Rivolte nel ventre della bestia: sull’occupazione della Columbia University

Nel pomeriggio di mercoledì 17 aprile gli e le studenti della Columbia University hanno occupato uno dei prati centrali del campus, di fronte alla biblioteca Butler, iniziando un “Gaza Solidarity Encampment”.
L’occupazione pacifica è iniziata lo stesso giorno in cui la Presidente della Columbia Minouche Shafik ha testimoniato in occasione di un’indagine sull’antisemitismo condotta dal Committee on Education and the Workforce della Camera degli USA. Mentre altre presidenti di università, come Harvard o Princeton, avevano difeso le proteste in solidarietà con la Palestina appellandosi alla libertà di espressione, Shafik ha preferito concentrarsi sulla minaccia dell’antisemitismo. Il pericolo dell’antisemitismo sarebbe in atto dal 7 ottobre e dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza, che ha condotto a un’ondata di mobilitazioni senza precedenti nei campus statunitensi. In seguito a queste proteste, la Columbia ha sospeso due organizzazioni studentesche accusate di aver violato le policies sulle modalità di azione politica nel campus e di aver dato spazio a discorsi carichi di minacce e antisemitismo. Le organizzazioni bandite dall’università erano le sezioni della Columbia di Students for Justice in Palestine (SJP) and Jewish Voice for Peace (JVP), ora tra le più attive dell’occupazione.

L’occupazione, organizzata dalla coalizione “Apartheid Divest della Columbia University” (CUAD), era stata pianificata da mesi. L’accampamento è stato uno sviluppo delle precedenti azioni a favore della Palestina, progettato per fare eco alla storia di protesta dell’università. “La Columbia University ha una ricca eredità di attivismo studentesco, dalle proteste per la guerra del Vietnam nel 1968 all’essere la prima scuola della Ivy League a disinvestire dal Sudafrica dell’Apartheid nel 1985”, ha scritto il CUAD mercoledì. “L’accampamento di solidarietà con Gaza rimarrà fino a quando la Columbia University non disinvestirà tutte le risorse finanziarie dalle società che traggono profitto dall’apartheid, dal genocidio e dall’occupazione israeliana in Palestina”. Oltre al disinvestimento l’occupazione chiede la trasparenza della gestione finanziaria dell’università, il boicottaggio degli accordi con le università israeliane e la possibilità di protestare liberamente.

CUAD fa riferimento soprattutto alle proteste del 23 aprile del 1968, quando gli studenti, uniti dall’opposizione al progetto di costruire una palestra universitaria in un vicino parco pubblico sottraendolo agli abitanti del quartiere e dal coinvolgimento della Columbia nella ricerca bellica, confluirono nel parco. Una settimana dopo, quasi mille attivisti occuparono cinque edifici universitari (compreso l’ufficio del presidente), presero in ostaggio il rettore e chiusero il campus, prima di essere allontanati dalla polizia in una violenta battaglia che si concluse con uno dei più grandi arresti di massa della storia di New York (oltre 700 persone vennero arrestate). La lotta era portata avanti da The Movement — a Black United Front in Harlem che comprendeva l’Harlem Tenants Association, i Morningsiders United e l’Harlem CORE, la Students’ Afro-American Society e Black Students of Hamilton Hall, gli Students for a Democratic Society at Columbia e gruppi nazionali come lo Student Non-Violent Coordinating Committee, l’SDS, con il sostegno dei movimenti nazionali per i diritti civili e contro la guerra. L’amministrazione della Columbia University, dopo due mesi di lotta, accolse le richieste fondamentali della protesta – una vittoria inequivocabile per il movimento che ora viene celebrata dalla stessa Columbia come una parte della propria storia e dei propri valori.

L’occupazione iniziata mercoledì sembrava ripercorrere le orme di questa vittoria, non solo nelle immagini che mettono le due proteste in diretta comunicazione. Giovedì pomeriggio, infatti, è stata approvata la trasparenza finanziaria, che garantisce la possibilità di sapere dove sono investiti i soldi dell’università. Ma poche ore più tardi, poco dopo il momento in cui Cornel West aveva galvanizzato gli/le studenti portando loro la sua solidarietà, la Presidente Shafik ha deciso di chiedere l’intervento della polizia – cosa che non accadeva proprio dal 1968. Più di 100 studenti sono state arrestate e accusate di “violazione di proprietà privata”. Inoltre, una cinquantina tra gli e le studenti più attive nella protesta sono stata sospese da Barnard (uno dei college affiliati a Columbia), è stato loro impedito l’accesso al campus e sono state obbligate a lasciare il proprio alloggio, con solo 15 minuti per recuperare i propri effetti personali. Alla domanda su dove potessero andare, alcune di loro hanno ricevuto per risposta una mail di Columbia che si offre di prenotare loro un volo per le proprie città di residenza – gli stessi dipendenti di Columbia hanno protestato. Tra le studenti sospese anche Isra Hirsi, la figlia di Ilhan Omar (la prima donna mussulmana eletta al congresso), che ha dichiarato: “Non ci tireremo indietro. Il minimo che possiamo fare è restare qui e tenere duro per Gaza”.

