Dovere densificato

Emanuele Braga e Maddalena Fragnito, Lavoratori dell’arte

 

 

 

La bellezza non può attendere, diceva uno slogan di qualche mese fa. La bellezza delle persone che si stanno incontrando qua a Milano sta nel fatto che non si accontentano delle parole, che sanno di volere mettere in atto qualcosa di inedito. In modo determinato, aperto e inclusivo, umile come è umile la gente che non si fida della retorica, ma cerca veramente di capire, e per continuare a comprendere tenta i primi passi, agendo di conseguenza. Qualcosa che non riduce la politica al suo racconto, che non la riduce ad un commento su facebook o alla topica per l’ennesima conferenza, al titolo per l’ennesima rivista o all’ennesimo progetto autoriale. Tutto ciò non basta. La bellezza di queste lavoratrici e lavoratori della conoscenza, di questi cittadini prima di tutto, è la voglia di una politica agita, non raccontata.
Siamo irrequieti: non è vero che non abbiamo tempo, ma non vogliamo impegnarlo in qualcosa di inefficace. Siamo stufi di avere per le mani solo opinioni. O meglio, vogliamo che le nostre opinioni, ciò che pensiamo, escano allo scoperto e siano il campo di battaglia su cui giocare la costruzione del nostro futuro. Un’alternativa possibile non è cosa da contemplare, dobbiamo metterla alla prova: prendiamoci questa libertà, occupiamoci di ciò che è nostro per testare la realtà. Cominciamo a capire che rimanere dei curiosi, degli attenti produttori di lamenti, degli osservatori specializzati, o dei cinici calcolatori, esperti nell’arte garbata del salvarsi la pelle, è ciò che più serve al mantenimento dello status quo.
Divertiamoci, seriamente, nel testare delle alternative. Trasformiamo la realtà che ci circonda in un serio esperimento radicale.

Insistiamo su questo aspetto perché è finito il tempo di una certa logica negativa, che tanto ha segnato anche i linguaggi e le estetiche degli ultimi anni. Raccontare quanto siamo diversi, nel tentativo sincero di creare coscienza critica e cinico disprezzo verso i dispositivi di potere e sfruttamento, è forse una strategia che ha fatto il suo tempo e non è in grado di spiegare la sfida che ci aspetta. C’è un’immagine, scritta dallo stesso Adorno, proprio lui, maestro di dialettica negativa e costruzione di coscienza critica non ideologica, che forse può aiutare a superare questo impasse. In un breve scritto intitolato Elogio funebre di un organizzatore, ricorda la figura di Wolfang Steinecke, un tenace organizzatore che ha salvato nella pratica le sorti della musica moderna. Lontano dalla retorica e dal gioco delle poltrone importanti e dei riflettori, ha avuto la sensibilità per costruire una scuola, nessun altro avrebbe raccolto e mantenuto uniti uomini altrettanto ribelli, scontrosi e difficili, come coloro che fanno parte di questa scuola – se fossero stati meno difficili, avrebbero scelto una via più facile – nessun altro avrebbe fatto scomparire con impercettibile energia le blande autorità di cui in principio non si era potuto far a meno e preparato un’atmosfera in cui, pur nei contrasti più accesi, prevalse la tendenza comune alla solidarietà.
In questo senso entrare in una dialettica che non accetta lo status quo non significa affinare strumenti critici per commentare la realtà seduti dietro le proprie cattedre garantite o in via di definizione, significa invece costruire spazi reali inediti dove impegnare le proprie soggettività in modelli di gestione alternativi, partecipati, in cui c’è spazio per tutti, per innovare realmente l’ingegneria sociale, la ricerca e la sperimentazione dei linguaggi.

