Road to Gaza

Il racconto del viaggio da Gerusalemme fin dentro la Striscia.

La domenica a Gerusalemme è come il lunedì in Italia. Dopo il venerdì, giorno sacro per i musulmani, c’è il sabato che è il giorno sacro per gli ebrei. Così le attività riprendono dopo i festivi con frenesia.
Il nostro viaggio parte la mattina presto, la giornata sarà lunga e faticosa. La stazione dei treni e dei pullman della Città Santa per le tre religioni monoteiste, è affollata. Sebbene sia inverno una giacca leggera è sufficiente a reggere la temperatura. Trovare l’autobus per Ashkelon è un impresa già di per sé. Le divise dei militari, tutti giovanissimi, tra i 18 e i 21, sono il colore principale della stazione. Come macchine nei corridoi della stazione, in spontanea fila indiana. Qualcuno con le cuffie, altri giocano al telefono in attesa del mezzo che li porterà a destinazione. Queste si trovano in tutto Israele come in Cisgiordania: l’apparato militare si dispiega in caserme, check point, ronde, torrette di controllo, difesa dei coloni e degli insediamenti illegali e via dicendo.
Ognuno di loro porta con sé un fucile d’assalto oltre che lo zaino con gli oggetti personali. Un fucile fatto per intimorire, colpire, gambizzare, uccidere palestinesi spesso più giovani dei soldati stessi.
Le indicazioni a Gerusalemme sono trilingue, per prima si trova sempre quella imposta dall’autoproclamato Stato ebraico.

Sull’affollato pullman per Ashkelon, ultimo insediamento israeliano prima del check point per accedere alla Striscia di Gaza, solo due persone non portano la divisa militare e l’immancabile fucile. Dentro al mezzo le scritte in arabo e inglese scompaiono, come dal resto dalla segnaletica e dalle indicazioni stradali. I nomi delle città conquistate sono quelli della teocrazia israeliana, per un tipo di propaganda israeliana non sono mai esistiti i palestinesi dunque non può esistere nemmeno l’apartheid nei loro confronti.
Il paesaggio non è paragonabile con quello della Cisgiordania contemporanea. Il recinto di filo spinato la fa da protagonista, ma le strade si tengono ben lontane dal MURO, per non offendere la vista degli onesti cittadini-soldati israeliani, mentre ad uno sguardo attento si scorgono comunque torrette con cecchini qua e là.
Questo paesaggio differisce dalla maggior parte della Cisgiordania per la presenza dell’acqua e dunque di estese coltivazioni a ridosso degli insediamenti israeliani che, in Cisgiordania, sono sempre posti nel punto più alto del paesaggio, in modo da controllare la zona e a piacimento scendere, vestiti da civili, ma accompagnati dai militari, verso le terre dei palestinesi (che si trovano sempre più in basso) per dare libero sfogo ai mostri mentali della militarizzazione verso contadini e oliveti.
Infatti, parte della strategia israeliana consiste nell’erodere occupando e costruendo o acquistando le terre di proprietà palestinese, accentrando le fonti d’acqua presenti in questa terra semi-desertica, per poi rivendere l’oro blu agli stessi palestinesi e limitandone fortemente l’accesso.

Nel pullman silenzioso la radio in lingua ebraica dice qualcosa a riguardo dell’escalation USA-Iran ma quasi nessuno dei soldati ragazzi e ragazze sembra interessarsi particolarmente. Gli auricolari e gli smartphone mantengono stabile il livello di alienazione nel mezzo di trasporto.
Fermata dopo fermata, scendono con il fucile a tracolla e uno a uno si incamminano alle postazioni.

L’autobus termina la corsa ad Ashkelon, insediamento israeliano di frontiera, uno dei luoghi nella cui direzione vengono lanciati i rudimentali missili Qassam dalla Striscia, poco resistenti al vento e normalmente intercettati dallo scudo missilistico israeliano.
Dalla stazione dei pullman, per arrivare al valico di Erez, l’unico modo è prendere un taxi israeliano alla modica cifra di 100 NIS (25 euro), e dopo aver trovato il tassista più coraggioso in 15 minuti si viene scaricati a più di 200 metri dall’ingresso.
Dal primo casello all’ultimo, sembra di entrare in un aeroporto: casello, domande, visto, metal detector, motivo della visita, cancelli, telecamere a grappolo, percorsi tortuosi fatti di enormi spazi centellinati, contorti. Un’anziana signora palestinese, avviluppata nei veli, si affanna nello spingere dei carrelli attraverso il tornello, che tuttavia non prevede che il passaggio di una singola persona, e nemmeno troppo grossa.
In questo clima di mestizia con i soliti soldati annoiati che giocano al telefono, qualcuno è più rabbioso, qualcun altro fa del nostro ingresso il climax della giornata, sorridendo. Ma dietro quel sorriso si celano domande, pregiudizi, forse disprezzo per chi fa della libertà la sua unica religione.
Usciti da questa vera e propria cattedrale nel deserto del nulla, senza indicazioni, segnali, si entra nella terra di nessuno. Qui oggi degli operai lavorano per contenere il fiume che esondando per l’acquazzone, si è ripreso per un giorno il suo spazio, ora occupato dal sentiero sterrato dei controlli.

L’arrivo di internazionali nella zona cuscinetto dell’Autorità Palestinese è un susseguirsi di ‘benvenuto’, ‘da dove vieni’, ‘cosa fai di lavoro’. Un veloce controllo precede l’ultimo dei controlli per accedere. Lungo la sterrata qualche decina forse di lavoratori pendolari si muove verso Israele per scambiare il proprio tempo in cambio di qualche NIS all’ora, oppure verso Gerusalemme per accedere agli ospedali per palestinesi. Ma per un palestinese, normalmente, ricevere i permessi per attraversare il valico è un avvenimento più unico che raro. I giovani non conoscono che questo recinto militarizzato: se non esistessero internet e i social, non potrebbe immaginare null’altro.

All’ultimo check point, quello della teocrazia islamica, si aggiungono controlli rispetto al possesso di alcol e stupefacenti. Paranoia per certi versi comprensibile, considerando il rischio che queste persone rinchiuse tra cancelli e torrette corrono, costantemente sorvegliate dai droni, bersagliate sui confini da proiettili ai fianchi e bombe dal cielo, di ricorrere a sostanze per cercare di alleviare le sofferenze e la tensione. Cosa rimane ai gazawi, se non lottare per la propria libertà?

Nils Curziotti per il Gaza Freestyle

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