“Our War” – Intervista con Benedetta Argentieri, co-regista

Venerdì 9 Settembre è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia “Our War”, il documentario di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia che racconta l’esperienza della rivoluzione in Rojava e della lotta allo Stato Islamico condotta dalle forze curde dal punto di vista di tre combattenti internazionali. Proprio in questi giorni abbiamo intervistato Benedetta non solo sul documentario, ma anche sulla complicata vicenda siriana. Ecco le sue risposte.

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-La questione curda, qui in Occidente, è sempre stata seguita con scarsa attenzione se non in alcune limitate fasi temporali. La prima si ebbe a fine anni ’90 quando, con un gioco di servizi segreti il leader del PKK Ocalan fu “venduto” ai servizi segreti turchi. La seconda è quella che stiamo vivendo. Con l’inizio della guerra civile siriana nel 2011, nel Nord della Siria è iniziata la rivoluzione della Rojava. L’accanita e vincente resistenza di Kobane allo Stato Islamico ha rimesso i Curdi sotto i riflettori del mondo. Come ti sei appassionata alla vicenda del popolo curdo?
Avevo seguito da vicino tutta la vicenda di Ocalan, ma il vero avvicinamento è avvenuto circa due anni fa. Il 3 Agosto 2014 lo Stato Islamico ha attaccato Sinjar, rapendo e uccidendo migliaia di persone, il PKK con YPG e YPJ sono riusciti ad aprire un corridoio salvando chi era intrappolato sulla montagna. Ho cominciato a studiare e sviluppare contatti. Poi sono andata diverse volte in Iraq e a Rojava.

-Com’è venuta e si è sviluppata l’idea di fare un film?
Già a Novembre del 2014 ho cominciato a incontrare i primi stranieri arrivati a Rojava. Era la prima ondata, la maggior parte erano ex soldati americani che avevano deciso di tornare per combattere lo Stato Islamico. Ho iniziato a scrivere di questo fenomeno e sono rimasta in contatto con molti di loro, cercando di monitorare quante persone stavano arrivando e se davvero si stesse trasformando in un “fenomeno”. Poi in Italia ho incontrato Karim Franceschi che mi ha parlato di alcune immagini che aveva girato a Kobane e che voleva farmi vedere. A quel punto ho chiamato Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia per avere una loro valutazione tecnica e insieme abbiamo cominciato a ragionare sulle immagini e su che cosa potessero significare a un pubblico più ampio una scelta del genere. Abbiamo proceduto a piccoli passi, è stato un lavoro intenso e lungo e il risultato è stato Our War.

-Quali sono gli scogli principali da superare per riuscire a produrre un’opera del genere?
Ce ne sono tanti, alcuni previsti e altri meno. Dal punto di vista produttivo, essendo noi completamente indipendenti abbiamo dovuto cercare di equilibrare le nostre ambizioni con un budget limitato e auto-finanziato. Il documentario ha immagini da quattro paesi diversi, noi abbiamo girato tra la Svezia, gli Stati Uniti e l’Italia. E’ stata una scelta voluta quella di non girare altro materiale in Siria, abbiamo deciso di utilizzare solo quello che ci era stato dato da Karim e poi dal secondo personaggio Rafael Kardari.
Allo stesso tempo siamo stati molto fortunati perché alla fine di un primo montaggio, abbiamo trovato grandi professionalità del cinema che hanno creduto nel film e nel nostro progetto. Da Vittorio Cosma ed Eugenio Finardi che hanno “donato” le musiche e la canzone originale Our War, poi Start con Riccardo Annoni che ci ha aiutato in tutta la post produzione. Un altro incontro molto importante è stato quello con il produttore Lorenzo Gangarossa che ha deciso di produrre personalmente questo film. È stato un lavoro collettivo in cui ognuno di noi ha regalato le proprie competenze al documentario.

-Il film è molto asciutto e privo di retorica, quasi in contrasto con le frasi fatte e gli stereotipi con i quali i media occidentali trattano la questione siriana. E’ stata una scelta?
Si. E in questo siamo stati molto rigorosi, nel senso che pian piano montavamo il film, abbiamo deciso di toglierci e far raccontare a loro, i protagonisti, il più possibile. L’idea è quella di dare allo spettatore le informazioni e gli strumenti affinché si faccia una propria idea.

-Dal “risveglio islamico” degli anni ’70 in tutti gli scenari di guerra che hanno coinvolto l’Islam dall’Afghanistan invaso dai Sovietici alla Bosnia e al Kosovo, dalle due guerre di Cecenia fino all’Afghanistan e all’Iraq sotto occupazione americana si è sempre assistito al formarsi sui campi di battaglia di formazioni costituite da combattenti stranieri di fede musulmana. In Siria siamo arrivati a numeri elevatissimi di combattenti stranieri (il film parla di 30.000 persone). La novità inquietante è stata ed è tuttora l’afflusso massiccio dall’Occidente opulento e in crisi d’identità per arruolarsi tra le fila dell’ISIS. Secondo te quali sono le ragioni di questa disponibilità?
La grande novità di ISIS sono i numeri, perché mai prima di questo conflitto abbiamo visto, in epoca recente, una massa spostarsi per combattere in una “guerra santa”. I numeri sono impressionanti e secondo me giocano vari fattori. In primis la propaganda. Lo Stato Islamico ha usato internet e i social network come uno strumento per reclutare migliaia di persone. Noi ci siamo focalizzati sull’Europa ma la verità è che queste 30mila persone arrivano soprattutto dal Nord Africa, la Cecenia e altri paesi. Dall’altra parte c’è la difficoltà di una seconda generazione che non si sente integrata e parte della società. Troppe volte emarginati o trattati da cittadini di serie B. Molto interessante è infatti vedere che, ad esempio, dagli Stati Uniti, sono partiti in pochissimi.

