“Stalingrado”, quando uno scrittore dà voce a un intero popolo

“Fame e macerie sotto i mortai,
come l’acciaio resiste la città”
(Stalingrado, Stormy Six, 1975)

Per una tragica e cupa ironia del destino la scorsa primavera, mentre russi e ucraini si massacravano sui campi di battaglia, è uscita per Adelphi la traduzione di Stalingrado di Vasilij Grossman, una corposa opera letteraria che ha come palcoscenico la città sul Volga all’epoca della Seconda Guerra Mondiale intitolata a Stalin e oggi chiamata Volgograd, che è stata sede di una delle più sanguinose e decisive battaglie del conflitto combattuta tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943. Tuttavia ogni aspetto del romanzo, nella storia personale di Grossman così come nelle vicende e nei personaggi narrati, ci riporta costantemente alla tragica attualità dei giorni nostri.

Grossman nasce nel 1905 a Berdyčiv, una cittadina dell’Ucraina occidentale, da una famiglia di origine ebraica. Dopo essersi laureato a Mosca come ingegnere chimico inizia a lavorare in quella che allora si chiamava Stalino e oggi è nota al mondo come Donetsk, una delle città più importanti del Donbass e crocevia delle mille cause e interessi che hanno condotto all’attuale conflitto. Grossman è stato corrispondente di guerra per “Krasnaja Zvezda” (Stella Rossa), il giornale dell’Armata Rossa, accompagnando i soldati sovietici dalla feroce e disperata difesa sulle rive del Volga fino al trionfo di Berlino nella primavera del ’45. Dopo la campagna antisemita dell’ultimo Stalin entra in conflitto con il regime sovietico e, pur essendo riuscito a pubblicare il suo romanzo sull’importantissima rivista “Novyj mir” nel 1952, diventa elemento indesiderato per le autorità moscovite, rimanendolo fino alla sua morte avvenuta nel 1964.

Stalingrado, senza timore di smentita, è un romanzo eccezionale capace di rapire l’attenzione del lettore dalla prima pagina. L’apertura non può che essere epica e struggente: un contadino di un paesino sperduto dell’immenso impero dei soviet, indurito dalle fatiche della vita quotidiana, riceve una lettera: la chiamata alle armi. Un romanzo di guerra russo non può che iniziare così.

Il primo aspetto che colpisce di Stalingrado è come molti dei luoghi citati siano gli stessi che abbiamo sentito citare in questi mesi sanguinosi: Kiev, dove nel 1941 l’Armata Rossa subì una gigantesca sconfitta a opera della Wermacht tedesca in quella che viene considerata la più grande battaglia di accerchiamento (da lì la celebre “sacca di Kiev”) della storia militare. Odessa, città portuale dinamica e cosmopolita dove tra il 22 e il 24 ottobre 1941 le SS, con la fattiva collaborazione degli alleati rumeni, sterminarono tra i 25.000 e i 35.000 ebrei residenti nella città. Kharkov, città ucraina dove si svolsero ben quattro sanguinose battaglie tra il 1941 e il 1943 e che passò più volte di mano tra nazisti e sovietici. Poi Sebastopoli, con il suo assedio e la sua resistenza, e tanti altri luoghi ancora.

L’opera di Grossman, che ha inizio nei mesi precedenti l’arrivo dei tedeschi sul Volga dopo la grande offensiva dell’estate ’42 (e dopo che Mosca non era caduta nel dicembre ’41), è un potentissimo romanzo corale, capace di dare parola a personaggi diversissimi sia per estrazione sociale che per cultura, carattere e storia personale: ognuno si esprime con un registro linguistico diverso. Grossman raccoglie dunque l’eredità di un gigante della letteratura russa come Lev Tolstoj. E non è un caso che Stalingrado, insieme a Vita e destino che è la sua prosecuzione, sia da molti paragonato, a ragione, a Guerra e pace. Lì l’invasione napoleonica della Russia del 1812, qui l’invasione nazista dell’Unione Sovietica del 1941. Due guerre fondamentali per la storia di quelle terre, capaci di lasciare nella memoria di ogni famiglia un segno indelebile. E per una gran parte del libro si sente questo rischio incombente sempre più vicino e inevitabile: l’arrivo dei tedeschi che, alla fine, arrivano.

Altro aspetto che incolla il lettore al libro è il racconto di come ognuno dei personaggi principali abbia vissuto il giorno che ha sancito la fine della pace e l’inizio della spietata guerra di annientamento voluta da Hitler contro quelli che considerava “subumani”: il 22 giugno 1941.

Dicevamo che l’opera di Grossman è un vero romanzo corale, dove ogni personaggio, anche il più piccolo, trova il suo spazio e la sua dignità. Ma è anche un’opera simile all’Odissea omerica e, in questo caso, l’Ulisse di Grossman è Nikolaj Grigorevic Krymov, cupo commissario politico dell’Armata Rossa che vediamo impegnato in continue peregrinazioni da un lato all’altro di un vastissimo fronte in continua evoluzione. A tenere insieme quest’opera colossale un brillante, seppur non particolarmente originale in sé, artificio letterario: una lettera che passa di mano in mano per migliaia di chilometri e che, per lungo tempo, non viene aperta.

Se Grossman è capace di provare compassione per tutti i suoi personaggi, anche quelli moralmente peggiori (quelle che chiameremmo le “anime nere”), è sorprendente anche l’asciuttezza con cui ne racconta la morte in poche righe. Senza fronzoli o poesia, nessun suono di violini in sottofondo. La morte in guerra ha assai poco di quel romanticismo a cui in tanti ci hanno abituato.

Dalle righe del romanzo emerge non solo la potenza dello spirito patriottico russo che tende a riemergere come una costante storica ogni volta che il Paese è invaso, ma anche la potenza, almeno per una parte (consistente, checché molti in Occidente ne abbiano detto) della popolazione, dell’ideologia comunista in cui un “noi” superiore è il fine più alto per il quale il sacrificio dei singoli, di milioni di singoli, sembra essere un aspetto secondario. In fondo è il combinato disposto di queste due potenti forze che ha consentito all’Unione Sovietica di resistere alla più terribile guerra d’aggressione e sterminio della storia umana, che ha causato tra i 20 e i 25 milioni di morti. E questo emerge in ogni singola pagina del libro.

Grossman, come tutti i grandi scrittori russi, ne esce come vera e propria coscienza del suo popolo. E come tutti i grandi scrittori russi anche lui ha avuto problemi con il potere politico di turno: che sia rappresentato dallo Zar, dal Segretario Generale del Partito Comunista o da Putin poco importa, l’ancestrale ottusità e diffidenza  dei vertici ha sempre portato a confondere la grandezza immortale della letteratura russa con un problema per la sicurezza del famigerato gasudarstvo, ovvero lo Stato.

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