[DallaRete] Andrea Fumagalli Andrea Fumagalli. Jobs Act e Loi Travail: l’istituzionalizzazione della trappola della precarietà
Intervista ad Andrea Fumagalli, a cura di Roberto Ciccarelli, Rapporto sui Diritti Globali.
Rapporto Diritti Globali: Jobs Act e poi Loi Travail: qual è il senso di queste riforme del mercato del lavoro?
Andrea Fumagalli: Sono leggi inquadrate in mercati del lavoro strutturalmente diversi, con tradizioni giuslavoriste differenti, ma un punto in comune esiste: si tratta dell’istituzionalizzazione della condizione di precarietà, come nuova forma principe del rapporto di lavoro. Questa istituzionalizzazione ha due finalità: da un lato, porre fine all’anomalia precaria, generalizzandola e superando la dicotomia tra lavoro stabile e instabile, insiders e outsiders. La seconda finalità: andare incontro a una individualizzazione sempre più strutturata del rapporto di lavoro. Di fatto eliminando qualsiasi forma di intermediazione organizzata e contrattuale. Nella Loi Travail, in maniera esplicita, l’articolo 2 stabilisce la priorità della contrattazione individuale rispetto a quella collettiva e rispetto alle norme di tutela giuridica del rapporto di lavoro su base nazionale. In Francia il contratto collettivo non può essere peggiorativo della legge nazionale, e quello di secondo livello rispetto a quello collettivo. Questo ordine gerarchico viene completamente rovesciato. Un dispositivo del genere nel Jobs Act non esiste in modo diretto perché non necessario, essendo introdotto nella pratica con il contratto di lavoro a tutele crescenti, oltre che con una serie di tipologie contrattuali che ha uno spettro di utilizzo ben più vasto che in Francia.
RDG: Jobs Act e Loi Travail sono un tassello di una riforma economica complessiva, richiesta sia dalla Commissione Europea che dalla BCE. Può descriverla?
AF: Da questo punto di vista l’Italia si trova in una situazione capitalisticamente più avanzata nel processo di deregolamentazione. Negativamente, il nostro Paese svolge la funzione di apripista rispetto all’Europa perché nella legge francese mi sembra che comunque alcune garanzie permangano a contratto firmato. Le leggi tedesche Hartz (I_e IV) si limitano a sancire un dualismo contrattuale. Come quello vigente in Italia prima del Jobs Act e della riforma Fornero sui licenziamenti. Questo rientra in una filosofia della governance del mercato del lavoro a livello europeo. La parola chiave del progetto europeo non è più quella di garantire un’occupazione stabile, nonostante che nella Carta di Nizza venga sancito il concetto che il rapporto di lavoro valido è quello stabile e a tempo indeterminato. Il termine occupazione viene sostituito dal termine occupabilità, employability. Si vogliono creare le condizioni legislative e concrete perché un soggetto potenzialmente lavoratore o lavoratrice sia occupabile, ossia sia a tal punto ricattabile da essere messo in condizione di accettare qualsiasi offerta di lavoro. In Italia la situazione è ancor più grave perché, come è noto, il sistema di sicurezza sociale è di gran lunga meno esteso in termini di sussidi diretti e indiretti al reddito di quello operante in Germania o in Francia. In Germania perché, oltre alle forme di social security, esiste un salario minimo, recentemente introdotto, e in Francia perché oltre al salario minimo ci sono anche forme di reddito minimo di solidarietà attiva. In Italia il sistema degli ammortizzatori sociali non è mai stato riformato e fa riferimento a una figura che non è più quella rilevante, ovvero il lavoratore assunto a tempo indeterminato. Non stupisce al riguardo il fatto che, nell’ultimo Rapporto ISTAT sull’esclusione sociale e la povertà, l’incremento della povertà assoluta e relativa colpisca tendenzialmente in modo maggioritario i giovani nelle realtà metropolitane e già inseriti all’interno di un’attività lavorativa precaria. Le nuove povertà non riguardano più solo coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro, pur continuando a interessarli, disoccupati o pensionati poveri, ma sempre più fasce interne al mercato del lavoro, e in particolare i giovani di età tra i 25 e i 44 anni. Di fatto, quando parliamo di precarietà, parliamo di istituzionalizzazione della trappola della precarietà.
RDG: Che cosa si intende per “trappola della precarietà”?
AF: L’idea che chi è precario non si trova più in una condizione congiunturale o temporanea, la precarietà non è più un dazio da pagare per un inserimento stabile nel mercato del lavoro, ma una condizione strutturale, esistenziale e generalizzata, da cui è sempre più difficile uscire.
RDG: In un articolo per “Le Monde Diplomatique”, ha definito il Jobs Act come il grande bluff di Renzi. Cosa intende?
