Chi si rivede! Lo sciopero generale
Sono passati 7 lunghi anni dall’ultimo sciopero generale convocato da CGIL e UIL, per l’esattezza 2.558 giorni.
Era il 12 dicembre 2014 e quel giorno si scese in piazza in tutta Italia contro il Jobs Act e la cancellazione dell’articolo 18 voluta dal Governo Renzi.
Quest’anno la data stabilita per lo sciopero è invece il 16 dicembre.
Sembra passata un’era geologica da allora. E se dal punto di vista storico sette anni sono nulla, dal punto di vista politico è proprio stato così.
Nell’inverno 2014 Renzi era al suo apogeo. Dopo aver stravinto le elezioni europee di qualche mese prima con più del 40% e varato la brillante operazione degli 80 euro si accingeva ad attaccare la norma sui licenziamenti, un vero e proprio baluardo simbolico che neppure Berlusconi all’apice del suo potere, pur avendoci provato, era riuscito ad abbattere.
L’allora leader indiscusso del centrodestra, che oggi vorrebbe andare al Quirinale, ha dovuto affrontare, durante i suoi lunghi anni al governo due poderosi scioperi generali. Il primo sulle pensioni nel 1994 e il secondo proprio sull’articolo 18 nel 2002 (un mese prima, sempre sullo stesso tema, la CGIL di Cofferati aveva portato al Circo Massimo tre milioni di persone). Entrambi gli scioperi ebbero un’adesione altissima bloccando in entrambi i casi i progetti berlusconiani. In entrambe quelle occasioni si viveva una fase di alta sia del movimento sindacale che di quelli sociali.
Nel 2014 lo scenario era già cambiato profondamente.
A spingere la conflittualità era stata la FIOM, il sindacato dei metalmeccanici, all’epoca guidata dall’attuale segretario nazionale della CGIL Landini, che per il 14 novembre di quell’anno era riuscito a riempire le piazze anche grazie al supporto dei movimenti che avevano lanciato la parola d’ordine dello sciopero sociale. Chi era a Milano quel giorno ricorda una piazza Duomo abbastanza gremita per lo sciopero metalmeccanico e il blocco dei cantieri Expo e le cariche con lacrimogeni in piazza Santo Stefano per quel che riguarda i movimenti.
La CGIL era stata molto cauta e si era mossa coi piedi di piombo. In moltissimi vivevano ancora una fase di innamoramento per Matteo Renzi e ci si sentiva ripetere discorsi imbarazzanti da gente con cui magari si era scioperato contro Berlusconi sullo stesso tema di come l’articolo 18 fosse un orpello del passato e di come il “contratto a tutele crescenti” (chi le ha mai viste?) avrebbe riavviato il mercato del lavoro garantendo un mare di assunzioni a tempo indeterminato. A distanza di sette anni quelle illusioni sono scomparse e tutte quelle belle frasi si sono rivelate per quel che erano: vuota e squallida retorica. La stella di Renzi avrebbe iniziato ad appannarsi già nel 2015 per poi subire una vera e propria batosta con il referendum costituzionale del 2016 e il risultato delle elezioni politiche del 2018 che avrebbe portato ai suoi minimi storici.
Ma torniamo al 2014. Dopo un lungo titubare la CGIL guidata da Susanna Camusso avrebbe alla fine convocato lo sciopero generale insieme alla UIL (assente, tanto per cambiare, la CISL) il 12 dicembre di quell’anno. Centinaia di migliaia di persone sarebbero scese in piazza, ma con molta meno forza rispetto alle adesioni e alla partecipazione di appena un decennio prima. Per chi sapeva anticipare i tempi era abbastanza evidente che anche i movimenti arrivavano all’appuntamento col fiato corto dopo essere stati protagonisti di una lunga fase iniziata con il movimento universitario dell’Onda 2008-2010 e proseguita con le lotte contro le politiche d’austerità messe in campo da Governo Monti. Il Primo Maggio NoExpo di qualche mese dopo sarebbe stato la conclusione di una fase, la tipica pagina che si chiude. Per chi era in piazza quel giorno impossibile comunque dimenticare le cariche immotivate davanti alla Regione Lombardia e i lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo.
E arriviamo ai giorni nostri.
Come dicevamo poco meno di un anno fa il Governo Draghi si sta dimostrando per quello che è e ci sembra giusto riportare un pezzo del nostro articolo del 3 febbraio di quest’anno:
Dietro un nobile appello agli “interessi del paese” o agli “interessi nazionali” (che, nei fatti, non esistono) si nasconde sempre un’ammucchiata di forze politiche tra loro, a parole, nemiche, che garantiscono l’esistenza a un governo per difendere gli interessi dei soliti noti (quello che un tempo si sarebbe chiamato, marxisticamente, il grande capitale). E, per essere chiari, tra gli interessi dei soliti noti non ci sono i nostri! Ovvero quelli di precari e precarie, working poor, studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e della cultura, partite IVA e altri a noi affini.
Se da un lato possiamo riconoscere a Draghi la capacità di mettere in piedi una campagna vaccinale molto efficiente dall’altro, dal punto si vista socio-economico, questo governo non è sicuramente amico delle fasce più deboli della popolazione. Del resto, lo si era già visto con la martellante campagna contro il reddito di cittadinanza e la successiva stretta nei confronti di quella misura che ha salvato dalla povertà ampie fette di popolazione e che, a nostro parere, resta tuttora insufficiente.