L’intervento della polizia è stato duramente criticato dal consiglio direttivo del Columbia College Student Council che venerdì ha inviato una lettera aperta alla Presidente Shafik, condannando la sua “propensione a punire i suoi studenti per aver praticato i valori che hanno imparato e che sono stati celebrati in questa istituzione: la libertà di parola e di espressione, la libertà accademica, l’impegno nel confronto e il coraggio di fronte alla repressione”. E aggiungono “Crediamo che lei abbia sacrificato i valori istituzionali più importanti del Columbia College e del Core Curriculum a pochi mesi dal suo insediamento. Mai negli ultimi quattro anni gli studenti si sono sentiti così abbandonati dall’istituzione della Columbia come in questo momento”. Gli e le studenti criticano l’idea che la polizia possa tutelare la sicurezza nel campus – il motivo addotto dalla presidente per richiederne l’intervento, praticamente smentito anche dalla polizia stessa che ha parlato di una protesta assolutamente pacifica. Inoltre, il Consiglio studentesco sottolinea quanto la polizia stessa sia una fonte di insicurezza, in particolare per gli e le studenti nere.

Un editoriale del Columbia Spectator parte proprio da qui per chiedersi se la Columbia sia in crisi. In particolare si chiede: “Perché un’università che ostenta la sua “ricca storia” di attivismo studentesco di successo cerca di contenere e reprimere la mobilitazione studentesca? Perché la stessa università che capitalizza l’eredità di Edward Said e inserisce I dannati della terra nel suo programma di studi ha così paura di parlare di decolonizzazione nella pratica?”. Sono domande che riecheggiano tra chiunque partecipi all’occupazione e che mettono in luce le contraddizioni di un’università che spera di normalizzare i saperi critici, transfemministi e decoloniali, inserendoli nei piani di studio sperando di trasformarli in puri strumenti teorici, privi di carica conflittuale e politica. Un tentativo che fallisce di fronte alla volontà e alla capacità degli e delle studenti di legare strettamente ciò che studiano, ciò per cui lottano e le condizioni di riproduzione di quegli stessi saperi. Come chiede una delle partecipanti: “cosa credevate che ne avremmo fatto di tutti quei saperi decoloniali?”, aggiungendo “non vogliamo trovarvi tra 20 anni a insegnare un genocidio che possiamo prevenire”.

E, così, mentre l’accesso al campus viene limitato a chi possiede un tesserino universitario e alcune lezioni si spostano online per paura dei disordini, mentre la stampa può accedere solo due ore al giorno, il presidio continua a crescere: nuove tende vengono piantate, si moltiplicano il cibo e le coperte a disposizione, arrivano a portare solidarietà studiosi antisionisti come Norman Finkelstein o il Presidente dell’Amazon Labor Union Chris Smalls, vengono organizzate lezioni aperte, proiezioni (tra cui un documentario sulla battaglia del ’68), danze popolari e hip hop. Una occupazione che sta già costando caro a Columbia, che in questo week end aveva programmato gli eventi per far conoscere il campus ai/alle future studenti ammesse e che ne ha dovuti cancellare molti, sostituiti dall’invito degli e delle occupanti a partecipare all’accampamento per conoscere la lotta per la liberazione della Palestina e il lato oscuro di Columbia, svelato attraverso una fanzine che riportava tutti gli investimenti problematici. Ma il prato si è trasformato anche in un luogo di preghiere, in cui il venerdì alla jumuʿa ha fatto seguito l’inizio dello shabbat e in cui studenti ebrei, cristiani, musulmani, atei e molto altro si danno il cambio per creare un muro di kefieh e teli per garantire la privacy di chi prega. Ma cresce anche la mobilitazione al di fuori di campus, con gli e le studenti sospese, ma anche gruppi di solidali (tra i quali Susan Sarandon) che marciano intorno ai cancelli di Columbia scandendo slogan per la Palestina. E la protesta si allarga anche in altre città statunitensi, con le occupazioni di Yale, della Washington University, della New School e dell’MIT (in cui gli e le studenti denunciano che dal 2015 l’istituto ha ricevuto più di 11 milioni di dollari dal Ministero della Difesa israeliano per ricerche di uso bellico), e con le marce ad Harvard, Brown, Princeton e molte altre. E Students for Justice in Palestine ci tiene a rimarcare quanto il dilagare delle proteste debba essere inteso come un supporto alla causa palestinese più che in solidarietà con la Columbia.

La protesta ha avuto così tanta eco che il Sindaco di New York Adams e la stessa Casa Bianca hanno sentito il bisogno di prendere posizione contro quello che definiscono antisemitismo, sulla base dello slogan “from the river to the sea Palestine will be free, from the sea to the river Palestine will leave forever” e sulle prese di posizione in favore della resistenza dei popoli oppressi e colonizzati. L’accusa di antisemitismo viene rigettata da tutte le organizzazioni coinvolte, che la denunciano come una modalità di schiacciare la protesta e di sviare l’attenzione, ma soprattutto da Jewish Voice for Peace, che rivendica una tradizione di proteste ebraiche contro le oppressioni, affermando: “Fin dalla Rivoluzione russa del 1905, gli/le ebree hanno detto “abbasso la polizia! abbasso la classe dirigente!”. Siamo al fianco dei/delle nostre antenate ebree come siamo al fianco della Palestina. NYPD, KKK, IOF: they are all the same”.

Oggi si entra nel sesto giorno di una protesta che non accenna a scemare e che segna il culmine di una massiccia partecipazione studentesca alle mobilitazioni per la Palestina, fatta non solo di studenti con origini palestinesi, ma anche di tutti coloro che si riconoscono nel popolo palestinese e nella sua lotta contro il colonialismo e l’apartheid. E per questo questa protesta non è solo, come gridano nei prati di Columbia, un grido per la Palestina dal “ventre della bestia” e un rifiuto della complicità occidentale con Israele, ma è anche un colpo alle speranze liberali che si possano insegnare saperi radicali solo come orpello, senza che vengano usati come cassette degli attrezzi per smantellare le strutture di potere oppressive.

Redazione MIM

[le immagini provengono dal Columbia Spectator e dalla pagina instagram di SJP Columbia]

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *