E.rosione R.esidenziale P.ubblica
Questa è una storia di erosione, quella che stiamo abitando.
Intendo l’abitare come la pratica del dare forma ad un luogo assorbendone tutto ciò con cui, in qualche modo, si viene a contatto e si contribuisce a definire: lo sguardo più o meno attento, gli odori, il tipo di suolo che si calpesta, gli incontri, l’idea che si ha di un luogo, la modalità di viverne la geografia e la toponomastica e ancora, tradirla, sabotarla, risignificarla. “La gente vive nel posto nel quale abito, intorno a me ma non ne vive neanche un attimo”, così veniva spinto il rap emergente dai luoghi e dai tempi battuti in modalità immediate dal Colle der Fomento. Parlavano di Roma intrecciando ritmi e fatti underground della fine dei Novanta, dipingendo traiettorie, raccontandola secondo ciò che rendeva abitudine la pratica costante di una critica alla vita quotidiana. E con quanta capacità suggestiva? Mentre scrivo però sono a Milano, quasi trent’anni dopo, in corso di erosione.
Parliamo di case popolari, un pochino, perché lo si fa sempre meno, per quello che resta: tutto qua! Certo, si resiste, si imparano a memoria numeri, si urlano slogan, si lotta un avamposto dopo l’altro fino a che se ne si avrà la forza. Le politiche abitative, entro le quali la città di Milano assume un carattere straordinario rispetto agli altri territori amministrati da apparati statali fattisi aziende controllate, procedono verso un baratro ritmato da violenza burocratica e strutturale, spaziale, tempistica e identitaria. Processi di aziendalizzazione del bene pubblico, trasformato in un ibrido in cui i soldi dei contribuenti di fatto servono a mantenere a galla delle decisioni imprenditoriali legate al rischio di tutti e al beneficio di pochi. I cortocircuiti, quando avvengono sulla dimensione tecnicistica dell’esistenza, vengono gestiti subito, maldestramente, certo, e anche per dei tornaconti. Quando avviene qualcosa che assume il carattere emergenziale, imposto da chi ha il potere di definirlo tale, inculcandolo attraverso l’onda dei media, come un semplice black out elettrico oppure un’esondazione, la percezione ordinaria dello spazio e del tempo, prima di tutto, vengono bruscamente meno: cortocircuito! Ah, se solo si fosse pronti ad assaltare l’esperibile, quando l’inciampo si fa cavalcabile, con una programmazione pronta nei cassetti dell’immaginario!
Qui però c’è un cortocircuito sociale, voluto o meno, che incombe. Le case popolari a Milano sono vittime degli obiettivi, dei finanziamenti, degli interessi privati e di poltrone pubbliche. Patrimonio, così viene definita la pubblica proprietà di edilizia residenziale, è già di per sé un termine da brividi. Ricalca poi di fatto altri dispositivi linguistici ben presenti in questi micro-mondi dai confini di senso negoziabili e flessibili. Nei contratti di locazione il prestampato, buono per tutte e tutti, standard di adesione legale alla disciplina imposta dall’alto, richiede che l’alloggio sia gestito “da buon padre di famiglia”. Ovviamente in questo c’è una leggibilità storica, non intendo dire che esiste un complotto o una gang che con estrema cognizione di causa tenga in scacco gli altri, è il progetto neoliberista il punto, forte perché incorporato nelle pratiche e nei modi di pensare, e il problema. E ancora quell’insieme di condizioni, transazioni, complicità escludenti e strette di mano che espropriano, inquinano, schiavizzano, sterminano per degli interessi temporanei (l’estrattivismo di fatto succhia con avidità fino a che ce n’è) e che minano a lungo termine la conservazione e la riproduzione della vita degna. La storia è una dimensione che procede per selezione. Si sente dire “e chi ti credi che le ha costruite queste? … Mussolini!”, espressione sempre seguita da una sorta di ghigno che gonfia il petto quel poco che basta per ergersi a conoscitori dei propri polli. Poi come gesto può sembrare anche una scoreggia, almeno a me così pare ma forse perché penso “prrrr” rievocando fantozziani universi nella mia mente viaggiante. Bè, sì, molte case