma Giovanna Corbatto, Garante comunale delle persone private della libertà personale. Una scelta che ha messo a rischio anche gli agenti che hanno accompagnato il migrante in un viaggio in macchina durato diverse ore e il personale dell’ente gestore del Cpr.
Dentro la struttura, intanto, i reclusi sono in sciopero della fame. Per la rete «No Cpr e no frontiere – Fvg», in contatto con alcuni reclusi, circa 50 persone starebbero rifiutando il cibo da lunedì scorso. Hanno paura di contrarre il virus e denunciano la scarsa assistenza medica. Chiedono di essere liberati. Secondo il prefetto, invece, la situazione è «sotto controllo» e la protesta, portata avanti «a rotazione», riguarderebbe le singole situazioni.
«Il 18 marzo ho portato la spesa al mio compagno che è trattenuto nel Cpr di Ponte Galeria, alle porte di Roma – racconta Carla Livia Trevisan – Gli agenti mi hanno detto che se fossi tornata mi avrebbero denunciato per inottemperanza delle misure previste dal Dpcm. L’altro ieri ci sono andata di nuovo e ho ricevuto lo stesso avviso. Sono preoccupata: non indossavano guanti, né mascherina». Nella struttura detentiva le persone vivono in 8 per stanza. Qui, come negli altri Cpr, è impossibile rispettare le distanze di sicurezza e le misure di prevenzione indicate dall’Organizzazione mondiale della sanità e dalle autorità mediche nazionali.
Anche nel Cpr di Palazzo San Gervasio (provincia di Potenza) nei giorni scorsi le persone hanno rifiutato il cibo, chiedendo di essere liberate. «Non siamo protetti dal virus, non abbiamo mascherine né niente – raccontano al manifesto alcuni reclusi – C’è un ragazzo tunisino in isolamento a causa di un’ernia. Si dice che abbia anche la febbre alta». I migranti sono molto preoccupati che agenti e operatori, che entrano ed escono dal Cpr, possano introdurre il virus nella struttura.
La stessa preoccupazione è condivisa su vari livelli. «Il pericolo di contagio proviene anche da soggetti asintomatici per cui le misure eventualmente adottabili non appaiono idonee a scongiurare il rischio di diffusione del virus nei centri», ha scritto il 12 maggio scorso un cartello di associazioni in una lettera indirizzata al ministro dell’Interno, prefetti e questori. Con quel testo, che elenca le ragioni per cui l’ingresso del virus nei Cpr avrebbe «conseguenze drammatiche», i numerosi firmatari hanno chiesto l’immediata sospensione di ogni nuovo ingresso delle strutture, la disposizione di misure alternative al trattenimento e la massima tempestività nella progressiva chiusura dei centri.
Analoghe richieste sono giunte ieri dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović. «Il rilascio dei migranti detenuti è l’unica misura che gli Stati membri possono adottare durante la pandemia da Covid-19 per proteggere i diritti delle persone private della libertà e più in generale quelli di richiedenti asilo e migranti», recita l’appello rivolto a tutti i paesi facenti parte dell’organizzazione internazionale. Il Commissario dà notizia di avvenuti rilasci in Belgio, Olanda, Regno Unito e Spagna. Nel paese iberico tre centri di detenzione sono stati chiusi in virtù dell’emergenza.
Al 24 marzo scorso erano 381 le persone recluse nei Cpr italiani. Tra loro 33 donne. Lo ha reso noto con una nota il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. Rispetto alle due settimane precedenti si è registrata una diminuzione di 44 unità. Il Garante ha portato all’attenzione del ministro dell’Interno un problema dirimente rispetto alla detenzione amministrativa delle persone migranti nell’attuale congiuntura pandemica. «La questione riguarda la sensatezza della privazione della libertà in funzione del rimpatrio di persone che al momento non possono essere rimpatriate, data la chiusura dei confini e l’inesistenza di collegamenti aerei o navali con la gran maggioranza degli Stati», scrive il Garante. È in attesa della relativa risposta.
Le modalità di diffusione del Covid-19 e i suoi effetti sul sistema sanitario dovrebbero spingere a interpretare la detenzione amministrativa dei migranti in forma diversa. Non solo ingiusta, ma anche inutile da un punto di vista funzionale, dal momento che i rimpatri sono fermi, e pericolosa per la società nella sua interezza. Con gli ospedali in forte difficoltà, e in alcuni casi vicini al collasso, la diffusione del virus negli affollati Cpr costituirebbe un ulteriore e inutile aggravio per il sistema sanitario nazionale e quindi un rischio per tutta la popolazione, italiana e migrante. Dovrebbe bastare questo dato per far liberare le persone recluse, al pari di quanto sta già accadendo in altri paesi europei.
di Giansandro Merli
da il Manifesto del 27 marzo 2020
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