Reddito per tutt@?Idee/spunti/riflessioni con Andrea Fumagalli
Seconda puntata della nostra campagna di riflessione sulla questione reddito. Oggi tocca ad Andrea Fumagalli, docente d’economia all’università di Pavia.
A) Che cos’è il lavoro? se per lavoro s’intende lo scambio fra prestazione (qualunque essa sia) e salario, il lavoro è un bene comune?
Per lavoro (parola di uso tradizionale per indicare una prestazione umana frutto dello sforzo del corpo e della mente) si intendono diverse cose, a seconda della finalità che vengono perseguite. Una prima distinzione classica è quella tra il lavoro che produce valore di scambio (lavoro produttivo) e lavoro che produce lavoro d’uso (lavoro improduttivo). Sulla base di tale distinzione, nel fordismo in modo misurabile, si determinava la sua remunerazione (“il cottimo”: tot pezzi, tot soldi). Solo il lavoro produttivo deve essere pagato (esito della rivoluzione francese, che sancisce che l’attività lavorativa produttiva è libera, non può essere sottoposta a nessuna forma di coazione e pertanto deve essere remunerata (più o meno bene, ma questo è un altro problema), mentre il lavoro improduttivo (la cura, l’arte, la formazione, la relazione, la comunicazione, ecc.) se è frutto di una libera scelta individuale ed è finalizzato alla realizzazione della propria individualità/soggettività di uomo/donna libero/a, non necessita una remunerazione, perché, non scambiandosi con capitale, non produce valore di scambio. Con il termine “lavoro” (che deriva da “labor”, ovvero “fatica”, “dolore”, “tortura”) si indica il solo lavoro produttivo, che, procacciando reddito, è diventato il temine più usato e onnipresente per indicare un’attività umana (soprattutto in tempi di “etica del lavoro”). L’attività improduttiva invece si chiamava “opera” (da opus: vedi ad esempio opera artistica), oppure “ozio” (da otium, termine che oggi diventa simbolo di lassismo e parassitismo) oppure ”svago” o ancora “gioco”.
Nel contesto del capitalismo attuale (questo è l’esito principale del cambio di paradigma dall’accumulazione fordista a quella cognitivo-relazionale finanziarizzata), tale distinzione perde di senso. Oggi non esiste più una netta divisione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, esiste semmai una classificazione tra lavori più immediatamente produttivi (di pluslavoro) e lavori meno produttivi di plusvalore. Oggi, l’”opera”, l’”ozio”, lo “svago”, il “gioco” sono diventati tutti “lavoro” (labor), cioè attività che producono valore di scambio, vengono mercificatii e entrano – a diverso titolo – nella filiera produttiva di pluslavoro. Poiché lavoro, ozio, svago, gioco sono la nostra vita, ciò significa che l’intera vita viene messa al lavoro quindi a valore. Facciamo un esempio che riguarda Andrea Cegna. Quando nella seconda metà degli anni ’70, ogni tanto partecipavo alle trasmissioni di musica di Canale96, tale attività era del tutto improduttiva: era frutto di un impegno politico che del rifiuto del lavoro faceva la sua bandiera. Oggi quando Andrea partecipa a Radio Popolare, indipendentemente se viene pagato o meno, partecipa alla produzione di un valore capitalistico. Il suo parlare ad un microfono di una radio libera (ammesso che oggi abbia senso parlare di radio libere, proprio perché tale attività è mercificata) oggi ha un significato economicamente diverso da quello stesso parlare al microfonico che facevo io nel 1977-78 (35 anni fa, non a caso).
Già a partire da tali considerazioni, a prescindere dal discutere se il lavoro è merce (bene) di scambio (ci arriviamo adesso), il lavoro non può essere un “bene comune”. E’ come dire che lo “sfruttamento” è un bene comune.
