Pensieri d’autunno
di Silvia Martorana
L’estate è finita e l’inizio dell’autunno è il tempo delle riflessioni, dei progetti, della costruzione.
Dopo lo svuotamento estivo, la metropoli si ripopola delle mille solitudini che ne compongono la quotidianità frenetica e tediosa, ma in questi giorni la città ha offerto anche mille occasioni di partecipazione e, appunto, costruzione. Spazi diversi da attraversare, nei quali incontrarsi e riconoscersi, parole da gridare e condividere, scenari da cambiare: venerdì 11, la marcia delle donne e degli uomini scalzi; sabato 12 il presidio a Castano Primo, col paese che ha detto no alla presenza di caccapound, che gridava di voler occupare Milano ed è stata relegata a 50 chilometri dalla città a far finta di giocare a pallone; domenica 13, Stop War not People – aprire le frontiere, fermare le guerre, respingere i razzisti – in Stazione Centrale; lunedì 14, partecipatissimo corteo Noi siamo Kobane in solidarietà con la lotta kurda, contro le politiche del governo turco, per l’apertura di un corridoio umanitario a Kobane e la liberazione di Ocalan. Sì, è iniziato l’autunno.
La crisi dei migranti, che durante l’estate ha invaso i media e i social con la disumanità dei corpi ammassati alle frontiere, con le immagini dei morti di migrazione, sta scuotendo la fortezza ai suoi confini e aprendo gli occhi a tanti, che non riescono più a uscire indenni dai conti che si trovano a dover fare con le proprie coscienze di fronte a sofferenze inaccettabili.
In questo autunno dovremmo partire da qui. Dalla dicotomia umano – disumano. Da questa povertà assoluta e tragica che sta mettendo in crisi una quantità inedita di persone, e attraversare ogni virgola di indignazione, provando a tirare fuori da questa inaudita sofferenza un primo limite di invalicalibilità rispetto a ciò che possibile sopportare, un primo NO alla deriva di ingiustizia del sistema globale, un primo ritrovarsi, in tanti, diversi in moltissimi aspetti, ma che si riconoscono in un primo, minimo, punto fermo. Oltre il quale c’è il campo dell’inaccettabile. Per questo ero alla Marcia delle donne e degli uomini scalzi: 10mila persone in piazza, richiamate da una piattaforma che forse non rappresenta in ogni singola parola il mio pensiero compiuto, ma che segna un confine di civiltà e chiede di prendere posizione, di scegliere da che parte stare, che “chiede a tutti gli uomini e le donne del mondo globale di capire che non è in alcun modo accettabile fermare e respingere chi è vittima di ingiustizie militari, religiose o economiche che siano. Non è pensabile fermare chi scappa dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle ingiustizie”.
Mi è sembrato un buon punto da cui partire. E, devo dirlo, mi è mancata la presenza del movimento milanese in quella piazza. Scriveva un amico in questi giorni: “se credi che una cosa non sia abbastanza radicale, innervala di radicalità o fanne una più radicale. Tutto il resto è o rischia di essere noia”. Sicura di non tradire il pensiero dell’autore, aggiungo che se decidi di farne una più radicale devi porti il tema di coniugare la tua perfetta radicalità con la costruzione di consenso e l’ambizione a essere maggioritario e a provarci davvero a cambiare le cose, perchè sinceramente la pura testimonianza non mi basta più.
Guardando la nostra città – ma Milano è una città come tante – dal punto di osservazione privilegiato dei movimenti sociali, la prima cosa che colpisce lo sguardo è la distanza. E forse è l’unica cosa che dovremmo, in questo momento, guardare.
Distanza fra la vita della città e dei suoi abitanti, fra i colori, le parole, i pensieri, i movimenti dei cittadini milanesi e un gruppone numeroso di militanti che nel bel mezzo della città discute, analizza, studia, pensa, approfondisce, condivide e generosamente mette in campo il proprio impegno, a questo dedicando una quantità di singole vite sottratte a piaceri più prosaici e gratificanti. Costruisce critica, produce controinformazione, organizza iniziativa politica, consolida legami e spazi di socialità e cultura in splendido isolamento.
