A Milano costa tutto troppo

Milano è diventata una città invivibile. O meglio, una città vivibile solo per i ricchi.

Il dossier del Dipartimento degli affari regionali e le autonomie la pone infatti “al vertice della gerarchia urbana italiana […] cancello di entrata all’economia”.
Poi, spiegando il concetto di città metropolitana come sistema urbano-territoriale e produttivo viene descritto in termini di investimenti quel processo di
gentrificazione che ben conosciamo, in quanto ha stravolto interi quartieri storici della città rendendoli delle vetrine per il consumo e annientandone ogni briciola di autentica identità locale.
In questo senso le prospettive di espansione più significative sarebbero sull’asse est-ovest.
A nord il mercato appare saturo, mentre a sud si presentano dei vincoli di natura ambientale.
Nonostante il Comune abbia disposto un progetto di deroga ai vincoli sull’area. In risposta il Comitato difesa ambiente zona 5 ha presentato una petizione c
on 30mila firme per tutelare la biodiversità del Parco Agricolo Sud e nello specifico del Ticinello.

Sono invece completamente avviati i processi di trasformazione in zona 2 dove la creazione dell’immaginario NoLo, utilizzando un inglesismo dai toni cool, ha già portato l’impennata dei prezzi degli affitti, in un quartiere caratterizzato dalla composizione studentesca e in una specifica parte, migrante.
Ciclicamente le campagne securitarie hanno colpito Via Padova, ma vuotare il portafoglio degli abitanti, potrebbe rivelarsi un colpo più duro di qualsiasi fanfara mediatica.
Riguardo la componente studentesca, è stato finora scampato il rischio di vedere trasferito gran parte del polo universitario nell’ex area Expo rimasta in disuso. La mobilitazione “Giù le mani da città studi” ha finora
sventato una follia che avrebbe tolto l’anima al quartiere, e un’area di riferimento viva a migliaia di giovani, solo per trovare una destinazione a quell’enorme spreco di risorse che è stata la costruzione delle strutture per l’Esposizione Universale del 2015.

Riguardo l’ovest invece, il Giambellino è nel pieno della conversione. Un quartiere attraversato da molteplici fragilità viene approcciato dalla delicatezza che caratterizza i processi di trasformazione urbana: le ruspe. L’intera zona popolare è un cantiere a cielo aperto, in alcuni condomini la gente per tornare a casa ne costeggia le mura, sulle quali appaiono scritte come “non siamo topi”, con discariche a cielo aperto in strada e nei cortili.
Alcune palazzine sono state già demolite.
Gli assegnatari delle case p
opolari sono stati trasferiti altrove, potremmo anche dire delocalizzati, gli irregolari sgomberati.
Incendi dolosi hanno fatto scappare gli ultimi occupanti che tornavano imperterriti dopo gli sgomberi.
Quelle case saranno destinate ad altri tipi di acquirenti. Troppo vicine ai navigli per essere destinate a chi ha uno scarso potere d’acquisto. Nel dossier sopra citato appare irregolare la dinamica di spostamento geografico del ceto medio all’interno dell’area urbana, ma è invece costante la tendenza alla concentrazione verso il centro della fascia alta di reddito.
Sembra ormai evidente che il destino di tutta la periferia è quello di essere assorbita, in un’ottica che concepisce come cittadina l’intera area sovra provinciale. E’ infatti da anni in corso la svendita del patrimonio immobiliare pubblico, ALER ha già venduto 7000 alloggi
a privati, ed è in costante calo il numero di assegnazioni (circa mille all’anno a fronte di 23mila domande ai bandi). 

Il costo al metro quadro delle case a Milano è il doppio rispetto a quello nazionale, e nell’ultimo anno è aumentato del 13% contro il 3% del resto della penisola.  

Per potersi permettere una stanza singola in città bisogna mettere in conto 620 euro al mese di media, con tre mesi di affitto anticipato. Per un posto letto in doppia serve circa la metà della cifra.
Le mobilitazioni per il diritto alla casa
degli anni passati sono state falciate dalla repressione, anche a causa dello scarso coinvolgimento della cittadinanza in un problema che a Milano coinvolge una grossissima fetta di popolazione.

Questo è un problema comune a tutte le grandi capitali europee. Un esempio virtuoso di mobilitazione dal basso viene da Berlino, dove decine di migliaia di persone hanno aderito alla campagna della piattaforma Mietenwahnsinn stoppen (fermiamo la follia degli affitti) e in seguito ottenuto e vinto un referendum per l’esproprio delle grandi compagnie immobiliari. Anche se la partita politica ancora tutta aperta la società civile si è mostrata reattiva rispetto al tema.