popolari sono state fatte dal fascio che, come diversi studi dimostrano, ha devastato intere città per dare vanto e seguito alla propria pochezza. Si distruggeva il centro creando le periferie, si costruivano architettonicamente obbrobri corredati di squisitezze da controllo graduato e concentrico. Si notino i recinti attorno ai palazzi, il fatto che ci fossero dei delatori (custodi, come gli angeli) e che le case fossero abitate dalle masse lavoratrici accorse nelle città da molto lontano, come dal Nordest nel nostro caso e poi da un esoticissimo Meridione. Non ricordo chi mi ha detto una volta che, fino a trent’anni fa, avere origini meridionali fosse tenuto nascosto perlomeno quando i cognomi non andassero evidentemente a frantumare il progetto di clandestinità identitaria. Oggi invece fa cool poter dire che il nonno ha il trullo, che sarà trasformato in un glamping e che ci si va tutte le estati tra un villaggio turistico thailandese e un tuffo a Santorini. In ogni caso, nel ventennio farsa, si trattava di ampliare quel binomio illuminista di carcere e fabbrica, rendendolo effettivo in un periodo storico in cui gli esuberi creavano necessità di organizzazione, di lotta, di conflitto: roba da debellare. L’abitare è un fatto sociale totale perfettamente inseribile nel tutto ancor più ampio, direttamente dipendente da chi può definirlo. E quindi carcere, fabbrica, case popolari e patriarcato. Bè, per forza, almeno uno dei dispositivi, il patriarcato nel nostro caso, doveva essere già in qualche modo insito in ciò che viene ancora tramandato entro quei circuiti che si alimentano della necessità di prevalere su chi viene considerato debole in modo da nascondere la propria di debolezza. Essere già un fatto culturale, insomma intimo, parte delle relazioni sviluppate all’interno delle unità abitative concepite come spazi indivisibili, privati ed inviolabili. La gestione delle case popolari è andata di pari passo con la storia, adattandosi. L’adattamento è un processo pericoloso, nei suoi meandri osservabili da una quantità estrema di prospettive, perché è ciò che giorno per giorno succede e che aggregandosi contribuisce a determinare uno scenario comune. Sicuramente non è un qualcosa di naturale. Il nostro scenario è quello di un patrimonio, come dicevo, in erosione. È utile fare un esempio, ce ne sarebbero svariati, ma proprio tanti, cioè così tanti da potersi azzardare a dire che vi è una normalità.

Cara è una tipa, non è un padre di famiglia, buono figuriamoci. Non è sicuramente buona secondo le idee considerate oggettive di comportamento e di amministrazione del ruolo. Non è una buona donna, non è una buona lavoratrice, non è manco una buona madre. Cara è una persona, performa il suo essere e i suoi pochi averi, si muove in spazi oscuri o semibui, sfugge ad un possibile tentativo di averla sotto controllo, è il perfetto sabotaggio. Lei non va in vacanza e non fa apericene. Lei non festeggia il Natale, non utilizza trucchi e parrucchi, non sa che ore sono e spesso nemmeno che giorno è. Esperisce. Vive il momento e abita parti di città. Sa benissimo dove andare, quando e perché. Cara paga pure l’affitto di quel contratto residenziale pubblico che la vuole come buon padre di famiglia, perché la legge e poi il Comune e i suoi apparati hanno deciso che qualcun altro debba, in maniera fredda, spietata, impersonale, decidere quando e come disporre dei suoi soldi. Che in fondo sono tasse, è roba sanitaria legata all’invalidità, e magari è questo che alleggerisce il peso di chi di fatto è quella persona che amministra, ma vivendo solo la parte burocratizzata della sua esistenza ne mortifica le complessità umane e relazionali. Lo fa anche male, ovvio, viene da sé. Come si può vivere una vita altrui se non riducendola a schemi numerici, date, disposizioni, fondi, obiettivi e rendicontazioni? Reificandola la si trascina violentemente in una brutalizzazione che stravolge l’essenza umana, la sdoppia su diversi piani. In fondo è ciò che accade a tutti i buoni cittadini ma con lei si concettualizza meglio.
