Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (quarta parte)
Il 25 Novembre è la giornata contro la violenza di genere e la violenza maschile sulle donne.
Come collettiva transfemminista queer partecipiamo e contribuiamo come ogni anno alle iniziative, azioni e mobilitazioni messe in campo dal Movimento di NUDM e del nodo milanese.
Quest’anno abbiamo deciso di fare un passo oltre e unire le nostre voci, raccontarci.
La pagina ospiterà riflessioni e racconti riguardo la violenza di genere e tutti i modi in cui si manifesta e le conseguenze che può avere, in modo diverso, su ognun* di noi.
Partiamo da noi perché non ci arroghiamo il diritto di parlare per altr* ma con l’auspicio che questo permetta a chi è sopravvissut* di sentirsi legittimat* a narrarsi.
Crediamo che la condivisione sia strumento per svelare la realtà sommersa delle violenze e trasformare la percezione spesso sminuente e minimizzante che si ha delle stesse.
Crediamo anche che siano strumento utile per creare alleanze ed empowerment.
Invitiamo chiunque voglia a partecipare, scrivendoci un messaggio alla pagina, perché tutte le storie possano avere spazio e la libertà di essere raccontate.
P.S. Questo è uno spazio safe e di rispetto.
Qualsiasi commento giudicante, stereotipo, pregiudizio, qualsiasi hater verrà bannat* senza pietà, perché con certa gente non si discute neanche.
Consigliamo nel caso di seguire gruppi come Maschile Plurale o di rivolgersi a Centri d’ ascolto per persone maltrattanti.
Mi hanno detto di scrivere, mi dicono di scrivere da sempre. Me lo dicono tutt*, me lo dico anche io che scrivere è l’unico reale processo di catarsi che il mio corpo riesca a produrre. Vorrei riuscire a scrivere con la stessa spontaneità con cui ho sempre messo nero su bianco ogni mostro che si presentava in questa testolina un po’ troppo iperattiva. Ma sono due anni che ho smesso di farlo. Sono due anni che guardo lo schermo del mio pc, la pagina bianca del mio quadernetto, qualsiasi superficie atta a conservare i miei personalissimi rigurgiti emotivi. Mi sale il panico, sento l’ulcera che spinge sulla bocca dello stomaco. Per forza di cose mi fermo e devo rilassarmi. Spesso e volentieri la calma passa attraverso poco meno di mezzo grammo di erba, grindato e unito a del tabacco da fumare. Calmo l’ulcera così da quando ho 15 anni.
Forse è difficile scrivere anche perché non so da dove partire esattamente: sono una sopravvissuta? Non lo so, non mi sento che “sopravvissuta” possa essere il termine più adatto per descrivere come la mia vita sia stata plasmata dalla violenza che ho subito. Piuttosto mi pare di averla vissuta, di esserne terrorizzata e di averla metabolizzata in silenzio in una miriade di modi diversi che hanno poi fatto di me quella che sono. Dall’altra parte non voglio e mi rifiuto di credere che quell’esperienza sia io, che quel ricatto di potere tra bambini possa definire al 140% la mia persona, i miei desideri e il mio carattere. Su qualcosa ha avuto effetto, non ci sono dubbi.
Avevo sette anni ed era una domenica d’estate come una delle tante in cui ci sarebbe stato un pranzo con tutta la famiglia: gli zii, i nonni, i cugini. C’è da dire che la mia è una di quelle famiglie agiate e molto unite: noi cugini siamo cresciuti tutti assieme come se fossimo fratelli. E come se fossimo fratelli abbiamo giocato e ci siamo fatti del male tutti assieme. Mio cugino maggiore aveva 11 anni ed era appena tornato dal suo primo viaggio studio con l’Inpdap. Era tornato con le mèche bionde ma ancora non aveva superato la prepubertà e questo lo si notava dalla voce da mezzo baritono che ancora aveva. Quello era stato il suo primo viaggio da solo: la prima volta in cui un ragazzino si sente grande abbastanza da esplorare i segreti sessuali a cui la società gli vieta l’accesso.
Mio cugino era tornato con un sacco di informazioni di cui non poteva chiedere conferma a nessuno, perché nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di spiegare ad un bambino come funziona il corpo umano, oggi come allora (purtroppo) si affidava questo tipo di conoscenza ai racconti fantasiosi di qualche ragazzino più grande, ai porno o ad un certo tipo di giochi che a volte si tramutavano in abusi.
