4 maggio: verso una fase due di movimento
Dopo i giorni del terrore a mezzo stampa, dove la nostra quotidianità è stata invasa da curve epidemiche impazzite e appelli all’auto-isolamento totale, il dibattito pubblico ha subito una sensibile inversione di tendenza. Nuove immagini e emozioni si sovrappongono velocemente mentre si cerca di interpretare le parole di un Presidente del Consiglio in evidente difficoltà. L’atteso discorso di Giuseppe Conte apre definitivamente un nuovo scenario nella fase politica attuale: l’Italia si prepara alla “Fase 2”. Senza spericolarci in previsioni epidemiologiche e consigli sanitari che non ci appartengono proviamo a dare una lettura orientata dello scenario che si apre all’orizzonte.
Crediamo infatti che questa pandemia sia un fatto totale, la cui comprensione non possa passare per una sua scomposizione in settori stagni lasciando alla “scienza” il controllo della decisionalità politica. Attenzione al richiamo della tecnocrazia che spinge al sacrificio dell’autonomia del politico in nome di pretesa scientificità.
La scena è sempre la stessa e così anche gli attori: Conte, la sua task force e Confindustria. Le attenzioni sono tutte rivolte a una più rapida ripartenza economico-commerciale possibile, mentre la socialità e la cura rimangono lasciate fuori dall’ordine del discorso. Quindi riparte la produzione, quella industriale nella fattispecie, e poi in seguito, se ci sarà spazio, la riproduzione, ma solo e soltanto se mediata all’interno della famiglia eteronormata. Neanche una parola sulle politiche della cura, le politiche sanitarie che rappresentano la vera causa di questa emergenza. Il tutto all’interno di un quadro giuridico molto vago (“congiunti” questi sconosciuti) lasciando spazio alla discrezionalità delle forze dell’ordine e mano libera ai padroni nelle fabbriche. L’apparato emergenziale mobilitato in questi mesi di pandemia sembra dover sopravvivere ancora a lungo, pronto a essere utilizzato per silenziare ogni forma di conflitto sociale che la profonda crisi economica potrebbe innescare. Bisogna rendersi conto che le priorità di questo governo vanno radicalmente rovesciate, deve saltare il banco.
Hic rhodus hic salta.
Nei primi mesi dell’emergenza le nostre intelligenze collettive sono state in grado di articolare risposte plurali nei vari territori, capaci di fronteggiare a viso aperto l’emergenza a partire dalla creazione di esperienze di welfare non erogatorio, non autoritario, non paternalista. La “Fase 2” ci pone davanti alla necessità di compiere un passo in avanti. La sfida adesso inizia a farsi più complicata e ci costringe ad abbandonare quel presentismo che ha caratterizzato il nostro agire nei primi due mesi di lockdown.
Nel corso della “Fase 1” la nostra risposta è stata la creazione di grandi reti di mutualismo, un modo per aiutare le fasce più fragili della nostra società e allo stesso tempo uno strumento per canalizzare la forza aggregante dell’emergenza. Tutte le altre proposte si sono infrante, scoppiate nelle bolle del web in cui sono state costrette. Siamo stati incapaci di andare oltre alla dimensione della semantica del dibattito pubblico. Non c’è modo di uscire da questa empasse, se non attraverso una riattivazione di alcune delle categorie del nostro pensiero politico: quella dell’azione in primis. Questo vuol dire scuotere il concetto stesso di azione e riportarlo al centro del nostro fare politico, attraverso faticosi processi di pensiero.
La nostra priorità è quella di essere in grado di articolare una proposta politica di alternativa attuabile qui e ora. Non è possibile attendere una riapertura della mobilità, o la fine della pandemia per uscire dall’oikos e rioccupare lo spazio pubblico.
Partiamo da luoghi comuni ma non sappiamo dove possiamo arrivare.
Accanto al criterio proprio di ogni azione, quello della grandezza, dobbiamo posizionare la cura e comporre nuove traiettorie e nuove pratiche. La presa in cura collettiva deve rimanere la prima preoccupazione del nostro agire, la nostra bussola per non scadere nelle ciniche retoriche neo-liberali che chiedono a gran voce una repentina riapertura. Non sono appelli a una generica rottura dei divieti per riscoprire la nostra identità antagonista, ma il tentativo di immaginare nuovi prassi possibili. Ripartire dal gigantesco esplodere della materialità delle lotte che ha invaso tutto il mondo e agire da fattore di moltiplicazione per l’esplodere della conflittualità. Ora serve tracciare una linea di congiunzione tra tutto quello che si sta già dando globalmente per traslarlo all’interno dello spazio pubblico.
Camminare verso questa ipotesi vuol dire accettare come campo d’azione minima l’Europa. La pandemia ha dimostrato la fragilità dei nostri confini nazionali, è la perdita netta di “effettualità” dello stato-nazione moderno e l’apparire al suo posto di nuove forme di “politicità”. Il profilo classico dello Stato è venuto meno insieme al monopolio della sua “politicità”. Così il dibattito è da giorni cristallizzato sullo scontro tra Eurobond e Mes, una fotografia delle storture connaturate in questa Unione Europea ancora legata ai vincoli del trattato di Maastricht. I valori politici correnti sono antiquati, inutile aggrapparsi e tentare di risolvere questi problemi attraverso a un ritorno all’espediente della patria. Eppure da mesi assistiamo al ritorno della patria come l’unica ovvia, naturale e plausibile essenza politica, una ritirata notevole verso il “nazionale” come narrativa di solidarietà non-ideologica. Il legarsi al Presidente del Consiglio, la bandiera italiana fuori da ogni balcone, si stanno riattivando tutti gli elementi del background culturale della destra statalista. La parola “Europa” rappresenterà ancora un “non più” spendibile nel dibattito pubblico? Riusciremo a risignificarla davanti al crescere di una retorica patriottica tanto cara alla destra nostrana?
Qualsiasi proposta politica a-venire il cui obiettivo è la conquista del potere politico non può funzionare senza partire da una seria riflessione sulla transnazionalità. Non come semplice movimento di solidarietà da attuare attraverso una coordinazione a posteriori, ma come capacità di tessere reti europee in grado di tradurre le diversità e creare strumenti materialmente utili a costruire un attacco frontale contro questo sistema.
Vito Saccomandi
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Io partirei dal dibattito che si sta creando all’interno dei social che già è polarizzata tra i due estremi Italia versus Europa. Se non si lavora su questa dicotomia sarà difficile aggregare una condivisione di intenti. Le persone sono spiazzate dalla confusione mediatica delle notizie e reagiscono conformandosi alle correnti di pensiero che meglio interpretano le loro paure e angosce alla ricerca di una soluzione nel recinto delle ideologie