Al lavoro e alla lotta – Spiragli di possibilità. Perché mi ha fatto bene andare a Roma

piazzaSpiragli di possibilità.
Perché mi ha fatto bene andare a Roma.

“Al lavoro e alla lotta”. Di certo non ha paura di sembrare novecentesca Susanna Camusso, che conclude il suo comizio con un’esortazione che ha il sapore del secolo scorso, in una piazza che nell’estetica propone un immaginario del passato, dominato dal rosso, dalle bandiere, dai fischietti, dagli striscioni di categorie sconosciute a intere generazioni, e nei contenuti offre un quadro di lotte e prospettive che si fa fatica a non definire di retroguardia.

Eppure.
Eppure ignorare quella piazza gremita bollandola come antica sarebbe un errore, e un errore grave. Perché da qualche tempo a questa parte è uno dei pochi spiragli che sembrano aprire a una stagione di conflitti che sia anche numericamente rilevante. E perché quella piazza può, potrebbe, aprire spazi di legittimità alle battaglie contro una cultura così pervasiva da essere entrata ormai nelle vite di ognuno di noi, contro il pensiero che intende la libertà solo come libertà d’impresa, la disuguaglianza come dato normale e incontrovertibile della società contemporanea, il welfare come carità, i diritti come privilegi.

A me andare a Roma sabato ha fatto bene. Ritrovarmi in mezzo a tantissime persone “normali”, che da tutta Italia si sono messe per ore su scomodissimi pullman, rinunciando a un tranquillo sabato di riposo, invertendo la comoda logica del “chi me lo fa fare”, combattendo la miseria della supposta necessità delle proprie incombenze quotidiane per partecipare a un evento collettivo, che già solo per questa sua caratteristica è tutt’altro che scontato nel qui e ora del nostro Paese.

Non sono militanti, non sono solo sindacalisti, non sono solo sinistra Pd. Sbaglieremmo a vedere in tutta questa gente solo la voglia di rivendicare la necessità di una rappresentanza a sinistra del mondo del lavoro dipendente che lotta per tutelare i propri diritti. Lasciamolo fare ai media mainstream questa operazione di ridurre questa manifestazione a un gioco di potere tutto interno al Pd, al colpo di coda di un pezzo del partito che non accetta di farsi mettere nell’angolo. Certo che c’è anche questo, ma francamente è la parte meno interessante, e significherebbe ancora una volta usare le persone vere come strumenti dei giochi di palazzo.

Se lo sforzo a tutti i livelli è la repressione e la pacificazione, se nella crisi ogni espressione di dissenso è tacciata di essere un ostacolo per l’uomo solo al comando che lavora per risolvere i nostri problemi, allora in quella piazza possiamo provare a leggere l’apertura di uno spiraglio, se la più grande organizzazione dei lavoratori italiani tenta, se ci tenta davvero dobbiamo ancora vederlo, di non essere solo la cinghia di trasmissione che rende accettabili le politiche del Pd alla maggior parte delle persone, se il governo non è più amico… certo, ci sono un sacco di se, ma non era scontato che piazza San Giovanni sarebbe stata così piena, e questa prova di forza un po’ di coraggio alla Cgil potrebbe anche darglielo.

Tornando a casa, le parole che si riprendono e discutono sono per tutti le stesse. La più gettonata è sciopero generale, quella salutata dai maggiori applausi in piazza, che segnalano la voglia di alzare il livello del conflitto con questo governo. È qui che si misurerà nei prossimi giorni il coraggio del sindacato, perché se un milione di persone in piazza sono un buon modo per dare il via all’opposizione alle politiche di austerity, all’idea che dalla crisi si esce comprimendo i salari, i diritti, il welfare, bloccare il Paese sarebbe un’ottima seconda tappa per dire che di fronte al modello di un governo che elargisce, bontà sua, 80 euro qua e là direttamente in tasca a qualcuno mentre smantella lo stato sociale, c’è anche la possibilità di offrire strumenti collettivi di partecipazione, di non lasciare a ognuno l’incombenza di affrontare la sua propria crisi personale. “Non abbiamo nostalgia della concertazione, per concertare bisogna avere obiettivi comuni”, la speranza che sento nei discorsi della gente che rientra verso Cinecittà a riprendere i pullman, è quella che la Cgil riesca davvero a uscire dall’immobilismo e rimettere la “lotta” evocata al centro della propria azione, lo spostamento dei rapporti di forza nei propri obiettivi.  “Tassare le grandi ricchezze” sembra scontato, ma la cosa vera, con cui dobbiamo fare i conti, è che non lo è. Che il tema dominante è, sempre, ridurre le tasse, come un mantra che rappresenterebbe la soluzione di ogni problema. Le tasse come il male assoluto: chiunque frequenti un bar sa che questo concetto è talmente diffuso che già metterlo in discussione è un passo avanti, piccolo, ma che prova a intervenire nel disastro culturale che il Berlusconismo ha lasciato in dote al futuro, e che il renzismo ha abbracciato con entusiasmo. “Se noi rappresentiamo solo i lavoratori forti e tutelati, allora vorrà dire che metteremo la forza e l’esperienza acquisita in tanti anni di lotta a disposizione dei più deboli e degli invisibili”. Qui si gioca la scommessa vera: saremo capaci di costruire battaglie che sappiamo tenere insieme generazioni e situazioni di vita così diverse? Saremo capaci di contrastare l’idea che non è smantellando i diritti acquisiti che si creano condizioni migliori per precari e disoccupati? Sapremo disabituarci, noi per primi, a giudicare irrilevanti le battaglie per tutelare i diritti che ancora reggono, a definire “privilegiato” chi ha un posto di lavoro che conserva qualche garanzia e sicurezza ma è sempre più squalificato e sottopagato?

Il Paese che vedo ogni giorno è fatto di rassegnazione, solitudine, grandi incazzature per lo più virtuali e quasi sempre male indirizzate, guerra fra i poveri che guadagna spazi di consenso e perfino numeri nelle piazze, tentativi di restare quotidianamente a galla spingendo un po’ più giù chi è appena più in basso di me.
Li vedo, e ci sono, importanti segnali di resistenza, conflittuali, radicali, anche avanzati nei contenuti ma, dobbiamo ammetterlo, limitati nei numeri e spesso anche nelle ambizioni. E ho visto la Cgil in piazza sabato, ancora capace di portare in piazza un milione di persone, ma che rischia di offrire lotte e prospettive settoriali e moderate, in un quadro di valori e strumenti che non è al passo coi tempi e non offre possibilità a una fetta gigantesca del Paese.
Ma ad ogni livello c’è un attacco al dissenso generalizzato, dove la repressione a livello locale di ogni forma di conflittualità si specchia nella costruzione di una cultura generale e diffusa di rampantismo, con modelli vincenti di successo e perfino di lusso riproposti all’infinito come l’orizzonte cui ognuno, con le sue propri forze, dovrebbe tendere e con la negazione totale di ogni visibilità a una disperazione tanto diffusa quanto taciuta, fatta di singole solitudini rimaste prive di ogni prospettiva collettiva.
E se la situazione è questa, o lavoriamo per tenere insieme quello che c’è oppure non abbiamo davvero alcuna speranza. Qualche spiraglio si intravede, proviamo a lavorare perché non si chiuda.

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