-Seppur con numeri minori anche la rivoluzione della Rojava ha visto accorrere sotto le sue bandiere centinaia di combattenti internazionali in un’esperienza che ci ricorda quella della Spagna repubblicana e antifranchista degli anni ’30 e del Nicaragua sandinista degli anni ’80. Che idea ti sei fatta della questione?
Spesso e volentieri quando si parla degli stranieri si cita la guerra civile spagnola. Ma c’e’ una grandissima differenza, che a quell’epoca c’era un partito dei lavoratori che organizzava le brigate internazionali. Oggi non è più così. Grazie ai miei viaggi ne ho incontrati molti, e in generale le motivazioni sono molto diverse. Nonostante non tutti condividano le posizioni ideologiche del PYD, la maggior parte ha abbracciato la rivoluzione del Rojava. E questo è un dato fondamentale.

-Aspetto fondamentale del film è la storia di tre ragazzi stranieri Karim, Rafael e Joshua che hanno deciso di combattere per i Curdi dello YPG contro lo Stato Islamico. Nel film emerge con forza la diversità dei loro punti di vista, delle loro culture di appartenenza e delle loro esperienza di vita precedenti. Questo sembra valorizzare ancora di più la capacità dell’esperimento della Rojava di mettere a valore e unificare anche idee e percorsi molto distanti tra loro. Che ne pensi?
Abbiamo voluto tradurre in immagini quello che dicevo poco fa. I Curdi. il Rojava, sono un po’ il quarto personaggio del film e infatti tutti i tre i protagonisti hanno in comune due cose: la scelta di andare a combattere con l’YPG e quella di aver abbracciato e sostenere il Rojava.

-A un certo punto Joshua, il combattente americano che viene da una lunga esperienza di guerra coi Marines si esprime con una frase molto dura, ma altrettanto sincera che suona più o meno così: “Il socialismo…sulla carta è un progetto perfetto…bellissimo. Ma poi, quando si deve confrontare con la natura umana e con l’avidità degli uomini…non funziona”. Che ne pensi?
Credo di capire le sue ragioni, ma io voglio ancora sperare in un progetto. Purtroppo la sopravvivenza del Rojava e della rivoluzione non dipenderà dall’aspetto ideologico o dalle popolazioni locali, ma da assetti geopolitici che in in questo momento sono quasi impossibili da prevedere.

-Nel film emerge più volte il fatto che spesso per i Curdi i volontari stranieri, oltre ad essere una risorsa, si trasformano in un problema da gestire per una serie svariata di motivi. Quali sono i pro e i contro di avere tra le proprie fila combattenti internazionali?
Ce ne sono tanti e diversi. All’inizio gli stranieri, e penso soprattutto agli americani come Jordan Matson sono stati uno strumento di propaganda eccezionali. In più altri avevano delle competenze molto specifiche sul campo di battaglia estremamente utili. Ma la realtà, come spesso viene ripetuto nel film, YPG non ha bisogno di combattenti perché è una vita che combattono. E tanti di questi stranieri hanno portato problemi, non hanno capito dove erano, per che cosa combattevano. Altri non sono riusciti a stare più di un mese e il YPG ha speso tempo e risorse per addestrarli e loro hanno postato una foto su Facebook, scritto un libro e chiuso la loro esperienza. Una cosa vorrei sottolineare: bisogna fare molta attenzione a non idealizzare la guerra, anche quando si combatte per una giusta causa.

-La fotografia del film è su toni piuttosto freddi e cupi. Invernali direi. E’ una scelta stilistica?
Diciamo che è stato girato in Inverno. In Svezia siamo andati ai primi di Gennaio, e c’è pochissima luce. E negli Stati Uniti eravam a Dicembre.

-In questi giorni, la Turchia, che per anni ha chiuso entrambi gli occhi (per usare un eufemismo) sull’ISIS ha deciso di far entrare le proprie truppe nel Nord della Siria con la scusa di combattere lo Stato Islamico, ma con la volontà concreta di attaccare la Rojava e impedire che i cantoni Curdi del Nord della Siria si unifichino. Di fronte a questa aggressione l’Occidente, dopo un breve “innamoramento” per la causa curda fatto di fiumi di retorica ai tempi dell’assedio di Kobane sta in imbarazzante silenzio. Cosa ne pensi?
Penso che la Turchia ha deciso di combattere una guerra aperta contro i Curdi, e che sta giocando su più piani. E’ un gioco pericoloso, in cui non mancheranno colpi di scena. Il governo turco ha appena annunciato che stanno preparando la più grande offensiva contro il PKK, e sicuramente faranno di tutto per contrastare Rojava. La situazione sta precipitando, e il silenzio di alcuni paesi è molto preoccupante.

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