Calcio contro il razzismo: le Black Panthers di Milano

17103544_1410324572353664_1795745109841037542_nMilano, 14 mar. (LaPresse) – “Come possiamo migliorare la nostra condizione di migranti e permettere agli italiani di conoscerci? Il progetto parte da questa domanda. Del resto, cosa è meglio di una partita a pallone per fare gruppo e combattere il pregiudizio?”. Sulay Jallow, 26 anni, viene dal Gambia. E’ il presidente del Black Panthers Footbal Club, la prima squadra di calcio a Milano costituita interamente da richiedenti asilo. “Il nome ci si addice: neri siamo neri, e del movimento della rivoluzione afroamericana del secolo scorso condividiamo gli ideali”, racconta il ragazzo. “Usiamo lo sport per creare aggregazione e abbattere le barriere. Il calcio è una buona chiave antirazzista”, spiega Sulay, dicendo di essere “ancora sotto shock” per la notizia dell’aggressione subita nel Torinese dal calciatore di terza categoria dell’Atletico Villaretto, Gianluca Cigna, picchiato da un gruppo di violenti per aver difeso un suo compagno senegalese offeso con insulti razzisti. “Il governo italiano deve prendere posizione – commenta -. Se un immigrato aggredisce un italiano viene riportato su tutti i giornali. Ma anche se un italiano picchia uno straniero è illegale, eppure se ne parla meno. Alcuni razzisti lo sono per paura del diverso, e dei politici usano il razzismo in modo demagogico per attrarre persone al proprio seguito. Bisogna opporsi a questo meccanismo e creare integrazione attraverso la conoscenza reciproca. E’ successo di giocare con simpatizzanti della Lega Nord e del centrosinistra, stringendoci la mano a fine match”.

Nato a Banjul, capitale di 524mila abitanti, è arrivato in città un anno fa. Assieme ad altre trecento persone, Sulay vive alla caserma Montello e spera, fra un mese, di ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria e poter riprendere gli studi in Scienze politiche. Le ‘pantere nere’ nascono a febbraio 2016 da un’idea degli attivisti del centro sociale Lambretta e dei rifugiati del centro di accoglienza di via Aldini. Iscritti alla Uisp, l’Unione italiana sport per tutti, e riconosciuti dal Coni, hanno una curva, una pagina Facebook e tra i fan spopolano magliette e cappellini griffati ‘Black Panthers’.

Pantaloncini rossi e t-shirt blu, a febbraio è partita la campagna di tesseramento e sabato 18 giocheranno in via Caracciolo alla partita organizzata dal Comitato Zona 8 Solidale in occasione della due giorni di ‘Libera Montello’. Attualmente la squadra afro-milanese occupa le prime sei posizioni del play off del campionato, iniziato a ottobre e che finirà a maggio. Lo scorso dicembre, in occasione del 22esimo rapporto della fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multi etnicità, il team ha ricevuto il premio come miglior progetto milanese sul tema delle migrazioni.

Senegal, Gambia, Mali, Costa d’Avorio, Siria, Nigeria, Somalia: le storie dei calciatori narrano di fughe da conflitti e miseria, risparmi di famiglie spezzate spesi per raggiungere l’altra parte del mondo. “Non siamo in Italia per togliere spazio vitale a chi qui ci è nato. I giocatori della squadra hanno lasciato il loro Paese per via di guerre, dittature, povertà e disgrazie legate a pestilenze o catastrofi – spiega Sulay -. Quando pensi che manca poco ad andare in Italia sei felice perché sei convinto che lì troverai scuole e insegnanti per i bambini, democrazia, opportunità. La pace. Ma quando arrivi scopri il razzismo. Noi siamo africani, siamo neri e siamo esseri umani. E con ciò? Le leggi sui diritti umani vanno applicate: sono state scritte dagli europei, non dagli africani”.

La prima vittoria delle Black Panthers arriva il 25 giugno 2016 con il podio del 19esimo torneo a 11 dell’associazione Olinda cui partecipano 16 squadre. La finale è svolta all’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini e la vittoria è di 1-0 contro l’A.S. Salah. E dopo la partita, tutti in riunione. “Terminate le gare in campo facciamo incontri con la cittadinanza per far capire alle persone, italiane e di ogni nazionalità, quali sono le difficoltà dei rifugiati in Italia e nel Paese di origine – racconta il giovane presidente delle ‘pantere nere’ -. Il successo sta anche nel rimuovere la mentalità di chi viene in Italia e non va a scuola, spaccia o riempie le fila della prostituzione. Tra noi molti vogliono studiare, lavorare e sviluppare qualcosa di positivo, per tutti”.

di Ester Castano

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