Calci e manganelli: la catena di montaggio della mattanza
La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un fascicolo per il reato di rivelazione d’atti d’ufficio: il motivo è chiarire chi ha passato i video ad alcune testate. Si tratta di parti tratte dalle telecamere di videosorveglianza del carcere, ore di riprese che documentano la «perquisizione straordinaria» al reparto Nilo del 6 aprile 2020 che il gip ha descritto come «un’orribile mattanza». I filmati, essendo l’indagine non ancora conclusa, non potevano essere diffusi: il codice vieta «la pubblicazione, anche parziale, degli atti coperti dal segreto» fino alla conclusione delle indagini preliminari.
L’inchiesta è coordinata da Maria Antonietta Troncone (che guida la Procura sammaritana) con il procuratore aggiunto Alessandro Milita e le pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto. Secondo i magistrati la perquisizione fu illegalmente disposta dal Provveditore regionale Antonio Fullone, in concorso con Maria Parenti (direttrice reggente), Arturo Rubino (vicedirettore), Roberta Maietta (dirigente aggiunto) e Salvatore Parisi (responsabile del reparto Danubio). Fullone, inoltre, avrebbe omesso di denunciare i fatti alla Procura e, invece, avrebbe richiesto «la redazione di atti postumi e falsi, depistanti, diretti a occultare le proprie e le altrui responsabilità». I pm avevano chiesto per lui i domiciliari, richiesta respinta (ma la Procura ha fatto ricorso). Il gip ha disposto la sospensione dal servizio accogliendo l’accusa di depistaggio e favoreggiamento.
Secondo il gip non è stata una semplice perquisizione e le immagini smentiscono che si sia trattato di una reazione degli agenti alle intemperanze dei detenuti: «Che la violenza costituisca con tutta probabilità una costante nel rapporto fra gli indagati e i detenuti lo si evince dai filmati – scrive il gip – Si nota che gli agenti in modo del tutto naturale compiono dei gesti quasi “rituali”, come nel caso in cui si dispongono a formare un “corridoio umano” e cominciano a picchiarli con estrema violenza, sebbene inermi». Negli atti dei pm c’è il racconto di come 15 detenuti, il 6 aprile, dal Nilo sono finiti al reparto Danubio, in punizione per 15 giorni.
Era nella cella 7, terzo piano Marco Ranieri. Sei agenti lo prelevano, viene trascinato lungo il corridoio. Alla scena assistono due ispettori e sei agenti che lo costringono a mettersi con le braccia alzate, contro il muro. Lo fanno spogliare e, nudo, è costretto a fare le flessioni. Tre nuovi agenti lo afferrano e lo portano al piano terra. Ranieri ha un tutore alla gamba, gli serve per camminare, glielo strappano via. Lungo le scale trova altri agenti, disposti su entrambi i lati, che lo prendono a schiaffi.
Arrivato alla rotonda del piano terra la responsabile del reparto Nilo, Anna Rita Costanzo (accusata anche di depistaggio), dice ai sottoposti «Ranieri le deve avere» così due agenti riprendono a colpirlo. Imboccato il corridoio, un altro agente lo manganella alla testa, alla schiena, al bacino, alle costole, al viso. Lo colpisce e gli ripete: «Tu e tutti i tuoi compagni dovete morire». Un altro agente lo afferra per la barba stracciandogliela, gli sputa addosso e lo colpisce al volto: «Sei il masto del Lazio? Lo vedi chi comanda qua?». In 15 lo accerchiano, gli sputano e continuano a colpirlo. Cade a terra, altre botte, feroci, alla testa, alla schiena, alle costole, al bacino, al volto con i manganelli e persino con una sedia.
Nell’area passeggio, il cosiddetto fosso, continuano infierire gridando «siete merda, tua madre è una zoccola che ti ha partorito in galera». Lo minacciano di morte «se avesse parlato». Dal fosso lo prendono in carico altri agenti che, alla presenza dell’ispettore Salvatore Mezzarano (sospettato di aver costruito false prove contro i detenuti), gli sputano addosso e giù altri calci, schiaffi, pugni. Arrivato all’ufficio di sorveglianza, viene colpito al capo e al corpo. Lungo il corridoio verso la sua nuova cella altri sputi, pugni, calci alla testa e alla schiena. Nei pressi del cancello del Danubio lo afferrano e gli sbattono più volte la testa contro il muro, un colpo di manganello gli fa cadere un dente e perde i sensi.
Antonio Flosco era nella cella 13, III sezione, secondo piano del Nilo. Anche lui si deve spogliare per la perquisizione. Schiaffi, calci allo stomaco, pugni, manganellate alla testa, alla schiena e alle gambe prima di essere trascinato in corridoio dove oltre 20 agenti lo circondano per il pestaggio. Lo trascinano fino all’ingresso delle scale utilizzate dalla Polizia Penitenziari (non coperte dalle telecamere) e lo colpiscono alla testa e al corpo. Lungo la scalinata subisce una nuova dose di colpi dagli agenti su due file. Alla rotonda del piano terra lo trascinano nel corridoio che porta agli altri reparti.
Riconosce il Comandante della polizia penitenziaria Gaetano Manganelli (che durante l’interrogatorio di garanzia ha fatto mettere agli atti di non essere tra coloro che hanno «gestito, diretto e organizzato» la perquisizione), Costanzo e Mezzarano: davanti a loro viene colpito con pugni, schiaffi e calci. All’interno della stanza presso l’ufficio matricola perde i sensi. Un alto detenuto, Bruno D’Avino, chiede agli agenti una bottiglia d’acqua per soccorrerlo, «beviti l’acqua del cesso» gli rispondono e gli sputano in bocca.
È nella stanza matricola che Flosco subisce un’ispezione anale con lo sfollagente. Gli agenti gli dicono di non sporgere denuncia «altrimenti non avrebbe avuto una vita tranquilla in carcere». Al Danubio ritrova Manganelli, gli chiede aiuto: «Portatevelo, portatevelo» la risposta. La sera nessuno lo visita né gli danno la terapia. La sua cartella clinica recita: ipertensione, cardiopatia ischemica con pregressi infarti, epilessia, deficit psichico con episodi di autolesionismo.
di Adriana Pollice
da il Manifesto dell’8 luglio 2021
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