Segnali di vita da oltreoceano? Sul midterm negli USA

Si dice che a volte si debba toccare il fondo per poter risalire. E che con le ultime elezioni gli Stati Uniti abbiano toccato il fondo del fondo penso che, per lo meno per chi sta dall’altra parte della barricata rispetto a Donald Trump, sia fuor d’ogni dubbio.

Ai tempi c’è stato chi, la maggior parte probabilmente, è rimasto sconvolto, incredulo, imbarazzato di fronte all’immagine di un Donald Trump trionfante nelle sue nuove vesti di Presidente. E questo pur sapendo che il sistema elettorale americano è cavilloso al punto che è effettivamente possibile che sia eletto alla presidenza un candidato che, nella pratica, nel voto popolare a livello federale non ha raggiunto la maggioranza sulla controparte, che in questo caso era rappresentata dalla tanto agguerrita quanto raccomandata Hillary Clinton.

Altri, però, già durante la campagna elettorale avevano espresso delle perplessità riguardo alla vittoria schiacciante che secondo i sondaggi avrebbe portato la Clinton nuovamente, e questa volta da Prima Inquilina, alla Casa Bianca. E questo perché, seppur a suo vantaggio la candidata democratica avesse tre caratteristiche piuttosto determinanti, l’aver acquisito un cognome di una certa caratura, l’aver già ricoperto una posizione di alto livello e, sì, l’essere donna, questa terza caratteristica, la più progressista e anche la più valorizzata nella campagna elettorale, ha finito per essere schiacciata dalle prime. Vale a dire che il senso di conservatorismo e di “già sperimentato” evocato dal cognome Clinton ha avuto la meglio sulla potenziale “rivoluzione” di avere la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Sostanzialmente, Mrs. Clinton non è riuscita, se mai ne avesse avuto l’intenzione, a comunicare una distanza sufficiente dal passato, dalla classe politica privilegiata e ormai ben radicata nelle posizioni governative americane. Insomma, faceva vecchio. E qui vale la pena invece spezzare una lancia a favore dell’altro candidato alle primarie 2016 del partito democratico Bernie Sanders e del suo coraggioso programma politico, che invece ha ottenuto un ampissimo consenso, un consenso che però non è risultato gradito al partito, che puntava invece sulla ex First Lady ed ex Segretario di Stato.

E così fu Donald Trump, con la sua politica fatta di tweet e spregiudicatezza, una spregiudicatezza criminale e ignorante che però ha convinto gli americani, soprattutto i tantissimi che non vivono nella New York dell’apertura, della cultura e del progresso (andiamolo a dire agli abitanti del Bronx o del Queens, poi) ma nell’America profonda dell’Idaho, del Kentucky o dell’Oklahoma (dove Trump ha ottenuto rispettivamente il 59,2%, il 62,5% e il 65,3%) che se non altro le cose in un modo o nell’altro sarebbero cambiate. Certo, queste persone non potevano sapere, posto anche il contesto di forte arretratezza culturale di questa parte degli States, la più grande, che viene ignorata dalle rappresentazioni mainstream, che tutti i cambiamenti sarebbero stati rivolti a garantire gli interessi dei potenti, che il team del governo Trump sarebbe stato composto da miliardari e fondamentalisti religiosi e che il razzismo e il nazionalismo più beceri sarebbero stati lo specchietto per le allodole di manovre tutte di interesse politico ed economico dei soggetti in causa.

Ed eccolo lì, il fondo. L’uscita dall’accordo sulle migrazioni e dall’Unesco, le dichiarazioni e i provvedimenti apertamente razzisti nei confronti di una consistente fetta della stessa popolazione statunitense, il taglio delle tasse per i ricchi e la deregolamentazione per Wall Street e per l’ottenimento delle licenze per la detenzione di armi, l’aumento delle spese militari, lo spostamento dell’Ambasciata degli USA a Gerusalemme, il Muslim ban e il muro al confine con il Messico, l’uscita dall’Accordo di Parigi, le trivelle in Alaska, il rilancio dei grandi oleodotti e del carbone, la mutilazione delle aree protette dello Utah, la guerra all’Obamacare e alla comunità lgbt.

Ieri però, i risultati delle elezioni di midterm hanno forse mandato il messaggio che da quel fondo c’è chi vuole risalire. E vuole farlo proprio partendo e dando voce all’America più colpita e umiliata da Trump, ma che generalmente è in buona parte ignorata da tutte le amministrazioni.

Alexandria Ocasio-Cortez, ventinove anni, madre portoricana e padre del Bronx, attivista dei Democratic Socialists of America che lo scorso giugno ha sconfitto a sorpresa nelle primarie democratiche di New York il deputato uscente Joseph Crowley (uno dei politici più in vista del partito) con una campagna costata 127mila dollari contro il milione speso dal suo avversario, eletta questa notte nel suo distretto per la Camera nello Stato di New York diventando la più giovane rappresentante al Congresso della storia americana, ha ben riassunto il nocciolo della questione: “Donne come me non è previsto che si candidino. Non vengo da una famiglia ricca e potente, sono nata in un quartiere dove il codice di avviamento postale della zona in cui vivi determina il tuo destino”.

Quello che ha infatti in comune la Ocasio-Cortez con le prime due deputate musulmane Rashida Tlaib e Ilhan Omar (avvocatessa di origine palestinese la prima e trentaseienne di origine somala giunta negli Stati Uniti con la famiglia nel 1997 dopo aver vissuto in Kenya in un campo di rifugiati la seconda, elette in Michigan e Minnesota), con le prime deputate native americane Sharice Davids e Deb Haaland (elette in Kansas e New Mexico), o con la rifugiata afghana Safiya Wazir, ventisette anni, eletta con i democratici all’Assemblea legislativa dello Stato del New Hampshire non è solo il fatto di essere giovani donne, ma quello di aver rotto gli schemi dell’incandidabilità, ottenendo l’accesso all’americanità, vale a dire la legittimità di cittadinanza, fino ad avere la possibilità (almeno a livello teorico) di influire sulla quotidianità di un paese che in quanto a diritti civili lascia molto a desiderare. Il loro successo elettorale pone finalmente la diversità e la multiculturalità, che gli Stati Uniti dovrebbero preservare come loro massima ricchezza, come valore positivo e orientato a un progresso reale. Tra i neoeletti accanto a queste donne, ricordiamolo, c’è infatti anche Jared Polis, primo Governatore dichiaratamente omosessuale che ha ottenuto la vittoria in Colorado.

Allora, queste elezioni possiamo considerarle un segnale positivo proveniente da uno dei massimi fulcri dell’attuale involuzione politica e sociale occidentale e non tanto perché i Democratici hanno preso il controllo della Camera, ottenendo anche alcuni seggi in Stati nei quali Trump aveva ottenuto la maggioranza nel 2016, dal momento che il Senato è rimasto in mani repubblicane (così ha brillantemente commentato Matteo Salvini su Twetter, la modalità di comunicazione da lui preferita, mutuata proprio dal suo modello politico Donald: Complimenti al presidente Trump per i seggi conquistati al Senato e la conferma in Stati cruciali, contro tutto e contro tutti: giornalisti di sinistra, attori e cantanti, registi e pseudo-intellettuali…Go Donald Go!”). Ma perché finalmente sembra stia trovando voce e coraggio quell’opposizione che chiede un cambiamento radicale e dal basso, rifiutando prima di tutto le derive vergognosamente retrograde e profondamente dannose a livello nazionale e internazionale di Donald Trump, ma dando anche un duro colpo all’establishment politico statunitense, da entrambe le parti.

S_M

 

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