Nell’assemblea dei Lavoratori dell’arte del 23 ottobre a Milano, sono emersi un po’ di strumenti da tener presente per gli spazi che andremo a costruire.
Durante la presentazione della bozza di statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, Ugo Mattei richiama l’articolo 43 della Costituzione Italiana in questo passaggio:
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Il concetto è che la cittadinanza e le categorie di lavoratori sono legittimati costituzionalmente a gestire direttamente un’attività rilevante di pubblica utilità.
Nella scorsa assemblea abbiamo parlato molto di questo aspetto: siamo in un momento dove possiamo rifiutare sia la logica burocratica sia quella privatistica. Possiamo fare a meno della logica burocratica dove la gestione di uno spazio pubblico è vincolata ad un controllo verticistico, nel criterio della delega, spesso di spartizione partitica delle nomine e di faticoso accesso ai servizi.
Possiamo fare a meno della logica privatistica, nel senso che ci opponiamo a subordinare i contenuti alla quantità di soldi che sono messi a disposizione dal privato, aspetto che condiziona gli spazi pubblici alle proposte che interessano agli investitori.

Il nuovo statuto del Teatro Valle Bene Comune ribalta completamente queste due logiche, indicandone una terza. La proprietà e la gestione degli spazi pubblici è nelle mani di chi partecipa attivamente a costruirne i contenuti. Tutti sono ammessi con pari diritti, tutti sono uguali e tutti hanno un voto nell’assemblea che decide la gestione dello spazio. Chi non partecipa rinuncia a preoccuparsi attivamente di quello spazio pubblico. Chi continua a partecipare da continuità alla gestione.

Nelle assemblee dei Lavoratori dell’arte stiamo confrontandoci proprio su questo, formulando delle iniziative nella città di Milano per innescare dei processi di gestione partecipata degli spazi di pubblica utilità nel settore dell’arte e della cultura. Sottrarre questi spazi alla mera logica dell’alleanza col privato per trasformarli in un centro di riflessione costruttiva e critica, in cui la cittadinanza si prende il tempo di ripensarne i contenuti e la loro gestione.
Cultura, giurisprudenza ed economie hanno senso solo all’interno di questa tensione. Intendiamo l’arte e la cultura proprio come luoghi in cui costruire concretamente e dal basso un nuovo immaginario sociale e collettivo.