La storia della prima violenza che ho subito sul mio corpo parla esattamente di questo: mio cugino che torna dal primo viaggio studio con l’irresistibile curiosità di sapere cosa è una clitoride e dove trovarla con precisione.
“Vuoi fare un gioco che ho imparato in viaggio? Però non lo devi dire a nessuno, possiamo giocarci solo io e te, e dobbiamo farlo in bagno”.
Io avevo sette anni e tutto quello che volevo era poter essere inclusa nel mondo dei giochi di mio cugino che aveva 4 anni più di me, e a quell’età la differenza la senti, te la fanno sentire. Tu sei il piccolo tu il grande, tu devi elemosinare attenzioni nei confronti di qualcuno che è già abbastanza grande per giocare da solo e per far finta di essere un po’ più vicino a quel mondo dei grandi a cui tu per adesso non hai manco la possibilità di sperare di arrivare. Hai sette anni. Ti devi stare.
“Sì giochiamo!”.
Quella domenica prima di pranzo è stata la prima volta che mio cugino ha cercato di capire come fosse fatto una clitoride cercandola sotto le mie mutandine coi fiocchetti gialli. Io rimasi immobile, mi vergognavo a chiedergli di smettere – non sarei più stata la cuginetta abbastanza matura da poter avere questo gioco con lui – mi vergognavo anche del fatto che mi facesse male – non sarei stata più forte abbastanza per essere accettata nel mondo dei bambini di 11 anni – quindi cominciai a fissare fuori la finestrella del bagno e cominciai a convincermi di non trovarmi li in quel momento. Guardavo fuori dalla finestra ed iniziai ad inghiottire il vuoto. Cosa che continuo ancora spesso a fare quando vorrei far finta di non essere su questo mondo. A sette anni ho imparato per la prima volta a non ascoltare il mio corpo, e questa cosa sarebbe successa un sacco di altre volte durante tutta la mia vita. L’esplorazione sul mio corpo è andata avanti per un po’, gli ultimi tempi il gioco si era allargato anche ad una terza persona.
“Se vuoi giocare con noi puoi farlo così e basta, perché tu sei femmina e noi siamo maschi e non puoi giocare ad altro con noi”.
Non so quale sia stato il motivo per cui questo gioco di potere sia finito, ma dopo un paio di mesi ricominciai a giocare solamente con le mie cuginette più piccole. I “grandi” non avevano più voglia di giocare con me.
Il tempo passa, e io cresco non raccontando a nessuno quello che mi è successo. Oggi – a posteriori – cerco di razionalizzare e giustificare il mio silenzio con un senso di duplice vergogna: da una parte lo stigma della “perversione” per una bambina di sette anni, dall’altra quella della “debolezza” di non essere riuscita a dire di “no” nel momento in cui non lo volevo. Non sembra possibile, ma la società influenza soprattutto le bambine sin da subito.
Arrivo ai tredici anni e sono fidanzata con un ragazzino del mio quartiere: le nostre famiglie si conoscono da una vita e lui si era dichiarato con un telefono a forma di cuore per poterci chiamare la sera prima di andare a dormire. Facciamo parte di una comitiva di amici che si conoscono da altrettanto tempo e che sono in fissa col bruciare le tappe: siamo la generazione del tutto e subito.
Quando la prima coppia del nostro gruppo fa sesso per la prima volta tutti lo sanno e questo crea una reazione a catena per cui anche tutte le altre coppie devono farlo.
Il 14 gennaio 2011 il ragazzo con cui stavo decide che era arrivato il nostro momento: abbiamo a disposizione casa di amici e lui è uno dei più grandi del gruppo, non può essere l’unico che ancora non ha perso la verginità. Andiamo in camera, siamo molto goffi, si mette il preservativo, mi fa malissimo, non entra completamente ma so che non si sarebbe fermato senza aver raggiunto l’obiettivo. Spinge più forte e io soffocata dal suo peso gli sussurro dissimulando il pianto: “Sei dentro, l’abbiamo fatto non siamo più vergini”. A lui non interessa neanche venire, esce dalla stanza da letto e prende una coppa in mano mimando Grosso con la coppa dei Mondiali “CAMPIONI DEL MONDO”. Io sono ancora nel letto a castello a guardare il soffitto e con lo stomaco che va a fuoco: mi sono staccata dal mio corpo per non sentirlo, di nuovo. Questa volta però ho 13 anni e sono un po’ più consapevole che questo avrà delle conseguenze. La prima volta reale capita più avanti nel tempo, sempre con la stessa persona, ma con molta più cognizione di causa e poco più consenso. Tento il suicidio l’estate successiva durante un viaggio studio all’estero. Mi salva la mia compagna di stanza polacca. Torno in Italia. Non dico nulla ai miei gentori. Lo rifarò l’estate successiva e mi salverà sempre qualcun* capitat* nel posto e al momento giusto.
