[DallaRete] La working class inglese spinge il Regno Unito fuori dall’Europa
Il Regno Unito è fuori dall’Europa e gli strati più poveri della popolazione hanno votato in massa per la BRexit.
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La giornata di giovedì 23 giugno 2016 verrà ricordata negli anni come una data storica. Non, ovviamente, nell’accezione del leader dell’UKIP Nigel Farage, che l’ha prontamente proclamata “Independence Day”, ma per la sua portata e per gli interrogativi che pone dopo un’attenta analisi del voto. Incrociando i redditi medi per contea, l’appartenenza sociale media (sì, nel Regno Unito c’è una classificazione della popolazione per “classi sociali”) e le percentuali “Leave” e “Remain” emerge in modo netto che la cosiddetta working class ha votato in massa per la BRexit. ll voto di questo strato sociale (ormai più working poor che working class) è stato un voto di paura, di preoccupazione per il futuro, di frustrazione e rabbia per le condizioni di avanzata povertà nelle quali versano milioni di inglesi. Un dato su tutti, l’esplosione del numero di senza tetto, quadruplicati nella sola Manchester in 5 anni e con un’elevata percentuale di giovanissimi, spesso teenager. I tagli alla spesa sociale e ai benefits hanno avuto un impatto devastante. Da questo punto di vista, quindi, è stato un voto per riconquistare voce e visibilità da parte di chi compare sui giornali solo quando si tratta di dipingere i beneficiari di sussidi come dei parassiti.
È stato anche un voto contro gli euroburocrats, che, “non eletti da nessuno” (il bersaglio preferito è, come sempre in questi casi, la Commissione Europea), danno pagelle e comandano i sudditi di Sua Maestà: che vergogna per il fu Impero Britannico! Ed è stato anche un voto di vendetta: vendetta contro la middle class laureata, sempre più distante e inaccessibile alla working class (e non solo per le 9.000 £ di tassa di iscrizione annuale agli atenei, ma piuttosto a causa di un sistema sociale rigido ed escludente), e contro Londra e la City, ardita sostenitrice del “Remain”. Da questo punto di vista il voto BRexit della fetta più povera della società inglese potrebbe quindi essere visto come una vendetta di classe. Infine, un voto che fa emergere un razzismo, latente e non, sempre più forte in Gran Bretagna.
Ma andiamo per punti.
L’impoverimento, l’esclusione sociale e l’Unione Europea
Se si prende in esame l’Inghilterra e si tolgono i voti di Londra dal conteggio, il quadro che emerge è molto più nitido e chiaro: il “Leave” vince con oltre dieci punti percentuali di vantaggio, 55,3% a 44,7%. Un voto che proviene principalmente dall’Inghilterra profonda, rurale e povera, la cui principale occupazione è l’agricoltura, e che fino a giovedì sopravviveva, ironia della sorte, grazie a ingenti sovvenzioni UE provenienti dalla PAC (Politica Agricola Comune, che pesa circa il 40% sull’intero budget UE). Tuttavia sarebbe fuorviante attribuire un eccessivo peso al divario fra il voto nelle metropoli e quello nei piccoli centri. Molti boroughs periferici di grandi città che hanno votato a favore della permanenza nell’Unione Europea, come Londra e Liverpool, hanno invece votato in massa per BRexit. Così come hanno votato in prevalenza per il “Leave” città di medie dimensioni come Birmingham e Sheffield che hanno sofferto in modo rilevante la de-industrializzazione del paese iniziata negli anni ‘80.
Tutte parti del paese – l’Inghilterra rurale, le periferie e le grandi città del carbone e dell’acciaio – che negli ultimi 20 anni hanno subito un ulteriore impoverimento dettato dal cambio di paradigma di accumulazione della ricchezza: dal fordismo all’ingegneria finanziaria e allo smantellamento dello stato sociale, iniziato dalla Thatcher ma proseguito con zelo da chi l’ha seguita, New Labour in testa. Politiche governative fondate sulle privatizzazioni dei servizi pubblici e delle infrastrutture (emblematico il caso delle ferrovie, ripubblicizzate dopo diversi incidenti gravi); sullo smantellamento progressivo del sistema sanitario nazionale (NHS); sull’introduzione della previdenza integrativa di fronte alla diminuzione delle prestazioni pensionistiche. Senza dimenticarsi, naturalmente, l’immancabile riforma del mercato del lavoro che ha aperto la strada a una rapida e diffusa precarizzazione della forza lavoro attraverso i mini-jobs. Il tutto recentemente condito da ulteriori tagli alla spesa pubblica, mentre si approvavano politiche fiscali molto generose per i grandi capitali e le corporations e il salvataggio plurimiliardario delle banche nel 2008, il più dispendioso in tutto lo spazio europeo.
