Articolo 18 – Alcuni spunti di riflessione

articolo181L’abolizione dell’articolo 18 è al centro del dibattito pubblico di questi giorni. Vorrei proporre qualche spunto di riflessione, anzitutto, lo dichiaro da subito, perché credo che si tratti di un tema importante, e perché credo che riguardi davvero tutti e tutte. Non tanto perché tutti oggi possano godere dei diritti garantiti dall’articolo 18, quanto perché rappresenta un modo di intendere e gestire l’organizzazione del lavoro che ha a che fare con la cultura generale della società e la regolamentazione dei rapporti di forza all’interno della società stessa, prima ancora che nei luoghi di lavoro. Insomma perché la proposta di abolire l’articolo 18 rappresenta un’idea di società e contribuisce alla costruzione di un immaginario che rischia di essere passivamente accettato dalla maggioranza delle persone prima ancora che capiamo davvero di cosa si tratti.

Provo a spiegarmi. Anzitutto inquadriamo il tema: il jobs act non prevede solo la modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma anche dell’articolo 4 e dell’articolo 13. Che sono quelli che riguardano il demansionamento e il controllo a distanza. Cioè da una parte il fatto che se sei assunto (e pagato) per svolgere una mansione devi svolgere quella mansione, e dall’altra parte il divieto di controllare tramite telecamere o altri strumenti le persone mentre lavorano. Non sono temi da poco, ma vorrei concentrarmi sull’articolo18, vero tema all’ordine del giorno, anche se, come proverò a dire, credo che tutto rientri in progetto unico di definizione dei rapporti di lavoro e sociali.

Partiamo col fare un po’ di chiarezza, perché si parla tanto di questo tema senza capirne fino in fondo le implicazioni, e spesso ci facciamo condizionare nella discussione da una quantità di luoghi comuni che non sono la realtà, e che sono funzionali a indirizzare il dibattito in una direzione precisa.

Il primo luogo comune è l’affermazione che l’articolo 18 riguardi solo una minoranza di lavoratori ipergarantiti. Anzitutto attenzione alle parole: ipergarantito non è nessuno. Se guardiamo gli altri Paesi Europei, le loro regole sui licenziamenti, soprattutto dopo la Riforma Fornero del 2012, l’idea che i lavoratori italiani a tempo indeterminato siano dei privilegiati superprotetti è una stronzata galattica. In tutti i Paesi Europei ci sono regole contro i licenziamenti senza giusta causa, e la maggior parte prevedono il reintegro nel proprio posto di lavoro. Solo che ci hanno ripetuto così tante volte che il lavoro in Italia è super tutelato che finiamo per crederci. E se è vero che riguarda solo chi ha un contratto a tempo indeterminato in aziende superiori ai 15 dipendenti, questo non significa che riguardi poche persone. Molti hanno scritto in questi giorni che l’articolo 18 riguarda il 2,4% delle imprese italiane, senza tuttavia specificare che oltre il 90% delle imprese italiane ha meno di 9 dipendenti. E siccome a noi interessano le persone, e non le aziende, vediamo di non cascare nel trucchetto della statistica usata a uso e consumo di qualcuno: l’articolo 18 riguarda in Italia oltre 6 milioni di persone! È dura sostenere che si tratti di un argomento marginale. Mi permetto anche di far notare che se su 10 persone solo 6 hanno un tozzo di pane, il tema dovrebbe essere come dare del pane agli altri 4, non come toglierlo a chi ce l’ha.

L’altro luogo comune, ma qui già ci crediamo meno, è che abolire l’articolo 18 serva a rilanciare l’occupazione. Non ci voglio spendere troppe parole, da decenni i governi lavorano allo smantellamento dei diritti, e guardate e in che situazione siamo. La realtà dei fatti è più forte in questo caso di qualsiasi argomentazione teorica: togliere diritti non è servito in nessun modo a creare lavoro e occupazione. Aggiungiamo un elemento: nel jobs act il tema dell’abolizione dell’articolo 18 è affiancato a quello dell’inserimento del salario minimo. Qui c’è da capire che la posta in gioco è proprio il tema del salario: in tempo di crisi, quando il lavoro non c’è, rendere tutti precari e ricattabili significa, ed è l’obiettivo vero della riforma, diminuire gli stipendi. Se non si possono più attivare rivendicazioni collettive, lo standard delle retribuzioni diventa proprio il salario minimo che, da quello che è dato sapere, non supererà in genere i 900 € al mese. Così non resterà altra soluzione che, dal momento che trovare un altro lavoro è praticamente impossibile, subisco il ricatto e mi tengo il mio lavoro di merda. Col risultato che l’introduzione del salario minimo, affiancato allo smantellamento dei diritti, servirà solo a legittimare paghe da fame.

