Estate ’60, la rivolta che aprì le porte al centro-sinistra
L’Italia, si sa, è un’eterna palude. Un Paese tendenzialmente conservatore dove, citando il Principe di Salina nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Un Paese dove, dopo lunghissimi momenti di stasi, si va avanti (o indietro) a strappi.
E, in fondo, il nuovo libro di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone “1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile” ci parla proprio di questo, di uno dei rari momenti di strappo della storia d’Italia, ma anche, leggendola da un altro punto di vista, di un grande cambiamento che, nei fatti, non ha cambiato quasi nulla. A fine recensione, voi stessi potrete decidere quale posizione scegliere e se vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Siamo dunque nel 1960. L’Italia, ancora in pieno boom economico, si appresta a ospitare le Olimpiadi a Roma.
Il Paese è governato già da 15 anni dalla Democrazia Cristiana: una DC che, già pochi mesi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza, aveva rottamato la formula dei governi di unità antifascista con tutte le forze che avevano animato la Guerra di Liberazione e che, dopo il trionfo alle elezioni del 1948 contro la sinistra unita nel Fronte Popolare, aveva scelto la via di un ferreo centrismo.
I democristiani sono reduci dal grande successo delle elezioni politiche del 1958, dove hanno ottenuto più del 42% dei voti, premiati per il miglioramento complessivo delle condizioni economiche durante gli anni Cinquanta.
Le sinistre di PCI e PSI, ancora formalmente unite, sono solidamente confinate all’opposizione con il 36% dei voti.
L’Italia del 1960 è uno Stato dove l’isteria anticomunista è ancora potentissima. Fortemente stimolata dagli industriali e dalle continue e pesantissime ingerenze della Chiesa Cattolica e degli americani. Anche i socialisti di Nenni sono guardati con sospetto e in modo sprezzante, considerati un po’ come gli “utili idioti” di Togliatti e di Mosca. Per inserirci nel clima del periodo, il libro ci racconta le sanguinose imprese della Celere del Ministro dell’Interno Scelba responsabile di decine di uccisioni impunite tra operai, contadini e disoccupati per tutti gli anni Cinquanta.
Il centrismo, però, ha il fiato corto e le intelligenze più acute del partito cattolico lo capiscono bene.
L’Italia si è arricchita, ma uno sviluppo diseguale alimenterà tensioni sociali via via crescenti per tutto il decennio successivo. L’ondata migratoria dal meridione contadino verso il settentrione operaio sta creando grandi contraddizioni nelle metropoli industriali come Milano e Torino.
È evidente che la DC non è più in grado di gestire il Paese da sola. Si aprono quindi due possibilità: quella di un’apertura a sinistra con la cooptazione al potere di quelle forze che, utilizzando un termine ormai passato di moda ma sempre utile a spiegarci molte cose, all’epoca rappresentavano il proletariato, oppure quella di un arroccamento reazionario a destra. Ricordiamo che, ai tempi, Spagna e Portogallo erano sotto dittatura fascista, in Francia era appena tornato al potere De Gaulle dopo una gravissima crisi costituzionale che aveva visto l’ingerenza dei militari e il Portogallo si avviava alla dittatura dei colonnelli. Uno scenario di svolta a destra era quindi assolutamente plausibile.
Mentre la Democrazia Cristiana – un vero e proprio partito-Stato capace di tenere insieme tutto e il contrario di tutto con il potente mastice dell’anticomunismo – si dilania sulla possibile apertura ai socialisti di Nenni, si fa avanti la figura di Fernando Tambroni del quale l’opera di Franzinelli e Giacone ci offre un ritratto vivido.
Marchigiano, complice del fascismo durante la dittatura non per convinzione ma per quieto vivere, senza alcun ruolo durante la Resistenza, ambizioso, carrierista spericolato, trasformista, vendicativo, arrivista con una fitta rete di clientele sul territorio, riesce a praticare una vera e propria scalata al potere dalla fine della guerra fino al fatidico 1960. Ministro dell’Interno dal 1955 al 1959, si distingue per una politica un po’ meno muscolare rispetto a Scelba nei confronti della sinistra, ma per un’inquietante opera di dossieraggio degli avversari politici. Questo mentre la “Balena Bianca” si dilania al suo interno e i suoi esponenti di punta come Moro e Fanfani giocano a scacchi sull’apertura al PSI. E mentre Nenni e il potentissimo Segretario del PCI Togliatti stanno a guardare.
In questo scenario Tambroni, dipinto come l’uomo giusto al momento giusto (o meglio…l’uomo sbagliato al momento sbagliato) che, mentre la DC è nella palude dei veti contrapposti tra capi-corrente, si fa avanti e nell’aprile del 1960 diventa Presidente del Consiglio grazie ai voti determinanti dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano. I fascisti, che rivendicano apertamente la continuità con il regime mussoliniano, diventano determinanti per la prima volta dalla nascita delle Repubblica e ad appena 15 anni dalla fine della guerra. Questo li rende baldanzosi e tronfi.
