La maledizione di piazza Fontana – Quello che è stato, quello che poteva essere

Arriviamo lunghi rispetto all’anniversario della strage del 12 dicembre ’69 recensendo “La maledizione di piazza Fontana” (Chiarelettere) di Guido Salvini con Andrea Sceresini. Ci scusiamo di questa mancanza, ma i libri prodotti per questo 50° anniversario dell’eccidio sono stati (per fortuna) molti e a volte molto corposi.

Il libro di Salvini e Sceresini è stato tra gli ultimi a uscire e ha avuto un ottimo riscontro di vendite. Del resto, la figura di Salvini si discosta un po’ dai tanti che si sono cimentati nello scrivere sulla vicenda e che in diversi casi hanno dato vita ha ottimi prodotti.  La sua è infatti una figura di osservatore privilegiato e in qualche modo interno a questa tragica storia.

Salvini, infatti, è stato il giudice istruttore (una figura cancellata dalla riforma del Codice Penale del 1989) dell’ultimo processo istruito sulla strage di piazza Fontana. Un’indagine iniziata nei primi anni Novanta e che ha portato, nel 2000, a un nuovo processo che ha visto sul banco degli imputati gli ex-ordinovisti veneti Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e il neofascista milanese Giancarlo Rognoni del gruppo La Fenice. Dopo una condanna in primo grado il 30 giugno 2001, i fascisti sono stati assolti in appello il 12 marzo 2004 e definitivamente in Cassazione il 3 maggio 2005. Si tratta della famosa sentenza che ammette la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (altri ordinovisti veneti) per la strage con l’impossibilità però di punirli poiché già assolti in via definitiva per lo stesso reato negli anni Ottanta.

È evidente che per il giudice Salvini la questione piazza Fontana è una ferita ancora aperta. Da qui la maledizione che compare nel titolo. Una ferita che gronda ancora sangue, tanto da aver spinto il magistrato a proseguire, da privato, una poderosa raccolta di informazioni e ricerca della verità una volta chiusi i processi a metà anni Duemila.

Una foto dell’archivio del fotografo Fabrizio Garghetti recentemente resa pubblica e scattata pochi minuti dopo la strage all’interno della banca

La scrittura e la narrazione sono coinvolgenti, soprattutto per chi è patito di vicende storiche con riscontri giudiziari. Ciò che emerge con chiarezza sono alcuni punti fermi fondamentali.

Il primo riguarda i rapporti di contiguità e a volte di aperta collaborazione tra i servizi segreti italiani e l’estrema-destra in funzione anticomunista. Come spesso capita, gli apparati erano ben informati della strategia fascista e hanno “lasciato fare” (come sostenuto dallo stesso Salvini in un’intervista a “Il Manifesto” dell’11 dicembre 2019) per vedere di ottenere qualcosa di utile. La manovalanza fascista però è andata ben oltre quelli che potevano essere degli attentati “dimostrativi” tesi a “destabilizzare per stabilizzare”, arrivando al massacro del 12 dicembre. Non è un caso che per il 14 dicembre fosse prevista una grande manifestazione del Movimento Sociale Italiano a Roma, che fu ovviamente vietata all’ultimo momento. Quell’iniziativa sarebbe probabilmente stata la famosa goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso portando alla dichiarazione dello stato d’emergenza. Non va infatti dimenticato il fallito attentato, sempre del 12 dicembre 1969, alla Banca Nazionale del Lavoro di Roma. E non è un caso che il SID (Servizio Informazioni Difesa) sia stato così pronto a insabbiare e depistare dopo i fatti, ma su questo torneremo più avanti.

Il secondo punto fermo è che si conoscono ormai quasi tutti i nomi e cognomi legati all’ambiente neo-fascista che ha messo in atto la strage. Probabilmente, se oggi si svolgesse un nuovo processo capace di non frammentare tutti gli indizi, ma tenerli insieme in una narrazione coerente, quasi tutti i ruoli emergerebbero con una certa chiarezza. Va ricordato che per l’inizialmente oscura strage di Brescia del 28 maggio 1974, che fece 8 morti e 102 feriti durante un comizio antifascista, si è arrivati a una sentenza definitiva di condanna per gli ordinovisti Carlo Maria Maggi (guarda caso già imputato per la strage di Milano) e Maurizio Tramonte. La Procura di Brescia ha tratto molti spunti investigativi dall’indagine di Salvini e per lo stesso giudice milanese ha dimostrato ben più della Procura di Milano la volontà di raggiungere la verità giudiziaria su quei fatti.

A parere di chi scrive le scene più vivide del libro sono due. La prima è la descrizione del mondo dell’estrema destra veneta e milanese di fine anni Sessanta e primi anni Settanta. Inutile negare che le pagine dedicate a San Babila, per un milanese, vengono lette sempre con un maggiore interesse.

La seconda è il viaggio in Sudafrica per intervistare la figura acuta del generale Maletti. Figlio di un fascistissimo generale responsabile di diversi massacri in Etiopia e morto combattendo sul fronte africano, capo del controspionaggio del SID fuggito in Africa e condannato in via definitiva per i depistaggi relativi alle bombe del 1969. Un uomo degli apparati che dice e non dice, ma che si lascia andare a due frasi lapidarie: “Gli autori delle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia appartengono alla medesima covata” e, “I fatti andarono così: i pulcini del 1969 fecero da chiocce a quelli del 1974”. Più chiaro di così!

Proprio dalla descrizione della fascisteria milanese emerge l’interessante figura dell’Antiquario. Un rapinatore di banche, militante sanbabilino degli anni Settanta e processato per i fatti del giovedì nero di Milano dell’aprile 1973. Proprio questa figura ci porta a due degli elementi più suggestivi dell’intera narrazione: la possibile esistenza di un filmato fatto sparire che documenta le fasi della strage e la figura di un fascista veronese, il Paracadutista, sulla quale si sono accesi i riflettori lo scorso dicembre con una serie di articoli di Gianni Barbacetto e che sarebbe colui che avrebbe materialmente deposto la bomba nella banca. Una possibile nuova pista su cui è immediatamente calato il sipario perché il personaggio citato è da poco scomparso.

L’ultima parte della narrazione, forse troppo lunga e a cui noi avremmo forse dedicato un libro a sé stante, racconta la guerra di tanti nomi noti della magistratura di Milano e Venezia contro l’indagine di Salvini vissuto come battitore libero fuori dagli schemi e dalle correnti.

Viene dunque aperto uno squarcio tra l’imbarazzante e l’inquietante su quello che succede nei corridoi della Procura di Milano, con uno scontro di ego di grosse proporzioni fatto di gelosie e antipatie personali. Diciamo che alcuni mostri sacri di Mani Pulite non ne escono propriamente in modo brillante e che quanto viene narrato in questo libro non testimonia a favore di persone che devono decidere su un bene supremo come la libertà degli esseri umani.

Al di là di queste considerazioni, un’opera poderosa che non può mancare nella biblioteca di chi si interessa delle vicende di casa nostra tra gli anni Sessanta e i giorni nostri.

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