Questa volta decido di iniziare analisi ma non racconto neanche in seduta cosa mi è successo a sette anni, invento un altro trauma: si chiama Alex ed è un ragazzo la cui morte mi ha scombussolata. Non esiste nessun Alex, ma la mia psicologa mi crede.
La mia vita continua con questo costante senso di distacco tra corpo e testa: la testa è più forte del mio corpo quindi io posso evitare di ascoltare il mio corpo e dire alla mia testa come si deve comportare. La psicologa ha detto che sono “patologicamente emotiva” e che a 15 anni non è normale avere un’ulcera provocata da stress “per cosa puoi essere stressata a 15 anni”, devo imparare a buttare fuori, altrimenti implodo. Inizio a fumare regolarmente e ad attivarmi a livello politico, effettivamente buttare fuori così mi fa stare bene. Continuo a non ascoltare il mio corpo, però. Mi ritrovo ad avere un sacco di rapporti sessuali che per la maggior parte delle volte hanno inizio con questo pensiero fisso nel mio cervello “beh certo che gliela devi dare, lui si aspetta questo, non puoi deluderlo. Poi alla fine ti piace, devi solo non pensarci”. Dovevo solo non pensarci, e alla fine era vero, quasi mi piaceva avere il senso di controllo sul mio corpo, almeno questo era quello che credevo: controllare la repulsione del corpo con le bugie di cui mi autoconvincevo. Essere all’altezza delle cazzate che io stessa dicevo a me stessa mi ha dato un senso di onnipotenza che col tempo ho poi sviluppato in contesti altri da quello sessuale.
Avevo – ho – il costante sentore di dover sempre soddisfare le aspettative altrui, soprattutto quelle del breve periodo, soprattutto se l’altro si aspetta effettivamente qualcosa. Ho imparato a presentarmi come la scatola di pandora da cui tutt* possono prendere quello che serve, quando serve.
Il “Dammi quello che vuoi io quel che posso” di De Andrè patologizzato sino all’osso. Non ho mai pensato che questo fosse un reale problema collegato a qualcosa che mi fosse successo: nella mia testa Alex è sempre stato il capro espiatorio per un “puro malessere borghese”, un malessere per cui effettivamente non c’è nulla di cui doversi lamentare ma comunque a 14 anni provi a toglierti la vita, due volte.
C’è una rabbia che covo dal fondo dello stomaco che non riesco a spiegarmi: canalizzo nella militanza politica ma continuo a non fidarmi della gente. Ho problemi con i complimenti disinteressati tanto quanto con quelli con un palese secondo fine. “Ma quanto sei bella” è una frase che mi dà ai nervi, a prescindere che mi sia detta in senso affettuoso che in senso estetico.
“Ma con quel bel visino a che ti serve studiare”,
“Sei proprio graziosa”,
“Hai degli occhi che trafiggono”,
“Punto alla simpatia, ma grazie”
è il diretto meccanismo di autodifesa verbale che mi sono creata.
Mi sento meglio solo quando vesto panni altrui, solo quando riesco a soffrire con e per altri: la militanza mi aiuta molto e probabilmente inizio a farla sempre più appassionatamente più per egoismo che per rispetto delle/nelle lotte.
Continuo ad elemosinare affetto attraverso i rapporti occasionali che ho, nonostante però non chieda mai nulla di esplicito: dammi quello che vuoi io quel che posso (leggi tutto), va bene così, ma fammi sentire che un po’ sono quello di cui hai bisogn*. Questo capita anche con le amiche, mai co* compagn* loro sono la mia safe zone ed è anche il motivo per cui evito come la peste di avere qualsiasi tipo di rapporto sessuale con persone di quell’ambiente.
