Italiani di seconda generazione

Un’infanzia costosa per non essere “bimbi illegali”.

Sono nata quasi trent’anni fa a Milano. I miei genitori, entrambi di origini nord africane, si sono conosciuti proprio in questa città nonostante fossero nati e cresciuti a Casablanca. Qui a Milano si sono innamorati, qui hanno deciso di sposarsi e qui mi hanno fatta nascere.
A sei anni ho iniziato la scuola e avevo – come è normale che fosse – poche percezioni della mia persona. D’altronde a quell’età si è grandi davvero perché siamo tutti e tutte uguali, non esiste differenza dovuta al colore della pelle né pregiudizi né cattiveria cinica.
Ma ci aveva già pensato lo Stato a rendermi diversa dalle altre bambine.
Perché a sei anni ero stata in Questura già tre volte per rinnovare il permesso di soggiorno.
Ma non con una visita rapida e indolore, ma con esperienze che già da bambina mi facevano riflettere.

Ci presentavamo in Questura alle quattro del mattino per provare a saltare la coda, ma quando arrivavamo la fila c’era già: c’erano uomini, donne e bambini di tutte le età e etnie, qualcuno si era attrezzato con coperte e cuscini anche se c’era sempre una volante della polizia con due uomini che tentavano di limitare il bivacco.
Alle 9 aprivano gli uffici, nell’edificio entrava una famiglia alla volta. Dall’altra parte della scrivania spesso e volentieri c’erano uomini indispettiti, parlavano ai miei genitori lentamente, come se non sapessero l’italiano.
Non scorderò quella volta che, quando avevo 8 anni, avevo saltato la scuola con mio fratello per il rinnovo di questo maledetto permesso, ma una volta arrivati davanti al poliziotto in Questura intorno alle 10 dopo sei ore di attesa, il gentiluomo ci ha rimandati tutti a casa.
Era nervoso, mancava una fotocopia. Io a scuola le avevo viste le stampanti, e mentre uscivamo ne ho vista una che ho indicato a mio padre facendogli presente che potevamo stampare da li. Ma lui mi rispose: “Torniamo domani”.
Nell’aria c’era amarezza, e un senso forte di ingiustizia.
Più crescevo e più capivo, ogni due anni io e i miei fratelli, tutti nati in Italia, andavamo a rinnovare un pezzo di carta; versavamo l’equivalente di 200 euro a persona alle poste, per non risultare ‘bambini illegali’.
Nel frattempo la mia vita a scuola era uguale a quella degli altri bambini. Ho giocato, ho studiato, ho litigato e creato i primi legami. Con gli adulti invece è stato differente, loro si che ci tenevano a ricordarmi che ero diversa. Bella, ma diversa.
“I tuoi occhi sono neri come il petrolio”, “Come mai hai i capelli cosi lisci?”, sono frasi che ho sentito fino allo sfinimento dalle mamme dei miei amici. E mio fratello? Lui era bravissimo a correre, sempre primo alle maratone cosi come nelle distanze corte. Ma il suo allenatore non poteva mandarlo a gareggiare alle regionali nè alle nazionali dove avrebbe sicuramente fatto successo. Perchè non avrebbe potuto correre per l’Italia, era cittadino extracomunitario.
A 17 anni ho iniziato a lavorare dietro al bancone di un bar, e vi elencherò i due tipi di botta-risposta quotidiana che avevo con i clienti:
“Di dove sei?”
E io:”Milano”
“Però non sei italiana”
Oppure:
“Di dove sei?”
“Marocco”
“Però sei nata qua?”
“Sì”
“Aaaah, allora sei italiana!”
Eh no, caro cliente X.
Per lo Stato italiano, un bambino o una bambina nati da genitori stranieri, anche se partoriti sul territorio italiano, possono chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento hanno vissuto in Italia“legalmente e ininterrottamente”.
Questa legge esclude per diversi anni dalla cittadinanza decine di migliaia di bambini e bambine, e lega la loro condizione a quella dei genitori.
Sia ben chiaro, non è un discorso meramente incentrato sul voler diventare una cittadina europea.
Per farvi comprendere meglio la questione, vi racconterò come ho festeggiato i miei 18 anni.
Quando mi sono avvicinata alla maggior età, ho ricevuto una lettera a casa da parte del Comune di Milano.
Mi ricordava che avevo diritto di richiedere la cittadinanza italiana qualche mese dopo, pagando altri 200 euro e presentandomi nella sede comunale per il Giuramento. Qualche giorno dopo ricevevo un’altra lettera, il Comune mi chiedeva se volessi fare il Giuramento all’Arena Civica di Milano assieme agli altri figli di stranieri degli anni Novanta che stavano prendendo la cittadinanza.
Vogliamo ospitare il primo grande gruppo di cittadini italiani di seconda generazione a Milano“.
La mia risposta? No.
Mi sono presentata in via Larga con il mio ennesimo bollettino pagato, con mio padre e mio fratello. Un uomo ci aveva accolti in una stanza, aveva indossato la fascia tricolore e mi aveva fatto mettere la mano sulla Costituzione. Poi avevo dovuto recitare una frase scritta sul muro, pronta per me:
“Giuro di essere sempre fedele alla Costituzione e alla bandiera italiana”.
L’uomo del Comune, guardando mio padre, bisbigliò: “Serve per vedere se sapete davvero l’italiano”, poi si girò verso di me, e mi disse:
Benvenuta in Italia“.

