Città: è tempo di chiederci “chi la fa”, non soltanto “di chi è”
Appunti verso la mobilitazione per gli spazi sociali di sabato 19 settembre 2020.
Siamo soliti leggere la città come si legge un tomo di storia medievale: sappiamo tutto di papi e regine, proclami e conquiste, ma pochissimo dei modi di vita di un territorio, degli umori dell’epoca, delle tensioni latenti in una comunità.
Questa linea narrativa, spesso fatta propria anche dai movimenti sociali, schiaccia due volte le istanze di emancipazione: da una parte replicando lo sbilanciamento tra fatto istituzionale e fatto sociale, dall’altra rinunciando a dichiarare ad alta voce che la città immaginata da amministratori e capitale, è quotidianamente riprogettata, agita, fatta propria da chi la abita.
Dentro questa costruzione incessante, non necessariamente antagonista né convergente con i nostri sogni di gloria, agiscono cento autonomie incoerenti col modello di una Milano internazionale e decorosa, domata e algida, turistificata e per questo escludente.
La piccola metropoli lombarda respira certamente al ritmo di Expo e PGT, settimane tematiche e fuorisaloni, distretti e nuove centralità. Milano si vende con l’immaginario asettico di immagini di stock e sentori di boutique ma, dietro le vetrine in allestimento, la città è anzitutto un brulicare di vite che esprimono bisogni e aspirazioni, che calpestano marciapiedi e si trascinano in ufficio dalla provincia, che preparano la cartella o contano i giorni per la prossima busta paga.
Nel cuore di una crisi che è insieme sanitaria, economica e di modello, la città cartolina è sublimata in una nube di slogan sbagliati, appelli all’unità e ordinanze. A fronte di questa friabilità, la città pubblica (pur strattonata da anni di tagli, privatizzazione e spending review) si è dimostrata invece antifragile: uno spazio di tutela per tutte e tutti. Con città pubblica non mi riferisco evidentemente al solo spazio non frantumato dagli ingombri della proprietà privata, ma all’insieme di progetti, servizi, infrastrutture, reti di cura, che fanno della città un luogo innervato e profondamente diverso da un semplice insieme di alloggi affastellati.
L’autogestione, che pure si colloca dentro questa dimensione pubblica, all’attitudine resiliente deve però anteporre uno schietto e orgoglioso messaggio di resistenza: gli spazi di socialità e aggregazione, i giardini comunitari, le lotte sociali, sono presidi di libertà, espressione, inclusione. Nessuno sgombero, specie in questo interregno di incertezze e cambiamenti, può essere tollerato. La moratoria non sarà per altro annunciata dalla prefettura, la possiamo vergare sulle strade a partire da sabato 19 in Piazza Castello.
Ribattere incessantemente al quesito “di chi è” la città, ci distrae dal domandarci “chi fa” la città. Farci mettere all’angolo sul tema della legalità ci fa dimenticare quanto preziosa sia l’ostinazione a rompere le regole e spostarle in là. Dividerci nei rivoli dell’identità non ci permette di assumere la potenza di un fiume che mettere a fattor comune torrenti diversi e solo così si tuffa in acque salate.
L’indice di persistenza di questa campagna è una scommessa del tutto aperta, la tessitura di trame adeguate agli obiettivi non scontata, la pervicacia comunicativa forse non ancora pervenuta. Eppure qualcosa si è mosso a partire dall’attacco ai danni di Cascina Torchiera e RiMake. Dopo i punti totalizzati nel mese di luglio questa piazza deve lanciare un messaggio limpido alla città: di qui non ce ne andiamo. Da qui abbiamo fatto, facciamo e continueremo ad attraversare a modo nostro una città altrimenti più povera, fredda, ostile.
Non adattiamoci a vivere la città come leggiamo la storia, proviamo ad abitarla come leggiamo la fantascienza: uno spazio tempo in cui è doveroso, non solo possibile, sperimentare, immaginare, e liberare nuove forme di vita.
Abo
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