AF: Due cose: la narrazione statistica, con tutto l’effetto politico e immaginario che ne consegue. E l’idea che il Jobs Act aumenti le tutele dei lavoratori.
RDG: Non è così?
AF: No, perché il contratto a tutele crescenti, da un punto di vista statistico e formale, viene annoverato tra i contratti a tempo indeterminato quando invece non fa parte di questa fattispecie.
RDG: E di quale fattispecie fa parte?
AF: È un contratto precario e a termine, cioè a tempo determinato. Infatti prevede che un lavoratore assunto con questo contratto per i primi tre anni possa essere licenziato anche senza giusta causa, a meno di palesi discriminazioni vietate dalla Costituzione. In questo caso l’onere della prova è a carico del lavoratore e ha un costo per l’azienda molto ridotto nel caso perda: da due a un massimo di sei mensilità. E solo i lavoratori che hanno passato i tre anni (di fatto un lungo periodo di prova) possono essere assunti a tempo indeterminato. I dati presentati da Matteo Renzi hanno evidenziato un boom nell’uso di questo contratto nel corso del 2015. I dati sono stati drogati dalle particolari condizioni di incentivi fiscali e contributivi a vantaggio delle aziende che potevano risparmiare sino al 60% del costo lordo per lavoratore. Una cifra di circa ottomila euro annui su circa 15-16 mila euro. Incentivi già ridotti dal gennaio 2016, che hanno comportato un costo stimabile in oltre tre miliardi di euro. Questa riduzione, dal punto di vista statistico, ha portato a una forte riduzione nei primi mesi del 2016 nell’uso di questo contratto. Più del 50% in meno rispetto all’anno precedente, con una ripresa nell’uso dei contratti a termine che erano stati già ampiamente liberalizzati con la riforma Fornero. È facile attendersi che, nel momento stesso in cui gli incentivi cesseranno del tutto, l’utilizzo del contratto a tutele crescenti verrà meno a vantaggio di altri contratti precari. E gli ultimi dati (agosto 2016) – che hanno visto un calo dell’occupazione – lo confermano al punto che il governo Renzi (smentendo clamorosamente sé stesso) sta pensando di togliere del tutto gli incentivi fiscali all’assunzione visto il rapporto costi-benefici che ne deriva. Non si capisce né si vede dove in tutto ciò stia un aumento dei diritti e delle tutele del lavoro, considerando che questo contratto liberalizza il licenziamento e riduce il rimborso del lavoratore. La riforma Fornero aveva già liberalizzato i licenziamenti individuali ma permetteva fino a 20 mensilità di rimborso a indennizzo del licenziato. Quindi si ha uno scarrucolamento verso il basso delle garanzie di reddito e delle tutele in caso di licenziamento.
RDG: In Italia non ci sono state resistenze significative contro le riforme del lavoro. In Francia invece sì, al punto che il governo ha fatto passare la sua riforma ricorrendo all’articolo 49.3 della Costituzione, che evita il dibattito parlamentare. Quali sono le indicazioni più interessanti del movimento francese?
AF: Sicuramente, sulle questioni del lavoro, in Francia c’è sempre stata una capacità di resistenza assai maggiore. Prima delle lotte sulla Loi Travail, lo confermano le lotte nel 2006 contro il CPE, vale a dire il Contrat Première Embauche, contratto di primo impiego. Ciò è dovuto a una struttura produttiva in cui la figura del padrone e la figura del salariato dipendente sono sempre state ben evidenti. In Italia, invece, il processo di precarizzazione è iniziato più di venti anni fa, la fascia grigia nella quale la separazione tra dipendente salariato e padronato si stempera è aumentata con lo sviluppo di forme di lavoro autonomo, false partite IVA, piccoli padroncini. Vi è quindi in Italia una diversa composizione del lavoro vivo e della struttura produttiva. Oltre tutto, in Francia ci sono meno piccole imprese che in Italia. Il livello di welfare in Francia, pur in via di ridimensionamento, rende la capacità contrattuale e conflittuale dei lavoratori meno soggetta a ricatti. Esiste un livello di dumping sociale inferiore a quello esistente in Italia. Occorre inoltre considerare il ruolo svolto nelle manifestazioni da marzo a luglio 2016 da alcune forze sindacali come CGT e Force Ouvriére, fattore che in Italia è mancato nell’opposizione contro il Jobs Act. Le organizzazioni sindacali in Italia hanno svolto un ruolo di tappo a possibili forme di mobilitazione sociale sulla condizione della precarietà.
RDG: Per quale motivo?