Sono il mio salvagente, e non posso soffocare anche loro. Crescendo nella mia testa si crea un meccanismo per cui le persone con cui faccio sesso senza troppi drammi diventano le prime vittime sacrificali di un processo di autodifesa preventiva. Mi allontano subito. Allo stesso modo allontano anche chi percepisco mi veda come se fossi un libro aperto. Ho il terrore di essere nuda, ho il terrore che mi si possa esplorare così facilmente, di nuovo.
Due anni fa, poi, dopo altri due anni di percorsi sulla violenza di genere, l’escamotage del vestire i panni altrui non ha avuto più quell’effetto anestetico che ha sempre avuto. I racconti de* survivors erano anche i miei, ma questa volta per davvero. Mi riconoscevo in ogni insicurezza, in ogni trasalimento, in ogni dubbio raccontato e confessato. Anche loro inghiottivano il vuoto, ognun* di loro a modo proprio era stato costretto ad impararlo. Dopo 21 anni, per la prima volta racconto ad alta voce quello che mi è successo. Lo dico prima di tutto a mia sorella, lei si infuria per non avere più la possibilità di fare qualcosa. Mi promette di uscirne assieme, ma ancora ci stiamo lavorando.
Continuo a non ascoltare troppo spesso il mio corpo, ci sto provando , ma inevitabilmente incappo in qualche bug di sistema. Continuo a togliermi tutte le crosticine delle ferite e a fregarmene delle cicatrici che rimarranno sul mio corpo, continuo a non fidarmi della gente che mi circonda e mi sforzo di farlo nonostante ci siamo qualcosa alla bocca dello stomaco che mi dica di non farlo. Nel peggiore dei casi finisco ad arrampicarmi su di un albero dopo un bacio non desiderato.
E’ la prima volta che scrivo questa storia nero su bianco, per due anni ho avuto il timore di autocondannarmi circoscritta e conclusa in questa storia di violenza. Avevo paura di mettere nero su bianco e scoprire che fosse tutto anche più grande di quanto già non fosse nella mia testa.
Tuttavia dimenticavo che esistono dei mostri sotto al letto che muoiono quando accendiamo la luce, e più abbiamo paura di accendere la luce per vedere cosa sta sotto al letto, più il mostro nella nostra testa diventa enorme.
Autunno 2019: è sabato sera e ho voglia di ballare. Sono a bere qualcosa in un locale e incontro un vecchio amico, che non vedevo da un po’. Prendiamo qualcosa insieme. Lui si avvicina sempre molto, ma penso che è sempre stato un tipo molto fisico. Decidiamo di andare a ballare insieme. C’è la trash in un centro sociale vicino. Siamo in quattro: io, lui e due suoi amici. Sotto cassa mi diverto. Ne avevo bisogno. Ma poi appena i suoi amici escono per una sigaretta, lui tenta l’approccio. Allunga le mani e la lingua. Io lo respingo. Lo spingo proprio, gli dico No. Lui continua e dice: “Bhe tanto sei single, no? Qual’è il problema?”. Rispondo: “Cosa c’entra?”. Il problema è che vorrei scegliere io con chi limonare o da chi farmi mettere le mani addosso. Il problema è che anche se sono single vorrei scegliere io se mi va o non mi va. Ovviamente non riesco a dire niente di tutto ciò e alla fine qualche limone lui lo ricava lo stesso. Certo non mi cambia un granché. A me i suoi baci non piacciono. Mi stacco il prima possibile. Non cambia un granché, ma non ho potuto scegliere. Nei giorni successivi mi scrive. Decido di incontrarlo per spiegargli il mio punto di vista. Sbaglio di nuovo. Io ero uscita per dirgli la mia, lui per scopare. Al tavolo a cui siamo seduti, lui prova a prendermi la mano, io la tolgo e gli dico che sono infastidita. Poi parliamo e alla fine ne esce che sono io che sono suora e che non mi so divertire. Quando lui era in Svezia le ragazze scopavano e basta, senza troppe storie. Certo anche io ne sono capace, ma vorrei scegliere con chi. Niente qualsiasi spiegazione fallisce. Al parcheggio lui si aspetta ancora di svoltare la serata. Gli dico che può tenersi la voglia e me ne vado.
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (prima parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (seconda parte)
Verso il 25 novembre e oltre. Narrare la violenza a partire da noi (terza parte)
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