Il fatto che il lavoro non può essere un bene comune è spiegabile anche dal fatto che il lavoro non è un “bene” (nel senso di merce), per lo meno nel senso economico del termine, come può esserlo un kg di patate, un computer, un’automobile. E ciò, nonostante che il lavoro sia oggetto di scambio, come tutte le altre merci. Ma tale similitudine non deve trarre in inganno. Riprendiamo il vecchio Marx. In primo luogo, ciò che sul mercato del lavoro i lavoratori vendono non è il lavoro tout court, ma la “forza lavoro”, ovvero quella quota del tempo di vita che ogni lavoratore/trice mette volontariamente a disposizione del padrone e del committente (al riguardo Marx ironicamente sottolineava che “il suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”): in altre parole “disponibilità lavorativa”. Ciò che invece le imprese acquistano (domandando lavoro e non possono farne a meno se voglio produrre plusvalore) è la prestazione lavorativa, ovvero non il tempo di vita dei lavoratori, ma la loro capacità e competenza lavorativa. In altre parole, lo scambio sul mercato del lavoro è uno scambio anomalo e ineguale, dove ciò che si vende acquista un significato diverso quando viene comprato. Qui sta lo sfruttamento, qui sta l’alienazione.
Credo che affermare che il “lavoro sia un bene comune” sia un “non-sense” (sicuramente non l’unico), che disvela di fatto una dipendenza ancor prima culturale che politico-economica da un’etica del lavoro assoluta, che vede nel lavoro sfruttato (al limite “male comune”) l’unica possibilità di migliorare la propria condizione esistenziale, senza rendersi conto che in tal modo si stringono ancor di più le maglie della gabbia e del dominio. E’ un po’ come chi desidera andare in galera, perché così è sicuro di avere un pranzo tutti i giorni. Ma è vita?
Comunque per approfondimenti, rimando al mio “Lavoro male comune”, B.Mondadori, Milano, 2013, dal titolo sufficientemente esplicativo.
B) Cos’è e quando nasce l’idea del reddito di cittadinanza?
L’idea di una garanzia di un reddito ha una lunga e nobile storia a partire dalla filosofia illuminista (cfr. A.Fumagalli, “Teoria economica, postfordismo e reddito di cittadinanza” in Aa.Vv., La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, Roma, 1997: pp. 47-86). Per quanto riguarda il dibattito in Italia, tale proposta già si sviluppa negli anni ’70 in due ambiti, tra loro collegasti: il dibattito femminista sul salario alle casalinghe (Della Costa, Dal Re, Fortunati, Federici, ecc.) e le prime teorizzazioni sull’operaio sociale e il rifiuto del lavoro. Nella stagione delle riviste sul cd. post-fordismo (AltreRagioni, Luogo Comune, Moltitudes, Derive&Approdi, Infoxoa, Posse, ecc. – anni ’90 e ssgg, il tema viene ripreso e si struttura in modo più articolato. Nel 1997 vengono pubblicate le 10 tesi sul reddito di cittadinanza e da lì partono numerose pubblicazioni al riguardo.
Oggi il tema del reddito di cittadinanza è entrato finalmente nell’agenda del dibattito politico in Italia. Non che prima non se ne discutesse, ma era raro che questa proposta varcasse la soglia dei grandi media. Chi ha prestato attenzione a queste discussioni non può però non aver notato la grande confusione che aleggia su quest’espressione: reddito di cittadinanza, reddito garantito, reddito di base incondizionato, reddito minimo garantito, via così fino ad arrivare ad espressioni bizzarre come reddito minimo d’inserimento, reddito di disoccupazione etc etc.
Questa confusione terminologica deriva dall’impreparazione dei politici e sindacalisti italiani poco inclini a ragionare al di fuori di quegli schemi conclamati che rappresentano lo status quo anche e soprattutto per quel che concerne il welfare state e il sistema degli ammortizzatori sociali. In Italia dilaga la precarietà, la crisi e la povertà, il sussidio di disoccupazione vale per il 25% dei licenziati, l’articolo 18 protegge solo quattro lavoratori su 10, alla cassa integrazione possono accedere solo alcune categorie di lavoratori, ma di riforma del sistema delle tutele guai a parlarne.
Analizziamo quindi le varie espressioni con cui viene sostanziato il reddito. Possiamo dividerle in tre macro gruppi:
Il reddito di cittadinanza
Per quanto questo termine vada per la maggiore nei dibattiti mediatici di esso non si troverà traccia nelle piattaforme rivendicative. Il suo uso è sempre inappropriato in quanto una definizione del genere ha una natura più etico-filosofica che politica ed economica. In questa espressione il diritto al reddito viene definito come un diritto inalienabile dell’essere umano, al pari del diritto al lavoro, alla libertà religiosa, alla libertà di parola e così via. In pratica si afferma che ogni essere umano solo per il fatto di esistere ha diritto ha una propria fetta di ricchezza prodotta e nessuno, giovane o vecchio, uomo o donna, ricco o povero, ne può essere escluso.
