Foto di Massimiliano Tiberio
Arriviamo poco prima delle 15 al Centro Sportivo Saini, al limite nord di Parco Forlanini, per una partita dell’ultimo turno del girone d’andata del torneo UISP: Black Panthers FC – Brigata Dax.
La nebbia è già quella spessa di certe giornate nelle periferie milanesi e le squadre fanno riscaldamento in un’atmosfera spettrale; il freddo è insostenibile. I Black Panthers FC sono una squadra di ragazzi africani, tutti richiedenti asilo dei centri d’accoglienza di Milano; vengono da Senegal, Gambia, Somalia, Costa d’Avorio e Ghana. Oltre ad allenarsi regolarmente e partecipare a tornei, portano avanti delle rivendicazioni sui diritti dei migranti, parlano di migrazioni nelle scuole e supportano le iniziative delle associazioni che si occupano di accoglienza, come Naga e Zona 8 Solidale.
“Molte persone sono venute attraverso il mare dall’Africa in Europa, a causa di problemi molto differenti” dice Mamadou, senegalese, che intervistiamo dopo la partita. “Ora siamo tutti qui, e abbiamo deciso di creare una squadra di calcio per giocare insieme e restare insieme”.
La squadra nasce nell’autunno 2015 dall’incontro dei ragazzi del centro sociale Lambretta e di quelli del centro di accoglienza di Via Aldini; nonostante la giovane età ha già vinto un torneo di calcio a 11, quello dell’associazione Olinda, il 25 giugno scorso.
Foto di Massimiliano Tiberio
Se il calcio serve a rompere un muro comunicativo, i messaggi più politici dei Black Panthers sono tutt’altro che superficiali e vanno al cuore del sistema di accoglienza europeo.
In occasione del ventiduesimo rapporto della fondazione ISMU, i Black Panthers ritirano il premio come miglior progetto milanese sul tema delle migrazioni, ma l’intervento di Sulay Jallow, gambiano, rompe il rituale paternalistico di questo tipo di cerimonie. In sala ci sono una serie di figure importanti: Mario Morcone, capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del Ministero degli interni, Alessandro Marangoni, prefetto di Milano, e Riccardo Clerici, Responsabile Unità Protezione per l’Italia dell’UNHCR. Dopo i ringraziamenti, Sulay chiede un minuto di silenzio per i migranti morti nel Mar Mediterraneo, non programmato a giudicare dalla reazione dei presenti, e che durerà davvero un minuto intero, a differenza di quelli del calcio mainstream. Quando riprende la parola non è per chiedere carità o solidarietà emotiva, ma diritti di fatto. “[Giocare a calcio, ndr] è anche uno strumento di emancipazione per i migranti. […] Quando scendiamo in campo lo facciamo soprattutto per mettere in luce le condizioni in cui vivono i migranti in Italia e chiedere più diritti“.
Non solo condizioni dignitose nei centri d’accoglienza; i Black Panthers vogliono la fine della distinzione tra rifugiati di vario tipo e migranti economici, perché tutti loro fuggono da condizioni inaccettabili, e tutti devono avere un permesso di soggiorno per poter ‘esistere’; dopo un’attesa di anche 2 anni, il 70% delle richieste d’asilo viene bocciato scaraventando i migranti in un limbo assurdo, per cui lo Stato gli intima di andarsene ma loro non hanno i soldi per farlo (né la volontà, viste le condizioni politiche ed economiche di paesi come il suo Gambia); finiscono quindi in mano alla criminalità organizzata (‘il più grande regalo che lo Stato possa far[le]’) o per strada per una questione burocratica, per un reato – quello di clandestinità – che deve cessare di esistere.