Certo che anche dentro il movimento non è tutto rose e fiori, e che non siamo immuni alle dinamiche che pervadono la società e danno forma ai rapporti fra le persone, ai linguaggi, al depositarsi di strutture mentali e di comportamento che detestiamo e che non sempre riusciamo a lasciare fuori dai nostri contesti. Ma ci proviamo, quotidianamente e con caparbietà, a non farci risucchiare dalla semplicità rassicurante dei meccanismi invitanti dei media. A opporci alla quotidianità che scorre senza intoppi, alla città vetrina che scintilla, e il riflesso impedisce di guardare oltre le pareti di vetro, dove i quartieri avvelenati vivono di individualismo, competizione fra le persone e tante, tantissime solitudini: la condanna alla solitudine è per me la vera cifra della società contemporanea, genera apatia e sempre maggiore chiusura nei propri spazi privati, a tutela dei propri piccoli interessi, genera ignoranza e incapacità di comprendere anche i più semplici meccanismi del potere, la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, la progressiva drastica riduzione degli spazi di cittadinanza, la mortificazioni dei diritti basilari di una comunità democratica.
E nella solitudine è facile e normale per ognuno cercare di garantirsi il proprio singolo accesso a ciò di cui ha bisogno, e convincersi che il problema non è come è divisa la ricchezza, ma come faccio ad essere io ad accaparrarmi un pezzetto delle briciole che restano a disposizione dei più. E se il mio orizzonte sono solo le briciole, in un attimo il problema diventa l’altro, il diverso, il povero, che sconfina nel mio ristretto orizzonte e mi contende quella briciola alla quale sono convinto di aver diritto prima di lui.
E così, fra la città e il movimento si scava una distanza in cui cala la proverbiale nebbia milanese, una cortina bianca che offusca la vista, un deserto attraversando il quale, passo dopo passo, si perde il senso delle parole e delle immagini costruite con impegno e generosità, finché le lettere sembrano mischiarsi, le parti dei volti confuse in espressioni indecifrabili ai più, i corpi proiettati in un ambiente che ha strade e piazze così diverse e improbabili che non è più possibile attraversarle se non all’interno di tunnel di vetro che definiscono direzioni dalle quali sembra impossibile deviare, e che passano sopra, sotto e accanto alle vite delle persone nella città, restandone tuttavia inaspettatamente ma ineluttabilmente separate.
Se è così che siamo messi, l’hanno scritto altri meglio di me in questi giorni, ci sono due conseguenze alle quali siamo inevitabilmente esposti. La prima è che quello che diciamo, scriviamo, facciamo, immaginiamo rischia di essere totalmente irrilevante: privo di qualsiasi efficacia, non impatta in alcun modo sul mondo e sulla società, non ha alcuna possibilità di cambiare la vita di nessuno. La seconda, è che ci prendono quando vogliono. Da soli, diversi e identificabili, isolati dal contesto, la macchina della repressione ci viene a prendere uno a uno fino ad azzerarci ogni possibilità di essere fastidiosi, voci fuori dal coro della normalizzazione totale in atto.
Nella nostra città la lotta No Expo è stata la rappresentazione plastica di questa situazione: la punta di diamante, l’evidenza della crisi di consenso che attraversiamo: una battaglia sacrosanta, giusta e necessaria, non cagata minimamente dalla città.
E quindi?
Le risposte non sono nuove né particolarmente brillanti. Innovativo sarebbe praticarle davvero. Acquisire la capacità di uscire dalla coazione a ripetere pratiche e linguaggi risaputi e consolanti come se il mondo non fosse cambiato radicalmente negli ultimi anni, rifiutare l’autoreferenzialità riconoscendola come il male peggiore e, con pazienza e sguardo lungo, metterci a ricostruire un tessuto sociale entro il quale sia possibile fare qualcosa di rilevante. Ricostruire i fili che legano gli individui fra di loro, ricucendo gli strappi nel tessuto sociale all’interno dello spazio urbano, riannodare i fili in punti cospicui riconoscibili , attraversabili e attraenti.
E soprattutto, imparare a riconoscere gli sprazzi di luce e giocare ad allargarli, contribuire a definirne il colore, senza cinico utilitarismo ma con la disponibilità a capire e condividere.
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