Il suo livello è puramente un prodotto della volontà ed è determinato dal rapporto fra la cifra da destinare ad esso e il numero di persone che vi può accedere. Ad esempio in Alaska vige una misura simile: i proventi derivati dall’estrazione di petrolio tolte le spese vengono divise fra la popolazione che nel 2012 godette di un “dividendo” di 900 dollari all’anno. In questo senso la proposta è molto generica e questa è stata un po’ la sua fortuna: con reddito di cittadinanza si è finito per indicare ogni politica di redistribuzione (ma non distribuzione) diretta della ricchezza nazionale.
Reddito minimo d’inserimento o condizionato
Una seconda proposta è quella che prende il nome di reddito minimo che sempre più spesso viene indicato come reddito minimo di disoccupazione, reddito minimo di inserimento, e via così, svelandone la vera natura e le vere intenzioni di chi lo cita. È un reddito minimo condizionato allo stato professionale e al livello di reddito percepito, finalizzato all’inserimento lavorativo.
È una proposta già presente in quasi tutta Europa, seppur declinata diversamente: la versione “all’italiana” si pone come misero obiettivo quello di revisionare l’indennità di disoccupazione.
In questo caso l’indennità viene elargita solo se il senza-lavoro dimostra di cercare un’occupazione: è una misura profondamente sbagliata perché non è in grado di impedire il dilagare della precarietà che anzi diventa più insidiosa proprio grazie al controllo di organismi appositi che impediscono l’elargizione di reddito se il lavoratore si rifiuta di accettate lavori a lui sgraditi. Questo tipo di approccio ha anche il nome di politica attiva sul lavoro. Il fatto che sia una politica attiva e non passiva ha un significato ben preciso: aggiunge una coercizione al lavoratore precarizzato che in quel momento particolare della vita è pure disoccupato. Riassumendo: chi si dimostrerà irrequieto nel lavoro diventerà immediatamente inviso alle aziende, verrà tenuto sotto controllo dallo Stato e se insiste a rifiutare le peggio-condizioni perderà anche il diritto al reddito. Possiamo dire senza false mezze misure che se questo non è il Male, ci si avvicina parecchio.
Reddito di base incondizionato (RBI)
Non si parla più di cittadinanza poiché ci si rivolge ai residenti ma non è una misura completamente universale, in quanto verrebbe erogato solo a coloro che si trovano al di sotto di una certa soglia di reddito. È quindi rivolta non solo ai disoccupati ma anche a coloro che, pur lavorando, spesso in modo precario, sottopagato, intermittente o in nero, non riescono a fuoriuscire dal girone della povertà e del ricatto, a prescindere dalla loro condizione professionale. Il suo senso è di non essere né ammortizzatore né elemosina, ma di aiutare il precario/disoccupata/sottooccupato a ribellarsi alle pessime condizioni di lavoro innescando un processo di conflitto favorito appunto dall’elargizione di reddito e quindi dalla possibilità di dire “no”!
Tutto sta nell’attributo “incondizionato”. Perché incondizionato? Perché il RBI è la remunerazione di tutta quell’eccedenza di produzione diretta e indiretta di valore che oggi non viene certificata e quindi non remunerata. Si tratta quindi della restituzione sotto forma monetaria di una quota del valore prodotto. Si è mai visto che ad un operaio il giorno di paga venisse chiesto di fare qualcosa in più per ricevere il salario? Da questo punto di vista il RBI e salario sono fra loro complementari e tendono a convergere. Il salario è la remunerazione del tempo di lavoro certificato, il RBI è la remunerazione del tempo di vita produttivo ma non riconosciuto. Esso dovrebbe gradualmente sostituire gli ammortizzatori sociali. E’ quindi reddito primario, ovvero rientra nella distribuzione del reddito e non è variabile assistenziale di redistribuzione, una volta che la ricchezza sociale, sulla base dei rapporti di forza, si è distribuita tra reddito da lavoro, profitto e rendita. Al riguardo, occorre prendere atto che attualmente gli ammortizzatori sociali sono oggi del tutto inadeguati e iniqui. Ad esempio, solo un quarto di chi è realmente disoccupato possiede i requisiti per accedere al sussidio di disoccupazione: ovvero, avere lavorato 52 settimane negli ultimi due anni e aver pagato i relativi contributi. Tali parametri sono diventati un lusso che la maggior parte dei lavoratori precari non è in grado di garantire. L’indennità di mobilità viene invece applicata solo ai lavoratori che escono da una situazione di cassa integrazione.
