Cosa succede a Gerusalemme?

Riceviamo e pubblichiamo:

Foto by Nena News

Vorrei scrivere un pezzo solo di analisi politica, con valutazione della situazione, cause conseguenze, risultati.
Un testo scientifico, da laboratorio, freddo, spietatamente tagliente, staccato dalla realtà mentre la descrive.

Ma non sarebbe giusto, non renderebbe giustizia a quello che sta accadendo, che è sempre accaduto e che potrebbe peggiorare in futuro se continuiamo ad usare termini inappropriati, se continuiamo a raccontarci fandonie da caschi blu, se non rimettiamo i fattori al posto giusto.

Non esiste proprietà transitiva (si chiama così la proprietà per cui scambiando gli ordini degli addendi il risultato non cambia?) nella sottrazione e quello a cui si assiste è un progressivo processo di sottrazione che alla fine arriverà allo zero assoluto. Alla fine non ci saranno più lacrime, sangue, non ci sarà più niente, non ci sarà più Palestina.

Davanti alla tastiera mi dico che devo essere originale, che non posso scrivere le solite banalità, ma poi mi rendo conto che forse sono banalità per me e per pochi altri nel nostro piccolo apparentemente democratico mondo così…

Così iniziamo col dire che non siamo davanti a un conflitto, che quello che succede a Gerusalemme non è la legittima risposta all’attentato di qualche giorno fa presso la moschea di Al Aqsa in cui tre soldati israeliani sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco da parte di tre ragazzi palestinesi.

Diciamo anche che la Palestina è un paese occupato e che, quando vivi sotto il dominio di un occupante, chiunque esso sia, mordi e resisti.

So che il mondo militante alzerà gli occhi al cielo davanti a queste parole, ma per un secondo voglio pensare al linguaggio mediatico ed a chi vive dentro ad esso.

Cosa sta succedendo a Geruasalemme?

Una domanda chiara, diretta, facile… A Gerusalemme vogliono mettere dei controlli per chi entra nella moschea il venerdì perché ci sono stati tre soldati inermi morti ammazzati.

Non è così.

Quello che sta succedendo a Gerusalemme è successo e succede in tutti gli avamposti dell’apartheid sionista.

In tutto il territorio palestinese troviamo check point e metal detector. Ci sono palestinesi che non possono andare dove vogliono. I tanto celebrati accordi di Oslo sono stati per molti la condanna alla segregazione ed all’isolamento.

Area A, B, C…lo abbiamo detto tante volte. La Palestina è divisa tra zone controllate dall’occupazione israeliana, zone in teoria sotto l’amministrazione congiunta tra l’occupazione e l’Autorità palestinese, zone controllate solo dall’occupazione. Queste zone non sono territorialmente equivalenti e i loro confini non sono così netti.

All’interno dell’area che dovrebbe essere solo controllata dall’Autorità palestinese, per esempio, sono centinaia gli insediamenti, chiamati non a caso colonie, che circondano le città principali. La sola città di Betlemme, per esempio, è circondata da circa 23 insediamenti. Gli insediamenti costituiscono un altro limite alla libertà di circolazione: se una palestinese si avvicina ad un insediamento, nonostante siamo in Cisgiordania, può incorrere in seri problemi, legali o legati all’incolumità fisica.

Chi vive in un campo profughi, ossia zone dove sono stati confinati e deportati già da prima del ’48 centinaia di migliaia di palestinesi, deportazioni che hanno previsto operazioni di massacro e pulizia etnica, non ha diritto a ritornare nella terra dove han vissuto i nonni, la famiglia, villaggi magari rasi al suolo, terreni non più attraversabili,
luoghi diventati parcheggi, o centri commerciali, o i giardini dell’occupante.

Ci sono luoghi come Khalil (Hebron) dove l’apartheid si manifesta nel sua violenza più totale, dove i coloni spadroneggiano armati nei piani alti delle abitazioni e possono  sparare come e quando vogliono (è recente la notizia, per esempio, in cui ad una manifestazione pacifica, un colono ha sparato sulla folla provocando un morto e alcuni feriti, ma di questo i nostri giornali non parlano), dove esiste tutta una parte della città, la città fantasma, in cui i palestinesi sono stati cacciati dalle proprie case e non possono farvi ritorno, una parte in cui se sei palestinese non puoi entrare, e siamo in Cisgiordania.

E non voglio dimenticare la Striscia di Gaza, abbandonata a sé stessa anche dall’Autorità nazionale palestinese, un lembo di terra dichiarato invivibile nei prossimi 3 anni, dove la popolazione non sopporta l’apartheid, ma un pesante assedio che non lascia alcuna libertà di movimento dentro e fuori la Striscia per nessun motivo, nemmeno quando si parla di cure mediche, di vita o di morte.