Cara riesce a dare un senso a questo scritto, forse. Lei viveva in una casa popolare in condominio privato. Anche questa può sembrare una straordinarietà, un controsenso spaesante a primo acchito. Ma è ciò che l’adattamento generale di sopra prevede attualmente. La svendita delle case dei buoni padri di famiglia, omettiamo le violenze domestiche latenti o evidenti, è la politica che si persegue, a braccetto con quella securitaria. Cioè: si vendono le case popolari, ad una ad una, mentre altre non se ne costruiscono. Erosione: è matematica spicciola, numeri che però sono vite. Cara era sconcertante per chi aveva comprato le unità attorno a lei, con dei costi più contenuti del mercato privato, sicuramente, ma al prezzo di vivere in concentrazioni urbane che nel senso comune subentrano come dormitori incasellati, come caserme, pachidermi esausti in calce e amianto. Adattamenti ingegneristici, lasciare meno spazi possibili alla tessitura di compartecipazioni orizzontali e dal basso, fare profitto, servire il e al capitale. Il sabotaggio di Cara sul piano estetico è evocativo. “…è una tossica per come si veste e per come ti guarda, sicuramente si prostituisce, di sicuro spaccia”. Viene facile pensarla così. “E poi tutti questi stranieri che frequentano casa sua, sempre ubriachi, spaccano tutto, fanno casino, sono anche clandestini”. E come lo sai? “eh…te lo dico io”. Ah, bè! Talvolta puzza. Sabotaggio! Di tutte le idee dell’essere buon qualchedunacosa di famiglia, prima, buon cittadino, poi. Eppure Cara è tanto altro. A lei piacciono i cornetti al cioccolato e i fermagli colorati sui capelli ingrigiti e bruciati, sorride sincera provando un po’ di imbarazzo quando qualcuno le fa un complimento e lei capisce che non è per abusarla facendo leva sulle sue necessità, piange quando sta male e succede spesso, percorre chilometri a piedi, caparbia come chi ha un obiettivo e lo vede pure, scavalca i muretti, siede sui marciapiedi, nutre di scarti i suoi sogni. Cara ama velocemente come se consumasse strisce sulle stagnole. Si arrabbia. Una volta l’ho sentita urlare dal balcone contro un uomo che la minacciava dalla strada. Urlava che “se provi a tornare io e le mie amiche ti meniamo di nuovo”. Perché sono loro a scegliere chi frequentare, quando sono ancora lucide per non essere inondate dalla frenesia di doversi fare ad ogni costo, quando per chiunque è il tempo per violare i suoi spazi. Cara è una tosta ed ha una coscienza che potrebbe diventare pienamente politica, sembra così prendendo questa sua uscita, però non conosce nessuna di più, non una di meno. Loro non conoscono lei perché Cara da sola è partita e da sola, forse, tornerà. Le figure che ha attorno, parlo qui di attrici e attori istituzionali, non le garantiscono ciò che dovrebbe avere in cambio delle tasse: non è questo il negoziato tra società e stato? L’uscita dalla paura e tutte quelle favolette lì? Cara è quel sottoproletariato tanto dibattuto dai padri, ci risiamo, delle teorie politiche dei grandi ideali. È quella condizione abitativa delle classi marginali, si potrebbe dire con romantica accezione storica ma guardando al qui ed ora. È qui una regola. Cara è stata rimossa, estirpata, spostata da quel pachiderma in riqualificazione, manovra facilitata dagli interessi che hanno adattato i regolamenti, che si inginocchiano all’erosione fino a che qualcuno dirà che è emergenza. Buona da vendersi la sua unità immobiliare, fare cassa è la manleva. Ora ha infestato un altro civico, un’altra via, un’altra zona di Milano che almeno, per ora, non è un condominio. Non ci sono di mezzo amministrazioni private, legittimi proprietari, persone che