A fine giugno è previsto il congresso del MSI a Genova. Città Medaglia d’oro della Resistenza dove le truppe tedesche hanno dovuto arrendersi ai partigiani e dove le repressioni volute dal famigerato Prefetto Basile (che avrebbe dovuto partecipare al congresso missino) sono ancora nella memoria viva della popolazione. E qui arriva l’imprevedibile.
L’evento che coglie di sorpresa il governo, i fascisti, ma anche, nonostante la retorica degli anni successivi, i partiti di sinistra. Ovvero la rivolta di Genova.
Ad accendere la miccia è nientemeno che Sandro Pertini, grande agitatore di folle, con un comizio in piazza della Vittoria il 28 giugno.
Il 30 giugno, giorno dello sciopero generale contro la presenza del Movimento Sociale, divampa la rivolta. Una rivolta durissima, che mette in seria difficoltà le Forze dell’Ordine che subiscono, anche “militarmente”, una pesante sconfitta. Il PCI (ma anche il PSI), colto di sorpresa ma ancora capace di leggere le tensioni presenti nella società italiana, intuisce l’importanza del momento e butta nella mobilitazione la sua forza organizzativa.
Il governo Tambroni sembra frastornato e in qualche modo umiliato dalla sconfitta patita sulla piazza di Genova e tenta di recuperare chiudendosi a riccio e lasciando briglia sciolta alle repressione più feroce. Il 6 luglio, una mobilitazione antifascista a Porta San Paolo (già luogo di aspri combattimenti nel 1943 tra nazisti e chi si opponeva alla cattura della capitale), con presenti decine di parlamentari dei due maggiori partiti di sinistra, è violentemente repressa con una tristemente nota carica a cavallo. Ma il peggio doveva ancora venire.
Il 7 luglio, a Reggio Emilia, le Forze dell’Ordine, senza alcun rischio imminente e concreto, aprono il fuoco contro una manifestazione antifascista uccidendo 5 operai.
L’emozione nel Paese è enorme, soprattutto in una regione come l’Emilia-Romagna dove i ricordi della Resistenza sono ancora fortissimi e tanta la voglia di rispondere “pan per focaccia agli sbirri” (cosa assolutamente fattibile per chi ha un po’ di conoscenza storica di quei luoghi).
L’Italia sembra essere sull’orlo del precipizio. La rivolta si estende anche nel meridione dove, più che l’antifascismo, a motivarla sono la povertà e le precarie condizioni di vita di ampie fette della popolazione. Morti anche in Sicilia quindi. L’8 luglio il Presidente del Senato, il democristiano Merzagora, propone una “tregua di due settimane” che servirà a lanciare il sasso nello stagno democristiano.
Mentre Tambroni, sempre più isolato e applaudito dai soli fascisti, rivendica la correttezza della repressione, il suo partito, la DC, inizia a ragionare sul modo per scaricarlo. Il governo inizia progressivamente a perdere pezzi e fiutando il vento che cambia, con il tipico giro di valzer trasformista, una serie di ministri saltano sul carro del vincitore lasciando Tambroni da solo.
Il governo naufraga definitivamente il 19 luglio. Da lì, per Tambroni, visto nel suo partito un po’ come un reietto e soprattutto, cosa imperdonabile, come un perdente, si avvia un rapido declino politico e fisico che lo porterà alla morte nel giro di 3 anni.
Come detto all’inizio, l’interpretazione dei fatti dell’estate ’60 può essere diametralmente opposta a seconda delle lenti che si indossano per leggerli. Si può vedere il bicchiere mezzo vuoto, e interpretarli come l’evento che diede il via alla progressiva cooptazione dei socialisti al governo (il centro-sinistra nascerà nel 1962) rompendo il fronte di sinistra. Una cooptazione che proseguirà negli anni Settanta con i governi di unità nazionale DC-PCI e che, come dicevamo all’inizio, “cambierà tutto perché niente cambi”.
D’altro canto però, si può vedere la rivolta del ’60 anche con lenti positive, ovvero come un’esplosione capace di stoppare una svolta autoritaria (storicamente tutt’altro che improbabile) in corso e di avviare un’apertura verso una parte del Paese fino a quel momento esclusa dalla condivisione del potere politico e foriera di alcune delle più importanti riforme della storia d’Italia.
Che si voglia scegliere una chiave interpretativa o l’altra una cosa è certa. Nell’estate del 1960 si manifesta per la prima volta il protagonismo (e inizio di scollamento dalle strutture tradizionali della sinistra operaia) di una fetta consistente di fasce giovanili, che si ripeterà anche a Torino nel 1962 con la “battaglia di piazza Statuto” per poi esplodere a fine anni Sessanta, dando vita al “decennio rosso” italiano. Un protagonismo che potremmo chiamare con due parole, entrambe scritte con iniziali minuscole: autonomia operaia.
Tag:
1960 antifascisti democrazia cristiana fascisti genova morti msi reggio emilia repressione rivolta tambroni