A sua volta, le diverse forme di cassa integrazione esistenti (ordinaria, straordinaria e in deroga) sono applicate in modo diverso e selettivo a seconda del settore dell’impresa, della dimensione, delle qualifiche, con l’effetto di creare pesanti discriminazioni sul suo utilizzo. E non si dica che la cassa integrazione è utile perché comunque il lavoratore rimane alle dipendenze dell’impresa, senza che quindi venga a mancare il rapporto di lavoro (e infatti i cassintegrati non sono conteggiati tra i disoccupati “ufficiali”, pur non lavorando). Negli ultimi lustri (non anni), a partire dalla Fiat del 1980, i cassintegrati non sono mai stati reintegrati!
Immaginare un unico ammortizzatore sociale a carico della fiscalità collettiva, uguale per tutti, che vada progressivamente a sostituire quelli vecchi, sembra ragionevole, anche perché consentirebbe di ridurre quel cuneo fiscale sul lavoro rappresentato dai contributi sociali a favore di un maggiore salario in busta paga.
Riassumendo, la proposta di un reddito di base incondizionato come strumento di remunerazione di quella produzione sociale e valorizzante che oggi sfugge alla regolamentazione del lavoro si fonda su quattro parametri non emendabili. Il primo requisito è l’individualità, dal momento che il lavoro è tendenzialmente individuale, anche se poi fa riferimento a una cooperazione sociale e a un “comune”.
Il secondo parametro è che deve essere erogato a tutti coloro che operano in un territorio, a prescindere dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione. Il tema della residenzialità è delicato, perché fa riferimento al concetto di cittadinanza, fondato sull’idea di ius soli o ius sanguinis. In Italia e in buona parte d’Europa il concetto di cittadinanza è fondato sullo ius sanguinis, per cui un figlio di immigrati nato in Italia non ha automaticamente la cittadinanza italiana in quanto il diritto di sangue prevale sul diritto di suolo. Ne consegue che il requisito della cittadinanza deve essere sostituito da quello della residenzialità.
Il terzo parametro è, appunto, quello dell’incondizionalità: garantire reddito significa garantire continuità di remunerazione di un’attività produttiva (diretta o indiretta che sia) di ricchezza già svolta e quindi non richiede in cambio alcuna ulteriore contropartita. Garantire continuità di reddito a prescindere dalla condizione lavorativa non è quindi una misura assistenziale.
Il quarto parametro è che il finanziamento del RBI deve ricadere sulla fiscalità generale (ovvero i fondi necessari devono rientrare nella legge finanziaria), sulla base di un’imposizione sociale progressiva (cioè un aumento dell’aliquota al crescere dello scaglione di reddito) e altro (vedi: http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q3-Proposte-di-finanziamento-per-un-reddito-di-base-incondizionato.pdf)
Basterebbe una misura di 8 miliardi di euro per creare una forma di reddito capace di agire verso tutti, con continuità, rimediando alle storture, alle disparità, alle arbitrarietà (vedi cigs) che stanno alla base delle frammentazioni (generazionale, etnica, territoriale, legislativa) che creano e producono la precarietà. Vedi: http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q1-La-proposta-di-welfare-metropolitano.pdf)
Mi si apre il cuore al pensare che rinunciando all’alta velocità in Val di Susa e agli F35 per l’aviazione militare si riuscirebbe a finanziare questa proposta per quattro anni. Abbastanza per vederne i risultati.
C) Reddito di Cittadinanza e Welfare qual è il loro rapporto? Se le spese per l’affitto, il mutuo, la sanità, l’istruzione sono tra le voci più pesanti nel bilancio familiare medio, perché non spingere su una riforma del welfare che non preveda solo tagli e privatizzazione, su un piano case come si deve, su sistemi sanitario e d’istruzione accessibili e per tutti, anziché sul reddito?
Tra reddito di base e welfare c’è complementarietà e non antagonismo, così come tra reddito di base e battaglie per il salario (a questo proposito, condizione che venga introdotto un reddito di base è che contemporaneamente venga inserito un salario minimo orario a livello nazionale). Trovo veramente stupido porre l’aut aut tra il diritto al reddito indiretto (servizi, casa, ecc.) e l’introduzione di un reddito di base. Il welfare adeguato alle nuovo paradigma di accumulazione che mettendo a lavoro e a valore la vita estrae profitto espropriando la riproduzione sociale e il general intellect non può essere nè un welfare esclusivamente pubblico (di stampo keynesiano, quindi solo redito indiretto) né un workfare di tipo anglosassone (secondo il quale hai accesso ai servizi – di proprietà anche dei privati – in funzione della contribuzione pagata o del costo del servizio: mercificazione/privatizzazione e finanziarizzazione del welfare). E’ piuttosto un welfare del comune (commonfare).