Questi sono gli ultimi 30 anni delle politiche economiche anglosassoni: è il neoliberismo, baby! Così l’Inghilterra è diventato il paese più diseguale d’Europa, il più classista, con una mobilità sociale vicina allo zero. Se nasci dalla parte sbagliata, devi sperare di vincere all’Euromillion. Questa rigida stratificazione sociale, altamente correlata al livello di istruzione raggiunto (più che nel resto d’Europa), affiancata dalla retorica dell’opportunità e della meritocrazia, ha condotto ad una diffusa colpevolizzazione (ed auto-colpevolizzazione) di chi non riesce ad “arrivare in alto”, dipinto, anzi, come un parassita dei benefits.
La campagna per il “Leave” è riuscita a ricondurre questi problemi sociali all’implementazione di politiche economiche imposte dall’Unione Europea, per quanto questa tesi sia priva di fondamento. Naturalmente, questo ha fatto leva anche su una profonda ignoranza del funzionamento dell’UE da parte dei cittadini inglesi, come dimostra l’impennata delle ricerche su Google.uk su cosa fosse l’Unione Europea durante le ore successive allo shock BRexit (seguita dall’impennata delle ricerche “how to emigrate”…).
Tuttavia, il più grande aiuto a questa distorsione della realtà è arrivato proprio dall’Unione Europea, che nell’ultimo decennio (e quindi ben dopo l’inizio del Thatcherismo) ha imposto misure di austerità ad altri paesi, PIIGS in testa, molto simili al neoliberismo made in UK: rigidità economica ispirata dagli interessi del capitale finanziario; ingenti tagli allo stato sociale; privatizzazione dei servizi pubblici, messa in vendita, se non in saldo, dei beni comuni; legislazioni sul lavoro che rasentano lo schiavismo. Non è un caso che l’anno scorso i media inglesi abbiano dato ampio spazio al braccio di ferro Bruxelles-Atene: in alcuni casi in chiave anti-UE tout court. Così è stato facile per Farage e Johnson estendere le responsabilità dell’Unione Europea anche alla situazione britannica, imputando le misere condizioni di vita di un’ampia fetta della società inglese alle politiche di Bruxelles e, soprattutto, incutendo timore per un futuro ancora targato UE.
Decisivo, nella riuscita di questa campagna, il ruolo giocato da Corbyn e Cameron. Il primo, proveniente dal socialismo euroscettico inglese degli anni ‘80, non si è esposto fino in fondo per il “Remain”, conscio della pancia anti-UE di quello che una volta era l’elettorato storico del partito laburista. Il suo motto “Stronger In” non ha avuto molto seguito (seppure il 60% degli elettori del Labour abbia votato per la permanenza nell’UE). Cameron d’altra parte non aveva nessuna credibilità nel sostenere le ragioni del “Remain”, soprattutto in seguito al negoziato per ottenere condizioni più vantaggiose per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Negoziato dall’esito fallimentare, visto che l’unico risultato strappato da Cameron è stata la sospensione dei benefits agli EU migrantsper i primi 4 anni di permanenza nel Regno Unito: un giro di vite ai cosiddetti benefit-tourists. Nessuno dei leader dei due più grandi schieramenti britannici ha inoltre avuto il coraggio di dire che il Regno Unito, essendo fuori dall’Euro, non doveva soddisfare gli stessi rigidi parametri che devono invece essere rispettati nell’Eurozona o che il Regno Unito versa meno della metà dei contributi che vengono invece richiesti a paesi dalle dimensioni comparabili (Italia e Francia). In fondo, questa campagna referendaria ha mostrato quanto la società inglese sia convintamente euroscettica.
Si voleva indietro la propria sovranità: we have to take back the control of our country! Che cosa, poi, significhi sovranità al tempo dell’economia globale, non è chiaro, ma è evidente il rimando alla grandezza imperiale, un immaginario forte che rischia di avere seguito fra chi ha meno. Non è un caso che Farage abbia parlato di restituire centralità al Commonwealth.
La questione migratoria e il razzismo latente
La partita più importante si è tuttavia giocata sul terreno dell’immigrazione. L’assist, anche qui, è stato di Cameron (un errore dopo l’altro…) che attraverso la trattativa con l’UE per fermare i “turisti dei benefit”, ha direttamente identificato questi ultimi come la radice di tutti i mali dell’economia britannica. L’ “ondata migratoria” proveniente dall’Est Europa diventata comunitaria è stata, infatti, da una parte il capro espiatorio per la caduta dei salari e il per il peggioramento delle condizioni di lavoro, mentre dall’altra è stata ritenuta responsabile dell’implosione dello stato sociale, fra erogazione di sussidi e prestazioni sanitarie. Secondo la narrazione del “Leave”, quindi, non sono stati i tagli e le riforme della Thatcher e del New Labour le cause dello sgretolamento del welfare state britannico, ma gli EU migrants.