La “riforma fiscale” va paradossalmente a danneggiare le fasce più basse di reddito (quelle della stragrande maggioranza dei lavoratori). Dopo 2 anni di emergenza pandemica e poderosi sacrifici da parte del mondo del lavoro (soprattutto nella fase iniziale dove ci si è resi conto di quanto siano fondamentali alcuni lavori poco retribuiti ma cruciali per la sopravvivenza della società), quando sarebbe necessaria una poderosa opera di redistribuzione della ricchezza andando a prenderla là dove c’è (e ce n’è tanta), nonostante fiumi di retorica sugli “eroi/angeli” dell’emergenza poco o nulla viene fatto a favore dei redditi bassi e medio-bassi quando quotidianamente sentiamo i telegiornali parlare di quanto siano aumentate povertà e disparità sociali anche a causa di due anni di Covid.
Scarsi gli investimenti sulla scuola e soprattutto sulla disastratissima sanità pubblica devastata da 30 anni di tagli e privatizzazioni mentre aumentano le spese militari. Nulla contro le delocalizzazioni nonostante il caso GKN e tanti altri, nulla a favore dell’esercito di precari, nulla a favore delle nuove figure professionali, nulla sul salario minimo. Zero assoluto insomma.
Se i motivi oggettivi delineerebbero uno scenario di conflitto sociale acceso, in realtà non è e probabilmente non sarà così. Per svariati motivi.
Siamo quasi al secondo anno di pandemia, che oltre ad aver causato 135.000 morti a ieri, ha aperto fratture profonde all’interno della società e del mondo del lavoro (vedi in primis la questione Green Pass) creando ulteriore stanchezza, frantumazione e disillusione.
I sindacati confederali, CGIL in primis, non vivono sicuramente un momento di forza, anzi tutt’altro. L’assalto alla sede nazionale del maggior sindacato italiano il 9 ottobre 2021, portata avanti dai fascisti di Forza Nuova durante un corteo No Green pass, dal punto di vista simbolico rimane una ferita profonda. La modalità di dichiarazione della data dello sciopero sta sollevando più di una perplessità nella base sindacale che è consapevole di come, in tantissimi luoghi di lavoro dove il sindacato è presente (comunque una minoranza rispetto al mondo del lavoro italiano), ci sia una disabitudine allo sciopero e di come, un’arma potente come lo sciopero generale andrebbe maneggiata con cura. In poche parole, lo sciopero del 16 sembra calato dall’alto ed essere più una scelta di bandiera/posizionamento piuttosto che una radicale scelta di lotta. Una giornata del genere avrebbe dovuto essere preparata con cura lanciandola già da ottobre come chiedevano con forza gli operai della GKN o rimandandola a fine gennaio (tanto la finanziaria non cambierà) e permettendo assemblee diffuse sui posti di lavoro. Tutto ciò non è stato fatto creando ulteriore perplessità e scoramento tra molti delegati e delegate.
In aggiunta a ciò gli attacchi a reti unificate dei media mainstream sconvolti da ogni minima contestazione della “pax draghiana”. Qualcuno ricorderà alcuni articoli brillanti di un recente passato su quanto fosse bello il mondo dei rider. Ecco, il nuovo traguardo è l’articolo sull’operaio che non sciopera perché soddisfatto della riforma fiscale. Per chi non ci credesse ecco l’articolo del Corriere del 9 dicembre. Per la prima volta poi si esplicita in maniera così netta la frattura tra il Partito Democratico e i confederali che hanno lanciato lo sciopero. Da una parte questo conferma l’ormai compiuta estraneità di PD e satelliti ai ceti subalterni, ma dall’altra esplicita anche l’irrilevanza politica verso cui è incamminato il sindacato confederale.
Per quanto riguarda i movimenti essi stanno attraversando una fase di trasformazione con alcune giornate comunque importanti come le giornate per la giustizia climatica di Milano, le mobilitazioni di ottobre a Roma contro il G20 o il grande corteo di Non Una Di Meno di pochi giorni fa. Ma questa data del 16 dicembre li trova un po’ in mezzo al guado, non preparati a influenzare con forza la giornata.
Concludiamo citando un post dei lavoratori della GKN che, in questi mesi, stanno brillando per lucidità e lungimiranza politica e che ci rappresenta in pieno:
Proclamato lo sciopero generale di CGIL e UIL per il 16 dicembre. Non abbiamo avuto ragione noi ma voi avete avuto torto. Non abbiamo avuto ragione perché lo sciopero generale andava proclamato prima e con ben altra preparazione. Ma avete avuto torto voi a farvi paralizzare finora dalla CISL, a dirci che eravamo degli illusi a immaginare e a chiedere lo sciopero generale. Ma della nostra ragione e del vostro torto, alla storia non interessa proprio nulla. Lo sciopero generale emerge oggettivamente da una esigenza sociale. E per essere efficace deve essere generalizzato e deve essere un processo. E forse questa data non avrà queste caratteristiche. Ma non ci facevamo alcuna illusione. E per questo noi il 16 scioperiamo, attraversiamo questa data convergendo e insorgendo. E invitiamo tutti a fare altrettanto. Il percorso continua. #Insorgiamo
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