hanno acceso un mutuo che gli pesca più di metà dello stipendio che ha potuto permettergli di vivere né fuori né dentro, tra calce e amianto ma con del verde attorno non calpestabile da pagare, il metrò non così lontano, un supermercato a disposizione, parcheggi a non finire. Almeno non si è costretti a dover andare a vivere in provincia, a passare ore di vita nel traffico che conduce giornalmente alla proliferazione urbana, al suo mantenimento, alla sua riproducibilità a vantaggio del capitale. Gli è pure andata bene del resto a questi acquirenti. Cara è quel prezzo che hanno dovuto pagare, meno grave se si pensa che a mantenere in piedi questa città-deserto sono quelli che i mutui se li sognano non avendo le cosiddette garanzie che li inquadrano come buoni padri di famiglia e poi cittadini.
Di Cara ne è pieno: gran parte delle nuove assegnazioni di case popolari sono destinate a produrre isolamento, abbandono, reificazione umana. Entrano gli ultimi, anzi i penultimi, considerando che bisogna aderire a certi parametri come ad esempio avere dei documenti e che rispondano a determinati criteri. Ma di case nuove non se ne parla, i soldi ci sono a stento, ed è colpa delle occupazioni. Così dicono i giornali, i politicanti che hanno gli Isee a sei cifre quando denunciano tutto al fisco. Si assiste a fenomeni di privatizzazione, finanziarizzazione, turistificazione e marketing, piani periferie che nascono e poi decadono, filtraggi residenziali, creazione di demoni popolari buoni per pensare al contrappeso del buon padre di famiglia, del buon politico, del buono stato delle cose. Un paio di mesi fa a Rozzano c’è stato un convegno sulla situazione abitativa milanese che si è intitolato In difesa della casa. Io non è che ci sia andato, mi limito quindi a condividere ciò che ho raccolto sul web. Per comprendere l’entità di tale palcoscenico, utile specchietto alla nuova amministrazione del Comune situato a ridosso della città più europea d’Italia (sempre finché scusate il disagio ma una persona non autorizzata sta camminando sui binari perché dirvi che facciamo cacare può sollevare proteste istintive e magari rivolte del pendolare-non-mollare come recita uno sponsor da marketing metropolitano), quello stesso Comune dove stanno per piovere milioni di soldi pubblici atti alla pacificazione in stile Caivano, basti pensare all’europarlamentare leghista che lo ha organizzato. Tale Sabbella Qualsiasi, perché farle pubblicità? È una di quelle persone che di certo non ti rimane in mente: può essere confusa con una conduttrice di tg o di programmi sportivi degli ultimi vent’anni, giovane, desiderabile secondo standard imposti, guardando le sue foto riesci a sentire addirittura l’odore forte di balsamo e di centro commerciale. Di certo non si può dire che abbia un programma politico, non una nobile missione che la muova, chissà poi cosa farà tutti i giorni. Vabbè, è un’europarlamentare e l’Europa… una persona non autorizzata sta camminando sui binari. ‘Staqquà è una sostenitrice del movimento (leggi rigurgito 2.0) di reimmigrazione, lo fa attraverso quei manifestini social che un minimo approfondimento lo meritano. Utilizzano immagini forti, coloniali mi viene da dire, in cui un feroce negro mostra i denti con tanto di bava e gli occhi strizzati, di fianco una giovane donna bianca che tenta di proteggersi da un imminente attacco. Le scritte brutali come stupro, abuso, fermiamoli si stagliano con caratteri esplosivi sullo sfondo. Manifestini urlanti che di fatto sono buoni perché guardandoli si possono immaginare voci che sentiamo ogni giorno, di gente che con la stessa bava sostiene quella robaccia