L’idea di commonfare, infatti, parte dal presupposto che la cooperazione sociale è la produzione del comune: qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. I beni comuni nell’evoluzione del capitalismo hanno più volte modificato la propria struttura. Ai beni comuni legati alla sopravvivenza terrena e al consumo primario (aria, acqua, cibo, vestiti, abitazione, socialità, ecc., ecc.), connaturati con lo stesso agire umano, si sono aggiunti dei nuovi beni comuni, che oggi stano alla base non tanto della sopravvivenza e del consumo di base, ma piuttosto della produzione e dell’accumulazione. Essi riguardano in primo luogo il territorio, geografico e virtuale e conseguentemente l’ambiente, quindi il linguaggio e la conoscenza.
Ipotizzare un welfare del comune significa oggi imbastire una politica:
•che tolga dalle gerarchie imposte dal libero scambio i beni primari e di pubblica utilità che negli ultimi 15 anni hanno subito estesi processi di privatizzazione in seguito all’adozione degli accordi europei di Cardiff sulla regolamentazione del mercato dei beni e dei servizi (accesso ai beni comuni materiali)
•che imponga forme di controllo e di monitoraggio sul mercato del credito, sui suoi costi e sulle possibilità di elargire forme di finanziamento anche a chi non ha contratti a tempo indeterminato con la garanzia e l’assicurazione degli apparati pubblici, sia a livello locale che sopranazionale (accesso alla moneta come bene comune);
•che proceda ad una regolamentazione dei diritti di proprietà intellettuale e della legislazione sempre più restrittiva dei brevetti a favore di una maggiore libertà di circolazione dei saperi e alla possibilità gratuita di dotarsi di infrastrutture informatiche, tramite adeguate politiche innovative e industriali (accesso ai beni comuni immateriali).
•che consenta una partecipazione finanziaria e consultiva agli organi di gestione, a partire dal livello locale, dei beni pubblici essenziali, quali acqua, energia, patrimonio abitativo, e sostenibilità ambientale tramite forme di municipalismo dal basso (principio democratico).
Commonfare, ovvero continuità di reddito per la riappropriazione del comune e libero accesso ai beni comuni. Due condizioni per poter scegliere e essere autonomi dalla dipendenza economica. Perché oggi le politiche sociali sono l’effettivo specchio della democrazia. E la nostra libertà si fonda sul diritto ad una scelta libera e consapevole.
Common e
Beni Comuni
Beni da garantire per la soddisfazione dei bisogni
Reddito
Reddito d’esistenza garantito, erogazione di una quota monetaria per la riproduzione delle vite singolari
Credito
Disponibilità di somme liquide per far fronte a necessità una-tantum.
Formazione
Disponibilità di strumenti e di luoghi per la formazione, accesso all’istruzione, creazione di spazi per la produ-zione di sapere collettivo
Informazione
Libero accesso all’informazione e rimozione dei vincoli che lo limitano, quali il “diritto” di proprietà intellettuale
Comunicazione
Accesso ai canali e ai media attraverso i quali avviene la comunicazione sociale e transita la cultura
Mobilità
Fruizione agevolata dei mezzi di trasporto, garanzie dei servizi per il movimento sul territorio e la libera circolazione dei corpi
Socialità
Creazione di spazi comuni d’incontro che consentano a ciascuno la cura delle reti relazionali sociali
Alloggio
Abitazione garantita, possibilità per tutti di disporre di uno spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita
D) Introdurre un welfare state basato sul reddito di cittadinanza può essere un modo per uscire dal paradigma finanziario neo liberale? Il reddito di cittadinanza ha a che fare con l’anticapitalismo? il reddito potrebbe dare respiro/incentivare/stimolare la cooperazione sociale e quindi la creazione di un’economia non fondata esclusivamente su costrizione e profitti?