Mentre scrivo continuo a dirmi che sono cose che abbiamo detto e ridetto, che non sono più attraenti, che non fanno notizia.

Eppure, eppure sono parole ricche di contenuto, di dolore, di rabbia, di voglia di riscatto.
Sono parole che non possiamo stancarci di ripetere, di diffondere, di divulgare.

Sono parole che stanno dietro a quello che succede a Gerusalemme, che sta succedendo in tutte le città della Cisgiordania, che non possiamo tralasciare.

Ogni giorno in Palestina qualche palestinese viene investito a morte dai coloni. Ogni giorno l’esercito entra nei campi profughi per arrestare minori che poi vengono costretti ad interrogatori che farebbero rabbrividire qualsiasi sincero democratico, all’isolamento, alla tortura. Ogni giorno un ragazzo o ragazza palestinese deve fare i conti con il fatto che non ha mai visto il mare, o che deve stare attenta quando attraversa un check point perché in quel momento sei affidato alla volubilità del soldato di turno. Ogni giorno ci sono genitori che piangono i loro martiri. Ogni giorno ci sono feriti che non hanno la possibilità di ricevere cure adeguate, e l’elenco è infinito.

Invece di prendere in considerazione tutto questo, la comunità internazionale preferisce fare il gioco perverso della sicurezza dell’occupante.
La sicurezza dell’occupazione diventa il principale argomento di dibattito quando si parla di Palestina, lo spauracchio che giustifica tutto questo, la scusa per ogni violazione, omicidio, azione offensiva ai danni del popolo palestinese.

Dietro tutto questo non c’è il senso di colpa europeo per l’Olocausto. La dignità delle vittime dell’Olocausto viene usata per giustificare ancora una volta un’azione di stampo colonialista che si protrae in un’epoca che prima abbiamo definito post colonialismo, poi neocolonialismo ed ora globalizzazione. Mentre il colonialismo in tutto il mondo continua su base virtuale ed economica sotto la follia di un capitalismo che in Occidente è collassato ma che si regge grazie al Sud del mondo, in Palestina assistiamo al perpetrarsi dello sfruttamento, assoggettamento, sopraffazione e occupazione che vige ancora oggi nel 2017.

Quello che sta succedendo a Gerusalemme è questo, e non è una guerra di religione come dice il pensiero mainstream.

Lo sbarramento di un luogo di culto in questo caso è il simbolo dell’ennesimo limite e violazione. Se vogliamo parlare di religione, parliamo di libertà personali, libertà ancora una volta soffocate.

Alla tragedia di tutto questo si aggiunge l’impreparazione dei partiti e delle istituzioni palestinesi. La corruzione dell’Autorità nazionale fa da serva agli Israeliani, il governo di Hamas non è in grado di operare nel solo interesse della popolazione di Gaza. La sinistra del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina non sviluppa nuovi modelli a cui i giovani possano ispirarsi, o un senso di appartenenza ad un processo rivoluzionario che si spinga oltre le azioni fini a se stesse.
In questo deserto l’affermarsi di una mentalità più religiosa che laica trova terreno fertile e rischia di diventare l’ennesimo limite che la nuova generazione si trova ad affrontare, un limite alla socialità che opprime lo scambio tra i giovani di diversi generi e che trasforma la vita di ciascuno in una serie di dogmi e norme da rispettare per essere accettati dalla comunità.

Se noi internazionalisti non sfondiamo queste barriere, la Palestina ha davvero poche possibilità di farcela e rischia, come già succede, di sparire anche dai libri di storia.
Se la nuove generazione non si inventa un nuovo modo di liberarsi di tutte queste oppressioni, non ci sarà libertà.
Se le nuove generazioni di israeliani non si oppongono con fermezza al regime di Netanyau e non inizia un processo rivoluzionario interno all’occupazione stessa, non ci sara’ possibilità di liberarsi del fascismo di Israele.

Non so cos’altro succederà oggi. A Betlemme c’è sciopero generale. Le azioni unilaterali si moltiplicheranno. Lo scontro ora si diffonde in modo capillare anche tra singoli  (palestinesi che entrano negli insediamenti per vendicare i martiri di ieri, coloni che uccidono a sangue freddo palestinesi per la strada).

Se le barriere a Gerusalemme non verranno rimosse, i moti che da due anni a questa parte sono stati chiamati Terza Intifada probabilmente troveranno sfogo maggiore e la ferocia dell’occupazione potrebbe generare una risposta pericolosa.

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