E poi: i casi di reintegro sono così pochi, che l’articolo 18 in fondo è poco utilizzato, praticamente irrilevante. E qui c’è poco da dire: io non ti rubo quella cazzo di Mercedes di lusso che è un insulto alla miseria perché c’è una legge che mi impedisce di farlo, e se te la rubo finisco in galera. La legge funziona da deterrente, sembra banale, ma dalle cose che si leggono in questi giorni sembra utile ricordarlo.

Ma c’è di più, ed è, secondo me, il punto importante di questa discussione: da molte parti si dice in questi giorni che l’articolo 18 è un simbolo, e la battaglia per difenderlo è tutta ideologica. In questa affermazione c’è del vero, e andrebbe approfondita. L’articolo 18 è il simbolo di un’idea del lavoro e della società per cui le persone si organizzano per difendere i propri diritti in corpi collettivi. Tanto ci sarebbe da dire sulla triste fine che stanno facendo i corpi collettivi nel nostro tempo, ma di fatto attaccare un simbolo significa attaccare l’idea che c’è dietro e scrivere un nuovo immaginario. Vista così, l’abolizione dell’articolo 18 è un altro tassello nella costruzione di una società in cui l’unica libertà pensabile è la libertà di impresa, che ci vuole tutti soli e ricattabili. È la costruzione di una cultura che è già maggioritaria, per cui niente deve frapporsi fra l’individuo e l’uomo solo al comando. Per questo il tema della difesa dell’articolo 18 mi sembra strettamente legato a quello della precarietà: il tema della precarietà, è stato detto tante volte, non è semplicemente il tema del rapporto di lavoro, ma della condizione di vita, della solitudine e della mancanza di strumenti di battaglia politica. E questa situazione del lavoro ha il suo completamento dell’idea che “da solo ce la faccio”, che devo essere un vincente, che la qualità della mia vita dipende da me solo e da quello che sono capace di fare e di costruire con le mie forze. È l’individualismo supportato da un sistema di valori e regole che ti propone desideri e obiettivi e aspettative che sono indotti, falsi e di fatto irrealizzabili, ma stanno lì ad indicarti la via del successo, che puoi ottenere solo a scapito degli altri, se sugli altri eccelli, se ti distingui dalla massa amorfa e sfigata.

Ma nessuno si salva da solo. Nel tempo della crisi che stiamo vivendo, questo dovrebbe essere evidente a tutti, perché è la nostra realtà quotidiana. Certo, la nostra riflessione, quella dei movimenti prima di tutto, è avanti anni luce rispetto alla difesa dell’articolo 18 che rimane, ne sono consapevole, una battaglia di retroguardia. E tuttavia resto convinta che sia, oggi e nelle condizioni in cui siamo, un campo da attraversare. Perché in questo momento ha la possibilità di essere una battaglia maggioritaria, soprattutto se riusciamo a legarla ai temi più avanzati della nostra riflessione, ai temi della precarietà e del reddito anzitutto.
Non possiamo, io credo, limitarci a proseguire nelle nostre discussioni e a condurre le nostre battaglie senza porci il tema dell’efficacia o quanto meno della rilevanza (irrilevanza?) delle nostre azioni politiche. Sul tema del lavoro si apre un possibilità di conflitto, che è possibile legare ai temi della governance e dello spazio europeo, al tema più generale dei diritti e dei meccanismi di controllo. Non è la costruzione del mondo che vorremmo, ma potrebbe essere un’ancora di salvezza in un momento in cui, diciamocelo con franchezza, non siamo certo in salute. Misurarci su questa possibilità, testare la nostra capacità di spostare l’asse della discussione e dell’iniziativa, di attraversare i conflitti e moltiplicarli è una possibilità che si apre e che dovremmo percorrere, con le nostre specificità e senza rinunciare agli avanzamenti di pensiero che abbiamo prodotto in questi anni, ma abbandonando la supponenza da avanguardia culturale e indagando, nella pratica concreta e nella materialità dei conflitti che si danno, quali sono le battaglie che possono essere percorse e che magari possono essere spinte un po’ più avanti, anche a dispetto delle aspettative e delle previsioni di chi le mette in campo.

 

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