A Milano negli ultimi cinque anni il rincaro dei prezzi è stato dell’8,6% e il tasso tendenziale annuo di inflazione è attualmente stimato nell’8,1%. A non aumentare affatto sono invece gli stipendi, che sono calati per gli operai del 3,4% mentre per gli impiegati del 2,3%. 

Due stipendi in famiglia bastano appena per coprire la spesa media di un nucleo, la tendenza è dunque quella dell’impoverimento anche del ceto medio, cosa che preoccupa anche la grande borghesia, in quanto garanzia di solidità per l’assetto cittadino.
Una città con tanta offerta ricreativa e culturale dovrebbe aumentare la qualità della vita.
Ma se per fruire di questo settore sono necessari in media 176€ al mese, si capisce come buona parte della popolazione ne sia esclusa.
E’ raro trovare locali che vendano cocktail a meno di 10€, ma per essere tutti più chich è invece abbastanza frequente trovarli a 12€ o 15€. Ci si accontenterebbe di una birra al kebab di zona, se non fosse che dalla crisi energetica seguita allo scoppio della guerra Russo-Ucraina i prezzi di molti prodotti in bar e negozi sono quasi raddoppiati, così si è arrivati a spendere per un panino quasi quanto anni fa in trattoria, a trovarne una delle poche rimaste.
Alcune capitali europee come Madrid e Berlino, per tamponare il problema dell’aumento del costo della vita, hanno temporaneamente reso gratuiti i mezzi pubblici. Questo anche nella prospettiva della transizione ecologica, al fine di iniziare a rispettare gli impegni presi per diminuire l’inquinamento nelle metropoli. Se pensavamo che anche la nostra città avrebbero seguito questa scia, siamo stati solo dei poveri idioti.
Il prezzo del biglietto del trasporto pubblico potrebbe salire a 2.20€ per una singola corsa, con la scusa di provare a incentivare a fare gli abbonamenti annuali. Un aumento che presumibilmente verrà rimandato al periodo successivo alle elezioni per non perdere la fiducia degli elettori.

Anche la sanità rappresenta un altro nodo critico, a Milano come nelle altre città Lombarde dove la popolazione è letteralmente sopravvissuta al massacro causato dalla malgestione dell’emergenza covid nel 2020.
In Lombardia circa il 40% delle prestazioni sanitarie è privata, e così la conseguente destinazione dei fondi erogati.
Negli ultimi vent’anni i posti-letto pubblici sono stati più che dimezzati e parallelamente quelli privati considerevolmente aumentati.
Quindi nella capitale dell’eccellenza sanitaria, scordandoci per un secondo il covid-19, possiamo dire che se stai male e non hai i soldi è un serio problema. 

Il Sindaco Sala lo scorso primo maggio ha timidamente affermato “c’è qualcosa che non va se alcune aziende fanno profitti incredibili e intanto la gente guadagna poco”.
Il nostro “radicale moderato”, così come si è definito, finora è riuscito a proporre le gabbie salariali, in vigore dal 54’ al 69’ e successivamente spazzate via dalle sommosse operaie.
Aumentarono il divario tra nord e sud favorendo le imprese tramite un maggior sfruttamento delle fasce più deboli del mercato. Un bel modo per invitare a guardare il dito invece che la luna. Peraltro si tratta della storica proposta di legge sui salari della Lega Nord di Bossi.
Dopo l’illusione del vento che cambia di
Pisapia, siamo al secondo mandato del manager dalle calze arcobaleno.
Allora quel vento spazzò via diversi Centri Sociali Autogestiti e portò ad un nulla di fatto il protocollo d’intesa tra l’assessora alla casa Lucia Castellano e i sindacati degli inquilini per una sanatoria che riguardava la regolarizzazione di tremila case occupate.
Invece il nostro
primo cittadino in piena pandemia si scagliava contro l’ipotesi di una tassa patrimoniale, «questo non è il momento di creare differenze, bisogna essere uniti», disse, invitando chi lo desiderasse a fare donazioni in beneficienza, che bella la carità ambrosiana!
Nel suo libro “Società: per azioni” Sala fa una proposta per rilanciare l’economia. Demolendo l’idea del reddito universale e di redistribuzione della ricchezza definendola “senz’anima”, offre la soluzione del “credito universale”, davvero innovativo
! per chi avesse rimosso gli effetti a cui ha portato nel 08’-09’ l’economia del debito. Peraltro un concetto totalmente liberista nonostante cerchi di spacciarsi come promotore di un nuovo socialismo. Secondo Sala la chiave per risolvere i problemi dei ceti meno abbienti è “convincere chi si sente povero che i poveri non esistono”. Poverty state of mind, insomma.  