A questi tre quesiti, la risposta, anche in base a quando detto prima, è si, si, si. Il reddito di base appare superficialmente come una misura riformista, ma nasconde un’anima sovversiva. Ammesso ma non concesso che sia possibile oggi in tempi di crisi una politica riformista (possiamo affermare, senza rischio di smentita, che il riformismo è morto e sepolto almeno da quando è morta e sepolta la democrazia formale occidentale del dopoguerra, ovvero 35 anni fa), i critici duri e puri criticano il reddito di base, accusandolo appunto di riformismo, in quanto, incidendo soltanto sui meccanismi distributivi, non va intaccare il rapporto di sfruttamento capitale-lavoro. Se si prende i considerazione l’idea di un reddito di base incondizionato, tale critica perde senso, in quanto, rendendo esigibile il diritto alla scelta e al rifiuto del lavoro, può sottrarre gli individui dal ricatto del bisogno di lavorare e quindi dalla subordinazione che tale ricatto impone. Da questo punto di vista (ma solo se è incondizionato) il reddito di base può essere annoverato tra gli strumenti per incidere sulle forme di organizzazione e sfruttamento del lavoro, nonché mezzo di ricomposizione sociale del lavoro vivo frammentato e precarizzato.
E) Oltre a questioni economiche il reddito di cittadinanza quale altre contraddizioni e questioni apre nelle politiche di un paese?
Le contraddizioni sono molte e qui non c’è sufficiente spazio per enumerarle. In prima battuta, possiamo dire che una proposta di RBI rompe i coglioni sia al padronato che al sindacato. Perché le forze sindacali e non liberiste (queste ultime più propense allo smantellamento e alla privatizzazione di ogni intervento di welfare) sono perplesse e poco propense a inserire misure di reddito di base incondizionato nel proprio programma di governo. Che la proposta di un welfare fondato su un unico intervento di sostegno al reddito venga ritenuta politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale non stupisce più di tanto, anche se, …., garantire un reddito stabile aiuterebbe la crescita della produttività e della domanda di consumo (quindi, in ultima analisi, anche del profitto). Il vero problema è che una regolazione salariale basata sulla proposta di reddito di base incondizionato (magari unita a un processo di accumulazione fondato sulla libera e produttiva circolazione dei saperi) mina alla base la stessa natura del sistema capitalista, ovvero la necessità del lavoro e la ricattabilità di reddito come strumento di dominio e controllo, oltre alla violazione del principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi la conoscenza).
Se il diritto al lavoro viene sostituito dal diritto alla scelta del lavoro, la maggior libertà che ne consegue può assumere connotati eversivi e potenzialmente sovversivi.
La posizione contraria a qualsiasi proposta di reddito di base da parte dei sindacati deriva invece da due principali fattori: da un lato, buona parte del sindacato italiano (non solo quello confederale ma anche quello di base) è ancora fortemente imbevuta dell’etica del lavoro e accetta difficilmente di dare un reddito a chi non lavora, soprattutto se incondizionato e non finalizzato all’inserimento lavorativo; dall’altro, viene visto con preoccupazione il fatto che il reddito di base possa influire negativamente sulla dinamica salariale (effetto sostituzione) e ridurre gli ammortizzatori sociali.
Riguardo al primo punto, la posizione dei sindacati (con la timida eccezione della Fiom), non dissimile da quella delle controparti, rispecchia il ritardo – sia culturale sia politico – con cui le forze sociali prendono atto dei cambiamenti intervenuti nel passaggio dal capitalismo fordista al biocapitalismo cognitivo. L’idea che bisogna guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte rispecchia proprio quell’ideologia del lavoro, sino a declinarsi nella “falsa” parole d’ordine di “lavoro bene comune”.
Il secondo punto pone invece una questione più importante. Il rischio che l’introduzione di un reddito di base possa indurre una riduzione dei salari è effettivamente reale. Per questo una simile misura deve essere accompagnata dall’introduzione in Italia di una legge che istituisca il salario minimo, ovvero stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di una certa cifra, a prescindere dal lavoro effettuato. Inoltre, occorre anche considerare che la garanzia di reddito diminuisce la ricattabilità individuale, la dipendenza, il senso di impotenza di lavoratori e lavoratrici nei confronti delle imprese. Richiedere un reddito minimo è la premessa perché i precari, i disoccupati e i lavoratori con basso salario possano sviluppare conflitto sui luoghi di lavoro. Oggi il ricatto del licenziamento o del mancato rinnovo del contratto, senza nessun tipo di tutela, è troppo forte. Il reddito, unito a garanzie contrattuali dignitose e a un salario minimo, renderebbe tutti meno ricattabili e quindi più forti. E permetterebbe di chiedere il miglioramento delle proprie condizioni lavorative e contrattuali.