AF: Perché il sindacato tradizionale ha sempre preferito come strategia, ma anche come forma mentis, politiche di tipo concertativo. Con l’illusione che politiche cedevoli potessero in qualche modo frenare i processi di precarizzazione in corso e in atto da tempo. Nonostante ciò, bisogna riconoscere che prima che la crisi economica iniziasse a mordere in maniera pesante, tra il 2010 e il 2011, si erano verificate nel nostro Paese forme autonome di mobilitazione (una sorta di “autonomia precaria”) fuori dai sindacati tradizionali che avevano visto l’emergere di movimenti precari tra i principali in Europa.
RDG: E perché si sono fermati?
AF: Il vertice è stato raggiunto nella manifestazione del 15 ottobre 2011 a Roma, dopo quelle contro la riforma della scuola e dell’università, ma non sono stati in grado di creare processi di coalizione e di unificazione delle diverse realtà precarie fortemente differenziate. Possiamo dire anche che una certa litigiosità interna ai movimenti non ha sicuramente facilitato il compito. Il risultato è stato che le forme di autorganizzazione e di autonomia precaria negli anni succesivi e nel pieno dei morsi della crisi non sono state in grado di rilanciare un’iniziativa politica ampia.
RDG: Dopo l’approvazione della Loi Travail gli stessi problemi si porranno in Francia?
AF: La sconfitta del movimento francese, a meno che in autunno non riparta la lotta, ha mostrato come le parti più innovative dei movimenti autoganizzati rappresentati da Nuit Debout abbiano avuto delle impasse e difficoltà, stretti tra l’emergenzialità terroristica e il crescente populismo della destra lepenista che ha fatto si che la parola d’ordine molto forte “noi non rivendichiamo nulla” non sia stata in grado di sedimentarsi nella critica non solo della riforma del mercato del lavoro ma anche in quella dei pilastri dell’ordoliberismo finanziario che, seppur in crisi, è ancora dominante, in Francia come in Europa.
RDG: Come si torna a fare politica in queste condizioni, non solo o in Francia ma in tutta Europa?
AF: Personalmente credo che la possibilità di un lungo viaggio all’interno di istituzioni politiche sempre meno rappresentative con l’obiettivo di un cambiamento dall’interno abbia poche possibilità di riuscita. L’esempio greco di Syriza, ma anche le difficoltà spagnole, sembrano confermare questa tendenza. D’altra parte, una strategia puramente resistenziale e movimentista non mi sembra che sia in grado oggi di coagulare una massa d’urto sufficiente. L’unica possibilità potrebbe essere quella di creare spazi di autonomia costituente.
RDG: In cosa consistono?
AF: Creare circuiti produttivi e monetari in grado di non essere sussumibili dal sistema capitalistico. È quello che definisco la moneta che remunera il comune (Moneta del Comune). Bisogna essere in grado di dotarsi dei mezzi necessari per un’alternatività di autodeterminazione e di auto-organizzazione dell’esistenza. Faccio riferimento a sperimentazione nel campo dell’auto-produzione di valore – valore d’uso e non di scambio – alla costruzione di circuiti monetari autonomi in grado di appoggiare o finanziare non solo attività di scambio, ma anche di intervenire su tutto il ciclo di produzione.
RDG: Concretamente?
AF: Investire in forme alternative di produzione in grado di favorire forme di remunerazione del lavoro vivo e della cooperazione sociale e provvedere a servizi di welfare dal basso. È ciò che definiamo un modello produttivo dell’essere umano per l’essere umano. Si potrebbero creare spazi in grado di perpetuarsi e auto sostenersi nel tempo, indipendenti e in grado di contaminare le forme mercificate della produzione capitalistica, riducendo la ricattabilità e la dipendenza dal mercato e garantendo forme di reddito che consentano di potere scegliere e di esercitare il diritto alla scelta della propria vita.
È un processo lungo, ma ha il vantaggio di creare esempi di alternatività qui e ora e, eventualmente, di dotarsi di quella capacità contrattuale e di interlocuzione con le istituzioni politiche e economiche vigenti.
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Andrea Fumagalli: è professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Pavia, dove ha insegnato Macroeconomia e dove insegna Teoria dell’impresa. Ha pubblicato studi e interventi sulle riviste scientifiche “International Journal of Political Economy”, “Review of Social Economy”, “Small Businness Economics”, “European Journal of Economic and Social Systems”, “L’Industria”, “Studi Economici”, “Economia Politica”. Tra i suoi libri più recenti: Il mercato del lavoro: problematiche e trasformazioni (UPAD, Bolzano, 2003); Il lavoro. Nuovo e vecchio sfruttamento (Edizioni Punto Rosso, Milano, 2006); Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Verso un nuovo paradigma di accumulazione (Carocci Editore, Roma, 2007); Sai cos’è lo spread? Lessico economico non convenzionale (Bruno Mondadori Editore, Roma, 2012); Lavoro male comune (Bruno Mondadori Editore, Roma, 2013).
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