Lo scontro si è naturalmente ben presto spostato sull’immigrazione in generale, rivelando forti pulsioni razziste soprattutto verso musulmani e persone provenienti dall’estremo oriente, cinesi in primis. A nulla sono valse statistiche incontestabili, pubblicate dall’Economist, in cui veniva chiaramente illustrato come i migranti contribuiscano al welfare britannico più di quanto ricevano sotto forma di assistenza e, soprattutto, come questa situazione sia rovesciata per gli inglesi, generalmente più vecchi di chi emigra nel Regno Unito e meno qualificati degli EU-migrants. Naturalmente, nei piccoli centri, molto meno permeabili alle migrazioni rispetto alle grandi città, questo discorso ha attecchito più facilmente, così come in quelle fasce di popolazione che svolgono mansioni per le quali non è richiesta una particolare qualifica.
I toni, sul tema dell’immigrazione e delle frontiere (in un paese che non applica il Trattato di Schengen) sono stati, a dir poco, molto accesi. Anche perché questa è stata una campagna referendaria dai potenziali costi politici vicino allo zero. Infatti, Farange ha avuto carta bianca, mentre l’unico del fronte del “Leave” che dovrà pagarne le conseguenze sarà Johnson, se dovesse diventare Premier, e negoziare l’uscita del Regno Unito dall’UE. Last but not least, in questo referendum è stato possibile effettuare un voto di chiara ispirazione razzista senza però votare un partito apertamente xenofobo come l’Ukip di Farage. Per chi conosce l’ipocrita società inglese, pronta a riempire le strade di fronte a Pegida o l’EDL e a allo stesso tempo a rinchiudere i migranti in ghetti e a sottopagare la loro manodopera, non è un fattore del tutto secondario, soprattutto per parti di società che costituiscono storicamente i serbatoi di voti laburisti.
Contro la middle class, la City e Londra
Inutile nascondere che questo voto in favore della BRexit da parte della cosiddetta working class è in parte anche un voto populista contro le élites, di cui gli euroburocrats fanno parte, ma non in solitudine. Nel paese dove i leader dei due maggiori partiti erano schierati per il “Remain”, questo è stato un voto contro la casta. Tuttavia, c’erano anche altri bersagli da colpire col voto BRexit: la highly educated middle class, schierata in maggioranza per il “Remain”, ma soprattutto Londra, ampiamente schierata per la permanenza nell’UE e dove il “Remain” ha vinto con il 60% dei voti. Londra, e in particolare la City, rappresenta il simbolo delle trasformazioni del sistema produttivo britannico: dal fordismo alla finanza creativa che ha drenato la ricchezza dal basso verso l’alto a una velocità sempre maggiore. Una trasformazione profonda anche delle relazioni sociali, che ha frammentato comunità legate alla produzione di fabbrica, non sopravvissute al pugno duro della Thatcher. Una Londra che inoltre è sempre più inaccessibile e cara, che espelle i suoi abitanti per far posto a brokers e magnati della finanza.
E’ da questo punto di vista che il voto “Leave” della working class britannica potrebbe essere quindi letto come una “vendetta proletaria”. Già, peccato che ora tutti i poteri tornino proprio a quella Londra amministrata fino a poco tempo fa da Boris Johnson, grande vincitore di questo referendum insieme a Farage. L’aver consegnato il paese alla destra dei Tories, che continueranno a perpetrare un assalto alla spesa pubblica come del resto hanno sempre fatto, è la cosa più controproducente e autolesionista che le classi più emarginate e povere potessero fare. Un regalo che purtroppo costerà loro molto caro. Tanto è vero che immediatamente dopo la proclamazione ufficiale dell’esito del voto, numerose sono state le dichiarazioni di pentimento da parte di leavers appartenenti allaworking class ed è stata addirittura lanciata una petizione (con già milioni di firme) per l’indizione di un nuovo referendum… Un voto, quindi, anche del tutto irrazionale.
In definitiva, una prima analisi del voto britannico sulla BRexit ci consegna, di nuovo, un dato preoccupante: gli strati della società maggiormente colpiti dalle politiche neoliberiste di questi ultimi vent’anni costituiscono un terreno fertile per i discorsi populisti e sono pienamente arruolati in una guerra fra poveri abilmente alimentata dai governi e da chi ne trae enormi benefici.
E rende evidente la quasi totale assenza nel campo del “Remain” di un discorso pubblico alternativo all’austerità e alla gabbia del debito, in grado di rimettere al centro l’eguaglianza, i diritti sul posto di lavoro, le tutele per le classi impoverite da decenni di politiche di ispirazione thatcheriana e un welfare state degno di questo nome. Sono mancati, in sostanza, una messa in discussione radicale del neoliberismo come modello di “sviluppo” e il coinvolgimento delle fasce più deboli della popolazione nella costruzione di un’alternativa che sia in grado di indicare un’uscita collettiva necessariamente europea da questo stato di crisi ormai permanente. Da contrapporre al razzismo e alla guerra agli ultimi.
http://www.dinamopress.it/news/la-working-class-inglese-spinge-il-regno-unito-fuori-dalleuropa
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