Un giorno mio padre l’ha detta giusta: “Qui non vi hanno voluto dare la cittadinanza quando siete nati alla Mangiagalli perché siete una tassa. Fai il calcolo, ogni due anni abbiamo versato 200 euro a persona. Se calcoliamo anche fotocopie e marche da bollo arriviamo a 250. Quanti soldi sono fino ai tuoi 18 anni?”

Prima della parentesi salviniana era stata presentata una legge il cui titolo, “IUS SOLI”, ne riassumeva la sostanza: un bambino nato in Italia diventava automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trovava legalmente in Italia da almeno 5 anni.
Se il genitore in possesso di permesso di soggiorno non proviene dall’Unione europea, deve aderire a dei parametri quali: avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; disporre di un alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; superare un test di conoscenza della lingua italiana.

La legge prevedeva anche un altro criterio per ottenere la cittadinanza, decisamente meno articolato e banalmente più umano: lo “ius culturae”. Potrannno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico.
La legge che introduceva lo ius soli era stata approvata dalla Camera dei Deputati il 13 ottobre 2015 con 310 Sì (Pd e sinistra), 66 no (Lega e Forza Italia) e 83 astenuti (M5s). Ma non era riuscita a ottenere l’approvazione del Senato per la durissima opposizione della Lega e di Forza Italia, portata avanti con valanghe di emendamenti fino alle ultime settimane della Legislatura.
Per superare questo ostacolo, il governo avrebbe dovuto porre la questione di fiducia e di conseguenza, non avendo i numeri per superarla, provocare la fine anticipata della Legislatura. Per evitare ciò, il Pd – nella figura del presidente del Senato Grasso e del capogruppo Zanda – avevano deciso di privilegiare la legge sul Testamento Biologico per la quale esisteva una potenziale maggioranza e che infatti è stata approvata in extremis.
Per ciò, ad oggi, non solo non si parla più di noi – i cosiddetti italiani di seconda o terza generazione – ma l’argomento ha fatto davvero tanti passi indietro.
Se anche solo un anno fa era presente un margine di discussione oggi ci troviamo ad avere a che fare con persone che parlano di invasione, con soggetti che dicono di voler difendere la propria cultura italica, con maestri di bon ton che ci raccontano che “non ci sono negri italiani” e finti perbenisti che si rivolgono a noi parlando a rallentatore come se fossimo incapaci di capire.
Mantenere lo stato delle cose vuol dire sotterrare provvisoriamente una grande questione; secondo i dati Istat infatti, i minori residenti in Italia e figli di immigrati sono quasi un milione.
L’Italia vuole continuare a derubare famiglie privando bambini e bambini di un’infanzia tranquilla e spensierata, o vuole quantomeno riavviare il discorso per mettersi al pari di alcuni dei suoi vicini?
In Francia, ad esempio, serve che almeno un genitore sia cittadino; in Germania, dove fino al 2000 vigeva un pieno Ius sanguinis, ora si può ottenere la cittadinanza alla nascita se almeno un genitore ha un permesso di soggiorno permanente. E funziona in modo simile in Spagna, Regno Unito, Portogallo, Irlanda, Grecia…

A differenza di tanti miei connazionali io sono chiaramente più fortunata. Ottenuta la cittadinanza infatti, oggi posso viaggiare in tutto il mondo. Posso andare a vivere in un altro paese comprando semplicemente un biglietto dell’aereo, posso lavorare nel pieno dei diritti di una lavoratrice, e quando farò dei figli non subiranno quello che ho subito io assieme ai miei fratelli. Perché sono italiana, ho pagato per esserlo.
Non lo sarò per i follower dell’ex-Ministro degli Interni Matteo Salvini, ma fieramente sfoggio la mia pelle, la mia cultura, la mia lingua e la mia storia. Fieramente mi sono impossessata anche della cultura, della lingua e della storia italiana; quella storia passata fatta di valorosi e valorose partigiane, e quella attuale di chi non si arrende e condanna ogni giorno il razzismo, il fascismo e il sessismo.
Chiudo con una frase di un amico, una frase che ha urlato al microfono ogni volta che ha cantato in pubblico. La cantava in tempi meno bui, quando questo paese aveva meno paura del diverso, e pensavamo che la situazione poteva solo che migliorare, andare avanti.
Con la forza della nostra diversità, “Siamo tutti quanti cittadini del mondo”.

Nassi LaRage

 

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