Sappiamo che se alla lotta contro il sistema economico, politico e culturale, non uniamo l’esplicitazione di quale mondo vogliamo, non solo in termini teorici ma anche reali, che significa rifiutare nella propria esperienza le politiche messe in discussione, non può esistere nessuna emancipazione né individuale né sociale. L’aspetto reale e individuale di questa scommessa non è da sottovalutare, perché è uno dei motori che sta scatenando il cambiamento più forte all’interno di nuove pratiche sociali.
Quello che chiediamo non sono piccoli aggiustamenti o modifiche, ma un radicale cambiamento del sistema di produzione culturale, che è quindi anche questione di gestione economica e politica in generale.
Nonostante il nuovo paradigma che la natura dei movimenti sociali sta mostrando in tutto il mondo, attraverso pratiche inedite di riappropriazione e gestione dello spazio pubblico, la voce dominante, e ahi noi non solo quella, sembra unita nel ridurre queste istanze ai soliti due modelli di soluzione: la guerra civile o l’accettazione acritica della democrazia rappresentativa e delle regole del mercato capitalistico. Out out interpretativo che assicura la negazione assoluta di qualsiasi modificazione dei rapporti sociali da parte del 99% della società, che oggi invece indica a gran voce l’esistenza di una terza via.
L’alternativa che si sta delineando è dunque la chiave di lettura se si vuole cogliere la radicalità del tempo storico che stiamo vivendo.
Non ha senso parlare di rivolta destituente (o supportarla) se si presta vera attenzione a quello che sta accadendo dall’Islanda alla Spagna, passando per Occupy Wall Street, il Teatro Valle Occupato, gli studenti universitari, i lavoratori della conoscenza, il referendum italiano e altre esperienze ancora.
Oggi la categoria dell’alternativa deve partire dal presupposto contrario, ovvero dal suo carattere costituente.
Togliere la conflittualità dalla funzione negativa e difensiva assegnatale fino ad oggi dalla vecchia politica, significa inserirla in una traiettoria di mutamento, liberarla dalla rete d’immobilità dentro la quale è stata catturata fino ad oggi, affrancarla dalle opzioni nichiliste, avanguardiste, ipocrite ed estetizzanti, in altre parole, intuire i nuovi strumenti che stanno mettendo in pratica diverse soggettività, per contrapporsi all’unico modello di crescita e finanziario dato per certo o, citando Jeremy Rifkin, per lottare per la vita sulla terra.
Difficile compito, certo, ma già in atto.
Proviamo ad approfondire anche solo un paio di queste esperienze.
L’Islanda negli ultimi due anni, all’insaputa dei più e al di là delle sue caratteristiche geo-sociali, ha dimostrato quanto la partecipazione dal basso della cittadinanza attiva possa influire in modo determinante ed efficace nella costituzione di politiche governative, alternative ai diktat delle manovre finanziarie. Mostrando, quanto meno a se stessa, come una gestione più ragionevole delle economie possa tendere a benessere ed uguaglianza reali e smarcarsi dall’indebitamento come condizione esistenziale e come presupposto delle attuali modalità di assoggettamento. Assoggettamento che, come tale, smette di essere riprodotto per essere saldato.
In questo processo, un linguaggio che fa parte oramai del nostro dna, la rete e i social network sono stati usati non solo per costruire conoscenza ma per costituire nuovi immaginari sociali.
Questo processo, in quanto tale, non dovrebbe mai rinunciare alle sue caratteristiche più marcate, l’apertura e il mutamento, necessità per altro già presenti nelle prime Costituzioni, ma mai messe in atto: quella francese come quella americana, infatti, recitavano l’esigenza di continue revisioni a capo di ogni generazione.
Possiamo oggi mettere in pratica questa continua frizione?
Pensiamo invece al Teatro Valle Occupato che proprio in queste settimane sta riscrivendo lo statuto proprietario di un teatro, di uno spazio pubblico. Uno statuto che parte dal discorso programmatico contenuto nell’espressione Beni Comuni, che rappresenta l’infrastruttura di questa nuova Costituente e che finisce al vaglio, per il periodo di un anno, su un free software che offre la possibilità a tutti, o meglio, a chi ha voglia e sente di poter contribuire, di avere il diritto di intervenire, correggere, suggerire, riscrivere quello che sarà, di certo, un primo modello ineludibile di riappropriazione democratica delle istituzioni. Come dice Ugo Mattei: ” A noi spetta un dover densificato”: a noi spetta ridefinire i soggetti che partecipano alla produzione di un servizio, estendere e socializzare i modi di fruizione del servizio stesso, affermare un nuovo tipo di proprietà comune, alternativa tanto ai processi di privatizzazione quanto a quelli di gestione statuale, a noi spetta, last but not least, il difficile compito di inserire questi percorsi all’interno di processi sostenibili.
I movimenti sociali, quindi, sembra abbiano capito bene quali siano le molteplici direzioni da testare e il perché, a differenza di chi li osserva con timore, di chi si tiene a debita distanza o di chi non perderà l’occasione di capitalizzarli nel tentativo più o meno conscio di soffocarne la carica politica ed emancipatrice. Infine, se da una parte è spontaneo notare che laddove la rivolta è colorata di nero e fiamme c’è più prudenza a creare alternative e dunque c’è più assoggettamento alle decisioni di pochi, dall’altra, il carattere partecipato e costituente di questi nuovi esperimenti e linguaggi sociali, ed il loro rapido contagio nei territori, sembrano i processi migliori per costringere al cambiamento un modello mondiale che risulta ad oggi, da qualunque parte lo si osservi, strutturalmente inadeguato.

Emanuele Braga e Maddalena Fragnito, Lavoratori dell’arte

tratto da

http://www.undo.net/it/my/d903714347694af092af40046b9d45b2

 

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