Milano, 10 Agosto 1944 – L’eccidio di Piazzale Loreto
Il 10 Agosto cade il 73° anniversario della strage nazifascista di Piazzale Loreto quando 15 partigiani furono fucilati dalla Legione Muti su ordine del comando tedesco e i loro corpi abbandonati in piazza al sole di Agosto come monito alla città.
Anche quest’anno è prevista una giornata di iniziative per ricordare quel sanguinoso episodio in una fase in cui un potente vento di destra intollerante e xenofobo spira in tutta Europa e le aperture di ogni telegiornale e quotidiano sulla cosiddetta “emergenza migranti” fomentano le paure dei cittadini.
Ricordiamo quella tragico avvenimento della nostra storia con tre poesie dedicate ai partigiani fucilati quel 10 Agosto.
[articolo di MilanoInMovimento per il 70° anniversario dell’eccidio]
“I martiri di Piazzale Loreto” – Aligi Sassu, 1944, olio su tela
Salvatore Quasimodo – “Ai quindici di Piazzale Loreto”
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano :
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.
——–
Alfonso Gatto, “Per i compagni fucilati in Piazzale Loreto”
Ed era l’alba, poi tutto fu fermo
la città, il cielo, il fiato del giorno.
Restarono i carnefici soltanto
Era silenzio l’urlo del mattino,
silenzio il cielo ferito:
un silenzio di case, di Milano.
Restarono bruttati anche di sole,
sporchi di luce e l’uno all’altro odiosi,
gli assassini venduti alla paura.
Era l’alba, e dove fu lavoro,
ove il piazzale era la gioia accesa
della città migrante alle sue luci
da sera a sera, ove lo stesso strido
dei tram era saluto al giorno, al fresco
viso dei vivi, vollero il massacro
perché Milano avesse alla sua soglia
confusi tutti in uno stesso sangue
i suoi figli promessi e il vecchio cuore
forte e ridesto stretto come un pugno.
Ebbi il mio cuore ed anche il vostro cuore
il cuore di mia madre e dei miei figli,
di tutti i vivi uccisi in un istante
per quei morti mostrati lungo il giorno
alla luce d’estate, a un temporale
di nuvole roventi. Attesi il male
come un fuoco fulmineo, come l’acqua
scrosciante di vittoria; udii il tuono
d’un popolo ridesto dalle tombe.
Io vidi il nuovo giorno che a Loreto
sovra la rossa barricata i morti
saliranno per i primi, ancora in tuta
e col petto discinto, ancora vivi
di sangue e di ragioni. Ed ogni giorno,
ogni ora eterna brucia a questo fuoco,
ogni alba ha il petto offeso da quel piombo
degli innocenti fulminati al muro.
——–
Franco Loi, Piazzale Loreto 1944
…piassa Luret, serva del Titanus
ti’, verta,
me na man da la Pell morta
i gent che passa par j a vör tuccà,
e là, a la steccada che se sterla,
sota la colla di manifest strasciâ,
l’è là che riden, là, che la gent surda
la streng i gamb, e la vurìss sigà.
Genta punciva che la se smangia ‘doss,
che la ravìscia ai pè, cume quj trémul
che, ‘rent al giüss, se sviccen vers el ciar
e sott la rùsca passa la furmiga
che l’è terrur e rabbia e sbalurdur.
E lì, bej ‘nsavunâ, dal pel rasà,
senta süj cass de legn, o, ‘m’i ganassa,
ranfiâ, ch’i sten par téndcr caressà,
o che, tra n’ rid e un dìss üsmen cress j ödi
de la camisa nera i carimà,
vün füma, n òlter pissa, un ters saracca,
e ‘n crìbben, cui sò fà de pien de merda,
man rosa ai fianch el cerca j öcc nia…
Oh genti milanes,
vü, gent martana,
tra ‘n mezza nün ‘na gianna la dà ‘n piang,
e l’è ‘na féver che trema per la piassa
c la smagriss i facc che morden bass.
Ehi, tu…!… si tu!… che vuoi?
Manca qualcosa?
Mì…?
Si, tu.
e ‘na magatel cul mitra sguang
el ranfa per un brasc quèla che piang.
Mi, sciur…?
Tira su la testa !
e lentarnent,
‘m rìd una püciànna, i òcc gaggin
sbiàven int j òcc ch’amur je fa murì,
pö, carmu, ‘na saracca sliffa secca
tra i pé de pulver, e sfrisa ‘me ‘na lama
l’uggiada storta tra quj òmn scalfa, [….]
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