In conclusione, il RBI (tra altri) pone le premesse per una rottura dello status quo. Occorre però ricordare che non è la panacea di tutti i mali, è solo uno strumento. Sta a noi utilizzare tale strumento nel migliore d modi, con la consapevolezza che può far “male”.
F) Come cambierebbero i processi produttivi nel caso in cui un reddito di base incondizionato fosse elargito? Saremmo ancora di fronte a devastazioni ambientali come, ad esempio, quella tarantina ad opera dell’ILVA? il reddito è quindi strettamente connesso alla possibilità di mettere in piedi un’economia sostenibile?
Assolutamente si. La risposta è immediata. Con un RBI si sancisce il diritto alla scelta, La scelta di una propri umanità, di una propria attività, la scelta di cooperazione , la scelta del rispetto della diversità, la scelta di ….
G) Esistono esperienze reali di Reddito di Cittadinanza in Italia e/o Europa? Qualcosa che si avvicina a quello che tu intenti con quel concetto?
No. Paradossalmente, le forme di reddito di base che più si avvicinano alla nostra concezione sono fuori Europa, laddove una cultura lavorista non ha preso piede come in Occidente e nei paesi che hanno visto sorgere il sistema di produzione capitalista. Lo stesso dicasi per i paesi del “socialismo reale” (URSS e in modo diverso Cina). L’etica del lavoro l’ha fatta da padrone. Più interessanti, pur nella loro contraddittorietà, le esperienza della Namibia, dell’India e, soprattutto, del Brasile (Bolsa Familia).
H) Come cambierebbe nel concreto la tua vita con il Reddito di cittadinanza
E’ difficile dirlo, perché non è possibile una risposta univoca. E come chiedere a uno schiavo: come cambierebbe la tua vita se tu fossi libero? Dipende dalla soggettività. La libertà e la possibilità di scegliere sono pericolose. Danno adito alle pulsioni più positive dell’essere umano, ma anche a quelle più abbiette. Mi sembra che la storia abbia dimostrato che le prime sono state prevalenti sulle seconde.
I)La rivendicazione di un reddito svincolato dalla prestazione lavorativa non è un tema nuovo nelle discussioni dei movimenti. Cosa rende attuale tale lotta al giorno d’oggi? Il reddito può essere terreno di ricomposizione all’interno dei movimenti?
L’attualità di un reddito di base è oggi ancor più forte di quanto non lo fosse ieri. SE nel periodo fordista, la lotta si concentrava sullo strappare tempo di vita al tempo di lavoro e sugli aumenti salariali (salario come variabile indipendente e sganciata dalla produttività), oggi uno dei perni del conflitto dovrebbe essere la lotta per la remunerazione di quel tempo di vita produttivo che non viene riconosciuto come tale. E su tale lotta può, anzi deve sagire, il processo di ricomposizione non solo dei movimenti ma anche dell’intero lavoro vivo.
L) Il reddito è redistribuzione: chiedere redistribuzione del profitto incide su proprietà dei mezzi di produzione, speculazione finanziaria, contraddizioni del mercato globale?
Il reddito NON è redistribuzione, bensì “distribuzione”, è reddito “primario” (cfr. http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Un-reddito-di-base-come-reddito-primario-19396), ovvero quota diretta della ricchezza sociale prodotta. In quanto remunerazione di un fattore produttivo, la sua esistenza per forza riduce la quota di Pil che va ai profitti e alla rendita. Oggi possiamo avere quattro fattori produttivi: il lavoro certificato e misurato (salario), la vita produttiva in termini di riproduzione sociale, cooperazione sociale, general intellect (RBI), la proprietà e il controllo dei mezzi di produzione (profitto), la proprietà mobiliare e immobiliare e della conoscenza (rendita). Se si introduce il RBI e ciò non va a scapito dei salari (vedi sopra), allora per forza esso deve essere pagato dai profitti e dalla rendita o direttamente o indirettamente.
Come già sottolineato diminuendo il ricatto dal bisogno, il RBI incondizionato potrebbe creare spazio per favorire la produzione non mercificata (valori d’uso) a scapito di quella mercificata, della speculazione finanziaria e della rendita.
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