lì, decontestualizzando eventi e giocando a farsi ingrossare il cazzo udendo la propria stessa voce per poi sborrarsi negli occhi urlando felice. Meschini. Ogni tanto un pensiero si fa strada nella mia testa: vorrei essere stupido, dico, per stare meglio, succede di solito il lunedì mattina quando mi alzo ed è anche brutto tempo. Poi un amico l’altro giorno mi ha fatto scoppiare dal ridere facendomi presente che quel pensiero è condiviso, frutto della desolazione della non-rivolta che ogni tanto bussa alle porte della percezione. Lui ha detto: “io invece spero che il lunedì mattina piova proprio, pensa come sono messo”. Vabbè eravamo dignitosamente alticci e ciò ha contribuito a sdrammatizzare il momento di sconforto ma il punto non è questo. Il punto è sto convegno che io trovo prima di tutto un insulto ad un libro di Marcuse e Madden che parla di diritto universale all’abitare, di come si possa intervenire affinché questo diritto sia riconosciuto e significato dal basso, incontrando le occorrenze storiche, economiche e sociali dei nostri tempi. Ma quelli là mica lo sapevano, ovviamente. È bizzarro come un titolo possa essere così polivalente. Al convegno c’era anche un tipo, tipo una guest star, tipo un divo, che è stato assessore regionale alla casa, tra altre mansioni, figlio di uno dei fondatori del berlusconismo e dei suoi rituali, e che dopo alcuni giorni è stato nominato presidente di una delle due aziende di edilizia residenziale pubblica di Milano. Quella a destra se proprio si vuole ancora fare una divisione di senso comune. La spartizione deve rimanere perfetta, se guardiamo la storia recente è così, una divisione dei ruoli e degli stipendi annessi, in modo che nessuno della grande famiglia possa essere lasciato indietro, fin quando serve. Sono cariche scelte dalla famigerata quanto impersonalizzata politica, gente piazzata qua e là in base a cosa serva al momento. Impossibile tra le due aree collaborare nella quotidianità, nelle attività, in adattamenti che farebbero buon gioco a entrambe assicurando una migliore gestione del tutto, fosse anche per questioni di facciata. A subirne le nefaste conseguenze sarebbe il dualismo farsa che non troverebbe più spazi di riproducibilità. Possibile, anzi auspicabile, per loro, la collaborazione se fatta sul piano della repressione e di ciò che questa pratica di governo della democrazia rappresentativa esalta. Sto tipo, il nuovo insediato, ha fatto un post social il giorno dopo aver partecipato al convegno in difesa della casa fatto nella Rozzano in cui stanno per piovere milioni pubblici, come di consueto accade per dare corpo ai propri curricula social, alla propria immagine e alla propria, in questo caso, candidatura alla nomina. Il post parla del problema grosso che attanaglia l’edilizia residenziale a Milano. Io non nascondo la curiosità che ha spinto i miei occhi ad andare velocemente a capo, superando al volo l’emoticon del bersaglio centrato dalla freccetta e poi leggere: le 400 occupazioni di via Gola. E poi sotto, altro bersaglietto colpito: un tavolo prefettizio in cui si collaborerà con Comune, Regione, eccetera eccetera è già stato richiesto. Anche questa volta ho riso forte ma non ero dignitosamente alticcio perché ero condotto lì da uno di quei viaggi mentali che mi faccio la mattina, mentre odio più forte. Ridevo perché l’altro giorno ero in via Gola. Sono arrivato nel tardo pomeriggio, percorrendo buona parte di città, passando per il centro, scendendo da un autobus sulla Darsena assaltata da folle che riempivano i marciapiedi e i vari bistrot tutti uguali. Ho cercato la porzione di terreno fruibile meno trafficata per sguisciare via