In una città multietnica come la nostra, dove troppe persone non hanno la cittadinanza italiana per limiti burocratici, la deriva che rischia di prendere il governo nazionale dovrebbe preoccupare.
Ma
anche la Milano progressista non si è affatto rivelata un modello di accoglienza. Alle stazioni dei treni e nei principali snodi della metropolitana ci sono presidi fissi di poliziotti che insieme alle ancor più brutte guardie dell’ATM fermano per i controlli solo persone dalla pelle scura. A proposito di interculturalismo Beppe Sala nel suo libro ci regala un’altra perla: «L’Africa è ricca, ma è abitata da africani che pensano di essere poveri, che sopportano che un’esigua minoranza possegga ricchezze criminali”. Ed effettivamente nessuno dovrebbe sopportare che una minoranza detenga le ricchezze, però non bisogna scomodare l’Africa per capirlo, ne è un ottimo esempio la città che lui stesso amministra.

In seguito alla pandemia sono stati persi 22mila posti di lavoro in città. Sala si è detto disposto a fare un buco di bilancio per sbloccare la situazione. Considerando che a quel calo di lavoranti è corrisposta una perdita dell’11% del PIL cittadino, la preoccupazione è comprensibile, d’altronde lavoro significa produzione di valore, quindi capitale.
Le proposte del mercato del lavoro sono così squalificanti che nel 2021 circa il 10% dei lavoratori e delle lavoratrici si è dimesso/a, la metà delle quali nella Città Metropolitana. Si tratta di 179.000 persone per la sola Milano. Un fenomeno simile a quello delle “Great Resignation” verificatosi negli Stati Uniti.

Inoltre una buona fetta delle generazioni più giovani con il lockdown è rimasta completamente tagliata fuori da ogni forma di sussidio emergenziale, proprio perché avevano sempre fatto lavori in nero. La condizione di tantissimi/e 30enni è quella di aver faticato per una laurea che non ha valore, aver lavorato molti anni in nero, vivere ancora nella famiglia di origine a causa dell’insostenibilità dei costi di un alloggio e magari essere ancora in corso di studi alla ricerca di una maggiore professionalizzazione, ambendo a posizioni migliori.  

La città è ormai da anni orfana di conflitto organizzato.
Quel che era rimasto dell’immaginario alternativo di alcune zone come i navigli è stato fagocitato dalla movida, spazzato via per fare posto a qualche capannone da fiere della moda.
I nuovi soggetti sociali emergenti nelle periferie, giovani di Nuova Generazione con tutto da guadagnare, sono incastrati nel falso mito capitalista dell’ascesa individuale ma sono stati gli unici – negli ultimi due anni di restrizioni di libertà individuale – a mantenere alta l’asticella dell’opposizione a regole ingiuste.
Chi ha fatto in tempo a vivere l’illusione del cambiamento, dal movimento
altermondialista degli anni 90’ sfociato nel massacro di Genova, fino alle esperienze dei duemila come l’onda, concluse in riforme che hanno annientato lo stato sociale, è oggi impegnato nella mera sopravvivenza.
La precarietà esistenziale che caratterizza la vita della maggioranza delle persone rende difficile costruire prospettive individuali, quasi impossibili quelle collettive.
La pervasività del lavoro nel tempo di vita, in forme liquide, flessibili, rende faticoso persino gestire i rapporti interpersonali privati, altro che comunitari.
Per ribaltare questo paradigma
che ha totalizzato le nostre esistenze dobbiamo smontare pezzo per pezzo questo modello di società, di cui Milano, ormai da tempo, è un fiero emblema.
Insistere con l’allargamento delle comunità solidali con i meno privilegiati e critici con il sistema capitalista, abbattere l’estremo individualismo e l’isolamento dei soggetti marginalizzati dalla nostra società perbenista, alimentare la cooperazione e la collaborazione a discapito della competizione e della ferocia del sistema imposto.

Davide V.
Nassi LaRage

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Una risposta a “A Milano costa tutto troppo”

  1. Annibale ha detto:

    Tutto vero! Ma non dovremmo mettere meglio a fuoco i percorsi soggettivi, cioè come la spinta ad una maggiore libertà personale ha trovato soddisfazione nella movida del lavoro nero?

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