Civil war: bello, ma la politica?

Uno spettro si aggira per gli Stati Uniti, quello della guerra civile. Mai come in questo periodo il rischio di un nuovo conflitto fratricida in grado di dilaniare la massima potenza mondiale come accadde tra il 1861 e il 1865 è dibattuto all’interno della società americana.
Dopo l’assalto al Congresso del gennaio 2021 tutto sembra ormai possibile e molti parlano delle elezioni presidenziali di novembre come di un passaggio decisivo nella storia degli States. Questo gran parlare di guerra civile è, forse, un modo di esorcizzare le crescenti paure e proprio Civil War è il titolo del film di Alex Garland che negli States ha conquistato i box office scatenando discussioni e polemiche.

Il film è ambientato in un distopico futuro prossimo in cui gli Stati Uniti sono sconvolti da un sanguinoso conflitto civile tra gli stati fedeli a un presidente arrivato al suo terzo mandato, un’alleanza tra California e Texas che costituisce le Western Forces, la Florida che pare combatta per sé e alcuni stati dell’Ovest di cui si racconta poco.

La pellicola si apre con un discorso vuoto e retorico del presidente che annuncia severe perdite inflitte alle Western Forces; poco dopo veniamo a sapere che, in realtà, le forze lealiste stanno per essere sconfitte e Washington sta per cadere. Di questo presidente presentato immediatamente come un bugiardo sappiamo ben poco. Non conosciamo le sue posizioni politiche, ma sappiamo che è al suo terzo mandato, cosa attualmente illegale negli Stati Uniti poiché dopo le quattro presidenze Roosevelt i mandati presidenziali sono stati ridotti a due. Il fatto che sia al terzo mandato, così come tanti altri indizi disseminati lungo la narrazione, fa presupporre una forzatura autoritaria.

In questo scenario quattro giornalisti, partendo da una New York scossa da attentati, razionamenti e blackout energetici, dovranno percorrere la strada che li separa dalla capitale dove cercheranno di strappare un’intervista al presidente sull’orlo del rovesciamento e che, veniamo ha sapere, ha avuto il “coraggio” di far bombardare i suoi cittadini.
I giornalisti che stanno per intraprendere il pericoloso viaggio sono Lee, celebre fotoreporter di guerra, Joel, corrispondente della Reuter e “socio” di Lee, Sammy, penna veterana del New York Times e mentore di Lee, e la giovanissima Jessie, aspirante fotografa alle prime armi.
Uno dei primi elementi stranianti è che i protagonisti del film, pur essendo giornalisti, lungo tutta la narrazione non raccontano nulla del perché si sia scatenata una guerra civile nel loro Paese. Tutto resta vago e nebuloso e l’unico obiettivo sembra ottenere la foto o l’intervista “definitive”. Come a rappresentare la crescente incapacità dei media di affrontare l’attualità scavando oltre la superficie del qui e ora per affrontare le ragioni profonde.

Da New York i nostri personaggi principali inizieranno l’attraversamento dei diversi gironi danteschi della nuova guerra civile americana. Il tutto in una serie di tappe apparentemente scollegate e svuotate di senso: scontri e violenze isolate e atomizzate; singoli fotogrammi apparentemente privi di significato. Manca, in sostanza, la “grande narrazione” della storia con la S maiuscola.
La scena più forte e più vera, in cui qualcosa di politico finalmente emerge e che porterà a una svolta negli avvenimenti, si ha quando i nostri incappano in alcuni soldati intenti a scaricare da un camion i cadaveri di decine di civili giustiziati in una fossa comune, mentre l’ufficiale che li guida li ricopre di calce viva. Qui inizierà, in un climax ascendente, uno snervante dialogo tra l’ufficiale e i giornalisti, di fatto prigionieri e tenuti sotto la minaccia delle armi, sul luogo di provenienza di ciascuno di essi e sull’essere “veri americani”. La vita o la morte dipenderà dalla risposta data a una semplice e banale domanda.

Da qui il film scivola alla lunga e testosteronica fase dell’attacco finale a Washington e alla Casa Bianca, con un finale in qualche modo simile a quello che spesso si è ripetuto nell’ultimo secolo dall’Italia alla Libia, passando per la Romania.

La prima domanda che sorge spontanea è quale sia il vero tema del film: la guerra civile o il mestiere del giornalista (o meglio “il declino del mestiere del giornalista”)? Perché, in fondo, sono i personaggi i veri motori della narrazione, con le loro forze, debolezze e, soprattutto, con il loro istinto da iena per la notizia o l’immagine (e proprio su questo tema si avrà la trasformazione totale della giovane Jessie), ma tracciati comunque con uno sguardo compassionevole e non giudicante.

Il secondo dubbio riguarda la dichiarata volontà del regista di non prendere apertamente posizione sulle diatribe che dividono gli Stati Uniti di oggi, non si sa se per essere – come i “suoi” giornalisti protagonisti del film – “osservatore neutrale” o per non scontentare una parte di pubblico. La volontà di allontanare l’attualità sembra essere stata talmente forte da spingerlo a proporre un’alleanza assolutamente improbabile tra California e Texas. L’effetto straniante dovuto al non spiegare il perché di quello che sta succedendo è garantito, forse nel tentativo di affermare che una volta iniziato il massacro le ragioni iniziali tendono a scolorire.

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