Gaza: la città reale è quella possibile

12463881_10205953122252225_1988584147_n“Dividi un foglio in otto parti e disegna la città che vorresti, la città possibile”.

Bastano un foglio bianco e una matita e qualche traccia diventa immediatamente narrazione.

I racconti dei ragazzi che vivono nella Striscia di Gaza, nella quotidianità delle strade che attraversano tutti i giorni, hanno delle linee comuni che li uniscono. Da una lato c’è il racconto di una città in stato di guerra permanente, lasciata sola, dall’altro quella di una città libera e colma di energie.

La città soffocata nelle tracce di una ragazza assume la forma di una piscina: “La piscina è come il mondo e i Palestinesi gli uomini che non sanno nuotare. Gli altri stanno a bordo piscina a prendere il sole oppure nuotano accanto a loro senza accorgersi della difficoltà”. Nei loro appunti il filo spinato circonda i disegni delle loro case, enormi muri sono accostati a volti tristi e gli aquiloni ai caccia degli Israeliani. “Noi qui diciamo “aerei del gioco” per dire aquiloni. Vorrei che in cielo ci fossero gli aerei del gioco senza che ci fossero gli aerei non del gioco”. Come i fuochi d’artificio: “Vorrei festeggiare un Capodanno in cui siamo noi a mandare in aria dei fuochi (che non fanno male a nessuno) e non il contrario, come al solito”.

Nella loro città disegnata ci sono tantissime chiavi, perché nonostante i loro nonni o genitori ne conservino ancora la chiave, da vent’anni magari l’abitazione è stata loro sottratta dai coloni. Altre volte sono ritratte le macerie di quel che era il palazzo in cui abitavano o il ritratto della loro famiglia che dentro ci viveva: “La città che vorrei, ma che tanto non posso avere”.

Dai disastri lasciati dall’ultima guerra del 2014, la ricostruzione è partita da poco perché c’è anche il problema legato al recupero della materia prima: mattoni, cemento, ferro, attrezzi che ovviamente non possono essere importati facilmente: non esistendo praticamente più nessuna frontiera aperta, è Israele a stabilire il passaggio dei materiali.

Emerge però più forte una città che questi ragazzi e ragazze vorrebbero ed è una città dove l’elettricità è sempre presente e non quattro o sei ore al giorno, senza più gli incendi causati dalle candele che si è costretti a tenere a portata di mano. C’è chi disegna una centrale elettrica che sfrutta l’energia solare, perché l’altro segno ricorrente è quello di un luogo verde, dove l’aria è pulita e il cibo è sano. Non più di una settimana fa gli Israeliani hanno cosparso erbicidi su 15.000 metri quadrati della zona centrale, a quanto pare per agevolare le “operazioni di sicurezza”.

Spesso la città che vorrebbero è qualcosa che chi vive la realtà italiana ha sempre dato per scontato: gli attraversamenti pedonali, i semafori, un porto da cui poter partire ed arrivare, il treno e più di ogni altra cosa, un aeroporto. Quello palestinese è stato bombardato durante la Seconda Intifada, dopo poco che era stato avviato.

Nella loro città ideale, in ogni angolo ci sono librerie e scuole dove studiare musica, teatri e cinema. Il cinema di Gaza è chiuso da anni, e si spera in una riapertura.

E poi ci sono tantissimi centri sportivi: campi da calcio, tennis e le donne che finalmente possono giocare a calcio. “Ho disegnato un pallone, disegnami una donna”. “Ok, con il velo?” “Ma no! Senza velo! Per giocare a calcio ce lo togliamo!”.

E’ in questa città che stiamo vivendo attraverso i loro dipinti, e sì, la chiamiamo “la città possibile”, perché è questo che la loro profonda dignità ci fa credere.

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