La manfrina di Renzi e l’assalto alla diligenza del Recovery Fund

E se alla fine, come spesso succede nel Belpaese, la montagna partorisse il topolino?

Sono settimane, per non dire mesi, che Renzi spara a palle incatenate contro l’Esecutivo di cui fa parte e che, nel surreale agosto 2019, ha contribuito a fondare dopo il “suicidio del Papeete” di Matteo Salvini. Un Renzi, insomma, “di lotta e di Governo”, dove con “lotta” non ci si riferisce certo al conflitto sociale, ma alla difesa a spada tratta degli interessi costituiti.

Dopo settimane di affondi quotidiani, però, all’improvviso e quando sembrava che si dovesse arrivare alla resa dei conti, ecco che il leader di Italia Viva e i suoi iniziano a cincischiare e tirare alle lunghe. Saranno i sondaggi elettorali che, dopo la non proprio esaltate prestazione alle amministrative di settembre, continuano a non sorridere. Sarà che Renzi ha fiutato l’aria che tira e ha capito che, con buona probabilità, se facesse cadere il Governo incorrerebbe nell’ira di quasi tutto l’elettorato di centro-sinistra. Sarà che i tentativi di costruire il tanto agognato “Governo di unità nazionale” sono per ora naufragati di fronte all’insofferenza di Mattarella e al no deciso di Giorgia Meloni.

Saranno tutti questi fattori insieme, ma è fuor di dubbio come negli ultimi giorni l’ex-Presidente del Consiglio (passato in 6 anni dal 40% all’attuale 3%) abbia tirando il freno a mano. Oggi, per esempio, ha reso pubblica una lunga lettera che anticipa l’incontro di questa sera con il Presidente del Consiglio. Al suo interno, sono elencati i punti ineludibili per Italia Viva, vale a dire: non far gestire i 209 miliardi di euro del Recovery a una task force (tra l’altro chiesta proprio dall’Europa), l’accettazione del Mes e la questione della delega sui servizi segreti. Nella lettera, giusto per dare una stoccatina, è citata anche una frase del convitato di pietra dell’intera vicenda: Mario Draghi.

L’impressione concreta è che, caduto il veto di Polonia e Ungheria, ora che il mare di soldi del Recovery sta per arrivare gli appetiti si stiano facendo sempre più impellenti e che ognuno voglia giocare la propria partita in difesa degli interessi che in qualche modo difende. È evidente che molti (Berlusconi, Renzi, Salvini, giusto per non fare nomi) preferirebbero il famoso “Governo di unità nazionale” guidato proprio da Draghi. Chi ha un minimo di esperienza sul tema dei governi di emergenza, o tecnici, non potrà che sentire un brivido lungo la schiena. Di norma questi governi, con la scusa di difendere “l’interesse generale” (che non esiste), difendono lo status quo bastonando senza pietà tutti coloro che “stanno sotto”. La storia dovrebbe avercelo insegnato molto bene, ma giova fare una breve carrellata per rinfrescarci la memoria.

Il primo grande Governo di unità nazionale (1976-1979), quello del compromesso storico tra DC e PCI, con la scusa di difendere il Paese dal terrorismo e dalla crisi economica varò la politica di moderazione salariale (la famosa svolta dell’EUR di Lama nel 1978), utilizzando il Partito Comunista di Berlinguer per raffreddare il conflitto sociale.

Vennero poi i Governi Amato e Ciampi (1992-1993), quelli delle manovre economiche lacrime e sangue (per i lavoratori), dei prelievi forzosi sui conti correnti, degli accordi sul costo del lavoro e delle prime privatizzazioni.

Fu poi la volta di Dini (1995), il grande artefice della riforma delle pensioni che ci traghettò dal sistema retributivo al sistema contributivo.

E, infinte, il Governo Monti (2011-2013), ricordato per la Riforma Fornero delle pensioni, per il pasticcio degli esodati e per le sue politiche di austerità di matrice neoliberista.

Insomma, per lavoratori e precari, quando si parla di Governo di larghe intese, si può star sicuri che la fregatura è dietro l’angolo.

Al momento, dicevamo, questa opzione sembra avere chance ridotte, ma visto che negli ultimi anni la politica italiana ha imparato a stupirci per la spericolatezza delle sue manovre, tutto potrebbe ancora accadere. Nel frattempo, parlando di cose ben più serie, si viene a scoprire che l’emendamento che chiedeva di introdurre un’aliquota progressiva sui patrimoni sopra i 500mila euro è stato ritirato ieri mattina in commissione di Bilancio alla Camera. Il Governo, il relatore e la maggioranza erano contrari. Insomma, l’idea che un’esigua minoranza di ricchi debba fare un po’ di sacrifici in tempi di crisi gravissima per il Paese continua a rimanere un’eresia.

Sarà anche per questo motivo che le scene di file interminabili di persone in attesa di ricevere un pasto gratuito fuori da Pane quotidiano a Milano, dopo aver suscitato la solita indignazione social di mezza giornata, sono già finite nel dimenticatoio. Come sempre, ci si indigna sugli effetti senza intervenire sulle cause.

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