veloce passando come uno spettro tra turisti e city users, sono arrivato lì. L’amico mio era ovviamente in ritardo, stava facendo dei lavori di manutenzione a casa sua. Dove casa non è da intendere come buco di tot metri quadri in cui dorme e mangia ma come spazi che attraversa e negozia con le contraddizioni che rendono stimolante quel quartiere, a livello di concetto, perché viverlo è poi veramente difficile, stancante, a tratti soddisfacente ma sicuramente in un continuo fermento di stress fisico ed emotivo. È un vivere abitando, è come se i due termini qui non siano più così scindibili. Non ho percepito insicurezza, certo non sono una donna sola, non indossavo sandali e calzettini mostrando una macchina fotografica, non sembro uno sbirro o un giornalista, nemmeno un colletto bianco che si è perso. Ma sono certo che chiunque dica qualcosa come “eh ma in questo e quel quartiere ormai non ci si può mettere piede” non è che ci abbia mai provato… L’ho aspettato al bar, dove avrei voluto bere un campari ma ho ceduto alla sua proposta, perché mi fido ad occhi chiusi del mio compagno, di bere dei bianchi col ghiaccio. Che poi è come bere uno spritz ma senza parti rosse. Eravamo lì da un po’ a parlare di guai quando un vociare forte ci ha portato ad alzarci, a vedere cosa stesse succedendo. Abituati ad abitare gli spazi in un certo modo, cercando di non voltare mai l’attenzione se qualcosa accade, perché la delega alle autorità di fatto non è altro che menefreghismo e codardia, ci siamo uniti a tutte le persone che erano nel raggio sonoro di quelle urla, accorrendo come loro, contemporaneamente. Un uomo aveva fatto una grossa cazzata, allungando le mani su di una ragazzina. Sanzione sociale. “Non tornerà in zona, magari non lo fa neanche più”.
Non è che voglio fare l’apologia di via Gola, anche perché lì si cammina su dei fili così sottili che ciò che si esalta oggi può diventare negazione di ciò che si disastra domani, ma sono convinto che ciò che spaventa, perché buono per spaventare, siano le relazioni dal basso, quelle in grado, di sabotare il progetto di subordinazione calato dall’alto e incorporato nel senso comune del vivere individuale. E quindi val bene considerare quel territorio, come è stato fatto per altre vittime di interessi economici, come obiettivo principale di manovre securitarie. Politiche socio-economiche che continuano a rendere erodibile ed in erosione tutto un complesso marchingegno gestionale che arriverà, per forza di cose, a diventare vera emergenza. Nel frattempo, basterà rimuovere i cantieri sequestrati, le aree sottratte al pubblico, i progetti di riqualificazione economica. Rimuoverli dalla narrazione, come si fa con Cara, al massimo dipingendoli come intoppi, eccedenze e fastidi numerici. Riusciremo a raccogliere i frammenti sparsi delle condizioni sociali avanzando verso un abitare comune e restituendo così la giusta complessità alla vita?
Questo scritto non ha una conclusione, non si presume di voler tirare delle somme o di lanciare proclami. Avevo bisogno di sfogarmi perché altrimenti brucio tutto. Però, se lo faccio solo io, sarebbe solo il gesto di un pazzo, ormai eroso.
Suggestioni e fonti in ordine sparso tratte da:
Il cielo su Roma – Colle der Fomento.
In difesa della casa. Politica della crisi abitativa – Madden e Marcuse
Scirocco – Murubutu feat Rancore
Milano fantasma. Etnografie di una città e delle sue infestazioni – Grassi, Pozzi, Verdolini
La questione delle abitazioni – Engels
Critica della vita quotidiana – Lefebvre
Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana – Sahlins
Clan Ramona
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